(Fonte: "Il Fatto")
Recita Il principio di Dilbert: “uno scimpanzé ritardato può bersi una cassa di birra ed essere comunque in grado di svolgere la maggior parte delle funzioni dirigenziali”.
A vent’anni dal fumetto di Scott Adams sulla stupidità aziendale, arriva il suggello della scienza: i cretini, a lavoro, fanno carriera.
Lo prova un libro dal titolo The paradox stupidity, power and Pitfalls of Functional Stupidity at Work, di Mats Alvesson e Andre Spicer. Il primo insegna “Business administration” (amministrazione aziendale) all’Università di Lund, Svezia; il secondo presiede la cattedra di “Organisational Behaviour” (comportamento organizzativo) alla Cass Business School di Londra.
La conclusione è impietosa: “Il pensiero acritico e irriflessivo, l’ottimismo cieco, è molto applaudito nelle imprese – spiega Alvesson – Le persone intelligenti mettono in discussione le cose, imbarazzando le persone che accettano l’ordine aziendale per interesse. Si può diventare impopolare se si sollevano problemi”.
Alvesson e Spicer hanno esplorato la galassia delle organizzazioni inglesi e statunitensi. “Ma i principi generali sono validi anche per l’Europa, come per tutte le organizzazioni contemporanee”, specifica Alvesson. “Per molti anni abbiamo studiato persone che lavorano in imprese pubbliche e private, inclusi molti manager. In più abbiamo consultato ricerche accademiche e gli esempi dei mass-media”.
Nascondere la polvere sotto il tappeto aiuta l’armonia. Credere ciecamente che tutto andrà per il meglio solleva lo spirito. Schivare i problemi è un toccasana per l’umore aziendale. Mentre la barca affonda, gli yesman guadagnano i favori dei piani alti. I più capaci invece si adeguano per non avere rogne, chiudendo l’intelligenza nel cassetto. In fondo, è la scelta più razionale e conveniente.
“Molti manager sposano un paradosso – spiega Alvesson –: vogliono persone autonome e competenti, ma anche fedeli, docili, affidabili, che non mettano in discussione i loro capi e i regimi aziendali”. Come durante la crisi finanziaria del 2008, innescata dalla bolla dei mutui subprime. Furono le menti più brillanti a progettare gli algoritmi finanziari che condussero al disastro. “In quel caso, le persone intelligenti hanno fatto ciò che si chiedeva loro, smarrendo la visione d’insieme. Nessuno ha messo in dubbio ciò che tutti ritenevano giusto fare, ed è scoppiata la crisi”.
Il crollo di Wall Street è un tipico esempio di stupidità funzionale, secondo la definizione di Alvesson: “Un pensiero limitato e angusto, conformista, di chi non esce mai dalla sua casella”. Il risultato? Vietato avere dubbi. Mostrarsi positivi, sempre. “L’ottimismo è una regola universale – spiega Alvesson –, ma il rischio è di ignorare problemi gravi e di prendere decisioni sbagliate”.
Nokia lo ha imparato a sue spese. “La cultura della positività, in parte, ha condotto a uno scarso senso di realtà”, spiega il professore svedese. Sulle ali dell’ottimismo, Nokia si è impegnata in progetti troppo ambiziosi. Lo smartphone per soppiantare l’iPhone arrivò tardi e deluse gli utenti. In poco tempo, Nokia cadde nel baratro, divorata da Microsoft.
“I manager, talvolta, sono vittime dell’esaltazione dell’ego – dice Alvesson –. Credono di essere grandi leader, poi si scontrano con la realtà, dove le visioni, i valori, l’autenticità e altri ideali sono difficili da raggiungere. Il loro lavoro, spesso, richiede meno creatività e intelligenza di quanto si creda”. Mentre i dipendenti si adeguano ai dirigenti, questi ultimi rendono conto agli azionisti, il motore immobile dell’universo aziendale. Al vertice della piramide, il cielo è sempre sereno e le nubi lontane: “I manager sanno stupire quelli che vogliono solo buone notizie, perché fa parte della loro formazione: lo scopo è far felice il cliente”.
La stupidità funzionale è un virus democratico, nessuno ne è immune. “Contagia piccole e grandi aziende come Pepsi, British Airways, Amazon”, ammette Alvesson. Nemmeno la Silicon Valley, patria dell’economia della conoscenza, ne ha scovato l’antidoto. “Gran parte delle organizzazioni che, in apparenza, dipendono di più da informazioni e conoscenza, possono comportarsi in modo abbastanza stupido”, scrivono Spicer e Alvesson nel loro libro. “Le aziende assumono persone brillanti che finiscono per fare cose stupide (…) per capire come mai individui intelligenti si lascino conquistare da idee stupide, ricavandone una ricompensa, dobbiamo vedere qual è il ruolo della stupidità funzionale”. Alvesson è chiaro: “Aiuta l’adattamento, la concentrazione sul lavoro, l’entusiasmo e facilita le relazioni sociali”.
Nel breve periodo, la stupidità è il lubrificante degli ingranaggi aziendali. La catena di comando funziona spedita, l’armonia regna sovrana, la persone lavorano come un sol uomo. Ma nei tempi lunghi il disastro è garantito. In attesa del precipizio, le persone imparano la lezione: se qualcosa non va, lingua in bocca e sorriso largo. Facile, per un animo semplice.
Per i più brillanti, un calvario vero: “Iniziano a dubitare sul senso e l’utilità del proprio lavoro; perdono concentrazione, entusiasmo e motivazioni”. Nella giungla della stupidità, vince il camaleonte: “Seguire il flusso, usare slogan e vocaboli aziendali è un vantaggio – spiega Alvesson –. Limitarsi al proprio ruolo senza mettere in discussione nulla spesso paga se vuoi far carriera”.
Il coinvolgimento dei dipendenti, di sicuro, è una soluzione al paradosso della stupidità: “Far percepire ai lavoratori il senso d’appartenenza alla stessa famiglia, promuovere un’identità comune”. Alvesson suggerisce la partecipazione agli utili da parte dei dipendenti: “Una scelta di successo per la banca svedese Handelsbanken”. Non mancano antidoti meno ortodossi: “Nominare, in azienda, avvocati del diavolo per argomentare contro alcuni punti di vista dominanti, oppure una task force per identificare principi e pratiche critiche”.
Il rimedio più efficace, forse, è quello più antico: la collaborazione tra le persone. Non serve inventare la ruota: “I lavoratori possono provare a pensare in modo indipendente, parlarsi l’un l’altro, verificare se gli altri hanno l’impressione di eseguire istruzioni stupide che cozzano con la realtà. Poi, se è il caso, cercare a poco a poco di comunicare intuizioni più ampie. È la soluzione migliore e più prudente, almeno all’inizio”.
Collaborazione e intelligenza; stupidità e competizione. Un dilemma vecchio come l’uomo. Per ora, in ufficio, il pendolo oscilla dalla parte sbagliata.
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Recita Il principio di Dilbert: “uno scimpanzé ritardato può bersi una cassa di birra ed essere comunque in grado di svolgere la maggior parte delle funzioni dirigenziali”.
A vent’anni dal fumetto di Scott Adams sulla stupidità aziendale, arriva il suggello della scienza: i cretini, a lavoro, fanno carriera.
Lo prova un libro dal titolo The paradox stupidity, power and Pitfalls of Functional Stupidity at Work, di Mats Alvesson e Andre Spicer. Il primo insegna “Business administration” (amministrazione aziendale) all’Università di Lund, Svezia; il secondo presiede la cattedra di “Organisational Behaviour” (comportamento organizzativo) alla Cass Business School di Londra.
La conclusione è impietosa: “Il pensiero acritico e irriflessivo, l’ottimismo cieco, è molto applaudito nelle imprese – spiega Alvesson – Le persone intelligenti mettono in discussione le cose, imbarazzando le persone che accettano l’ordine aziendale per interesse. Si può diventare impopolare se si sollevano problemi”.
Alvesson e Spicer hanno esplorato la galassia delle organizzazioni inglesi e statunitensi. “Ma i principi generali sono validi anche per l’Europa, come per tutte le organizzazioni contemporanee”, specifica Alvesson. “Per molti anni abbiamo studiato persone che lavorano in imprese pubbliche e private, inclusi molti manager. In più abbiamo consultato ricerche accademiche e gli esempi dei mass-media”.
Nascondere la polvere sotto il tappeto aiuta l’armonia. Credere ciecamente che tutto andrà per il meglio solleva lo spirito. Schivare i problemi è un toccasana per l’umore aziendale. Mentre la barca affonda, gli yesman guadagnano i favori dei piani alti. I più capaci invece si adeguano per non avere rogne, chiudendo l’intelligenza nel cassetto. In fondo, è la scelta più razionale e conveniente.
“Molti manager sposano un paradosso – spiega Alvesson –: vogliono persone autonome e competenti, ma anche fedeli, docili, affidabili, che non mettano in discussione i loro capi e i regimi aziendali”. Come durante la crisi finanziaria del 2008, innescata dalla bolla dei mutui subprime. Furono le menti più brillanti a progettare gli algoritmi finanziari che condussero al disastro. “In quel caso, le persone intelligenti hanno fatto ciò che si chiedeva loro, smarrendo la visione d’insieme. Nessuno ha messo in dubbio ciò che tutti ritenevano giusto fare, ed è scoppiata la crisi”.
Il crollo di Wall Street è un tipico esempio di stupidità funzionale, secondo la definizione di Alvesson: “Un pensiero limitato e angusto, conformista, di chi non esce mai dalla sua casella”. Il risultato? Vietato avere dubbi. Mostrarsi positivi, sempre. “L’ottimismo è una regola universale – spiega Alvesson –, ma il rischio è di ignorare problemi gravi e di prendere decisioni sbagliate”.
Nokia lo ha imparato a sue spese. “La cultura della positività, in parte, ha condotto a uno scarso senso di realtà”, spiega il professore svedese. Sulle ali dell’ottimismo, Nokia si è impegnata in progetti troppo ambiziosi. Lo smartphone per soppiantare l’iPhone arrivò tardi e deluse gli utenti. In poco tempo, Nokia cadde nel baratro, divorata da Microsoft.
“I manager, talvolta, sono vittime dell’esaltazione dell’ego – dice Alvesson –. Credono di essere grandi leader, poi si scontrano con la realtà, dove le visioni, i valori, l’autenticità e altri ideali sono difficili da raggiungere. Il loro lavoro, spesso, richiede meno creatività e intelligenza di quanto si creda”. Mentre i dipendenti si adeguano ai dirigenti, questi ultimi rendono conto agli azionisti, il motore immobile dell’universo aziendale. Al vertice della piramide, il cielo è sempre sereno e le nubi lontane: “I manager sanno stupire quelli che vogliono solo buone notizie, perché fa parte della loro formazione: lo scopo è far felice il cliente”.
La stupidità funzionale è un virus democratico, nessuno ne è immune. “Contagia piccole e grandi aziende come Pepsi, British Airways, Amazon”, ammette Alvesson. Nemmeno la Silicon Valley, patria dell’economia della conoscenza, ne ha scovato l’antidoto. “Gran parte delle organizzazioni che, in apparenza, dipendono di più da informazioni e conoscenza, possono comportarsi in modo abbastanza stupido”, scrivono Spicer e Alvesson nel loro libro. “Le aziende assumono persone brillanti che finiscono per fare cose stupide (…) per capire come mai individui intelligenti si lascino conquistare da idee stupide, ricavandone una ricompensa, dobbiamo vedere qual è il ruolo della stupidità funzionale”. Alvesson è chiaro: “Aiuta l’adattamento, la concentrazione sul lavoro, l’entusiasmo e facilita le relazioni sociali”.
Nel breve periodo, la stupidità è il lubrificante degli ingranaggi aziendali. La catena di comando funziona spedita, l’armonia regna sovrana, la persone lavorano come un sol uomo. Ma nei tempi lunghi il disastro è garantito. In attesa del precipizio, le persone imparano la lezione: se qualcosa non va, lingua in bocca e sorriso largo. Facile, per un animo semplice.
Per i più brillanti, un calvario vero: “Iniziano a dubitare sul senso e l’utilità del proprio lavoro; perdono concentrazione, entusiasmo e motivazioni”. Nella giungla della stupidità, vince il camaleonte: “Seguire il flusso, usare slogan e vocaboli aziendali è un vantaggio – spiega Alvesson –. Limitarsi al proprio ruolo senza mettere in discussione nulla spesso paga se vuoi far carriera”.
Il coinvolgimento dei dipendenti, di sicuro, è una soluzione al paradosso della stupidità: “Far percepire ai lavoratori il senso d’appartenenza alla stessa famiglia, promuovere un’identità comune”. Alvesson suggerisce la partecipazione agli utili da parte dei dipendenti: “Una scelta di successo per la banca svedese Handelsbanken”. Non mancano antidoti meno ortodossi: “Nominare, in azienda, avvocati del diavolo per argomentare contro alcuni punti di vista dominanti, oppure una task force per identificare principi e pratiche critiche”.
Il rimedio più efficace, forse, è quello più antico: la collaborazione tra le persone. Non serve inventare la ruota: “I lavoratori possono provare a pensare in modo indipendente, parlarsi l’un l’altro, verificare se gli altri hanno l’impressione di eseguire istruzioni stupide che cozzano con la realtà. Poi, se è il caso, cercare a poco a poco di comunicare intuizioni più ampie. È la soluzione migliore e più prudente, almeno all’inizio”.
Collaborazione e intelligenza; stupidità e competizione. Un dilemma vecchio come l’uomo. Per ora, in ufficio, il pendolo oscilla dalla parte sbagliata.
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