giovedì 31 dicembre 2015

La ISO 9001:2015 e il contesto di un'organizzazione - 2

Comprendere a fondo il contesto in cui si opera può richiedere molte attività estremamente diverse tra loro che appartengono al mondo di ogni organizzazione o al contesto in cui essa opera.

La prima che ci viene in mente, naturalmente, è l'analisi della concorrenza ma poi abbiamo anche lo studio delle nuove tecnologie che potrebbero essere utilizzate all'interno dell'organizzazione, l'analisi dei risultati delle verifiche ispettive interne, lo studio dei costi della qualità, la presa di coscienza dei giudizi dei clienti, i progressi della cultura della nostra organizzazione, l'analisi delle nostre performance, il confronto tra le nostre best practice e quelle della concorrenza, l'esame periodico della soddisfazione del personale, lo studio dei trend del mercato di riferimento, l'analisi della fluttuazione dei prezzi delle materie prime e della loro disponibilità, la preparazione ai possibili cambiamenti nei regolamenti e nelle cogenze, ecc.

A voi ne vengono in mente altre?

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mercoledì 30 dicembre 2015

La ISO 9001:2015 e il contesto di un'organizzazione

Il capitolo 4 della nuova ISO 9001:2015 ha a che fare con il concetto di "contesto" dell'organizzazione e richiede che:
  1. si abbia una comprensione della propria organizzazione e del contesto in cui opera;
  2. si abbia coscienza delle problematiche interne all'organizzazione ed esterne (appartenenti, cioè, al contesto in cui opera) che possono in qualche modo influenzarla e si mantengano monitorate le informazioni ad esse relative;
  3. si conoscano le necessità e le aspettative di tutte le parti interessate (appartenenti, cioè, all'organizzazione e al contesto nel quale opera)
Questi requisiti inseriscono a pieno titolo il Sistema Qualità all'interno del processo di pianificazione strategica di ogni organizzazione perché, come minimo, per chiarirsi le idee in merito alle problematiche che potrebbero diventare rilevanti per ciò che concerne i suoi scopi e le sue strategie, ogni azienda deve avere le idee chiare sulla strategia da seguire!

Ecco, dunque, che questo capitolo introduce il concetto del pensare in maniera strategica quando si sviluppa un Sistema Qualità.

Ma quali sono le attività che bisogna mettere in pratica per adempiere a questi requisiti?
Le vedremo domani, chiudendo questo anno con voi. ;)

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martedì 29 dicembre 2015

Un manager alle prime armi (2)

Le aspettative iniziali di un nuovo manager sono spesso incomplete e semplicistiche perché dettate, solitamente, solo dalla sua motivazione a ricoprire questo ruolo e dalla sua esperienza precedente.

Del nuovo ruolo, solitamente, si crede che si apprezzerà l'autorità acquisita, l'avere un ufficio tutto per sé, il poter presentare le proprie idee e pensieri senza problemi ma si tende a dimenticare il retro della medaglia che è composto dalle responsabilità associate alla gestione del lavoro di altre persone, dal saper prendere buone decisioni e supportarle, dall'essere sempre un esempio per gli altri, ecc.

Se a tutto questo aggiungete il fatto che i rapporti con i nuovi collaboratori spesso sono particolari perché - in molti casi - si tratta di ex colleghi che sono diventati dei subordinati e che sono preoccupati più che altro del fatto che il nuovo capo non riduca la loro autonomia, capite che il novello manager ha abbastanza grattacapi e che occorre un buon periodo di assestamento perché sia in grado di dare il meglio di sé.

Se - nonostante tutte queste difficoltà - siete davvero motivati a diventare un buon manager, vi segnaliamo questo articolo che avevamo pubblicato tempo fa su QualitiAmo e che offre qualche consiglio a chi vada a  ricoprire questo nuovo ruolo.
Buona lettura!

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lunedì 28 dicembre 2015

Un manager alle prime armi

Quando una persona si trova per la prima volta a ricoprire il ruolo di manager, deve capire cosa significhi svolgere questo mestiere e cosa faccia un professionista di questo genere.

La cosa può sembrare assolutamente banale ma una delle difficoltà più grandi che sperimenta chi non ha mai svolto questo mestiere è proprio comprendere come il contributo personale sia completamente distinto da quello che si deve dare come manager. In questo secondo caso, infatti, non bisogna rispondere solamente dei propri risultati ma anche di quelli delle persone che ci si trova a dover gestire.

I nuovi manager hanno, fondamentalmente, due modi per imparare:.
  • rifarsi alle esperienze che hanno avuto in precedenza nelle vesti di collaboratori di altri manager e osservandoli all'opera;
  • apprendere dalle interazioni con i manager con i quali devono relazionarsi nel loro nuovo ruolo
E' durante il primo anno che un nuovo manager capisce che ricoprire il ruolo di manager è qualcosa di molto diverso da ciò che credeva, soprattutto a causa degli inevitabili problemi che deve imparare ad affrontare e delle aspettative che i suoi collaboratori ripongono nella sua persona.

I problemi nascono quando i nuovi manager non vengono preparati adeguatamente a ricoprire questo ruolo e quando il nuovo lavoro viene presentato come una sorta di "ricompensa" per aver lavorato bene.  Quando il nuovo manager capisce che la posizione, invece, prevede un modo completamente diverso di affrontare il lavoro quotridiano e responsabilità alle quali non è stato adeguatamente preparato, ecco che i nodi vengono al pettine e che la frustrazione diventa la compagna quotidiana che lo aspetta alla scrivania.

I problemi che un nuovo manager sperimenta sono essenzialmente tre:
  1. riconciliare le aspettative iniziali con il suo lavoro quotidiano;
  2. gestire i conflitti con i collaboratori;
  3. dare un senso e soddisfare le aspettative dei superiori

Questi professionisti si trovano per la prima volta ad avere a che fare con responsbailità di lungo termine e con molti aspetti che non hanno mai preso in considerazione prima come - ad esempio - quello finanziario (controllo delle spese, calcolo del ritorno sugli investimenti fatti, ecc.), quello del business in generale (a seconda dei casi può trattarsi dello sviluppo del prodotto, della gestione dei livelli del magazzino, dell'aumento delle quote di mercato, ecc.) e quello organizzativo (che si concretizza nella preparazione delle politiche, nella gestione delle risorse umane, ecc.)

Capite bene che questo è un lavoro completamente diverso da quello che i nuovi manager svolgevano prima, quando bastava che fossero dei bravi tecnici, dei bravi venditori o dei bravi operai per essere felici di ciò che avevano fatto durante la giornata lavorativa.
I manager, infatti, vengono riconosciuti in base al contributo che riescono dare agli obiettivi aziendali nel loro complesso. L'altro aspetto ostico della vicenda è che il lavoro di un manager viene svolto attraverso quello dei suoi collaboratori. e questa non è una differenza da poco.

Continueremo il discorso domani. Nel frattempo, qualcuno di voi si è trovato in queste condizioni? Se sì, come ha superato gli inevitabili disagi?

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giovedì 24 dicembre 2015

Scegliere un ente certificatore nell'ottica della nuova ISO 9001:2015

Le organizzazioni non cambiano di frequente l'ente che le ha certificate secondo la norma ISO 9001, dunque selezionarne uno buono richiede una cura notevole per evidare danni futuri.
Alcuni clienti - inoltre - sono molto attenti a chi certifica il vostro sistema qualità, dunque è importante verificarne la reputazione.

Se la vostra azienda ha diverse sedi sparse nel paese o in giro per il mondo, assicuratevi che l'ente certificatore possa garantire una presenza in loco per venire incontro alle vostre esigenze.
Se, inoltre, la vostra organizzazione sta pianificando di integrare il Sistema Qualità con altri sistemi di gestione, assicuratevi che l'ente possa certificarvi anche secondo questi altri standard e che gli auditor abbiano esperienza di sistemi integrati.

Anche chi ha accreditato l'ente è importante. Verificate che l'ente di accreditamento sia riconosciuto là dove opera la vostra organizzazione e che i vostri clienti lo apprezzino.

Chiedete anche ai rappresentanti dell'ente di fornirvi le proprie referenze e di spiegarvi come hanno fornito valore aggiunto ad alcuni loro clienti specifici, preferibilmente a clienti che, per settore, grandezza dell'organizzazione, business trattato, sono simili a voi.

Verificate, poi, la flessibilità dell'ente nel rispondere alle singole esigenze del cliente.

Infine, considerate - naturalmente - il prezzo proposto e assicuratevi che copra tutti i passaggi del percorso di certificazione (costo dell'audit presso il cliente, eventuali costi per lo spostamento della data decisa per la verifica, mantenimento della certificazione nel tempo, spese per trasporto, vitto e alloggio degli auditor, ecc.).

In ogni caso, prima di impegnarvi con un contratto che vi veda impegnati per qualche anno, la strada migliore da percorrere è quella di chiedere all'ente che avete scelto di compiere un pre-audit per verificare che sia in grado di fornirvi tutto ciò che vi serve.

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mercoledì 23 dicembre 2015

Scegliere un consulente che ci aiuti ad implementare la ISO 9001:2015

Su QualitiAmo abbiamo già spiegato cosa prendere in considerazione quando si deve scegliere un consulente che ci aiuti a implementare la ISO 9001. Alla luce della nuova ISO 9001:2015 - però - vediamo se possiamo definire ancora meglio questi concetti, magari ricorrendo alla ISO 10019:2005 che definisce un consulente che si occupa dei sistemi per la gestione della qualità come una persona che assiste un'organizzazione nella realizzazione del proprio sistema, fornendo informazioni utili e consigli.

Il documento ci raccomanda di prestare attenzione ad alcune caratteristiche ben precise quando si sceglie un consulente di questo tipo e, anche dopo aver letto la nuova norma, direi che rimangono consigli utilissimi.
Vediamo insieme in quali campi si collocano le caratteristiche elencate.

Etica

Seguire una certa etica professionale è una caratteristica chiave per un consulente. Un consulente al quale manchi etica, infatti, può fare addirittura più danni di un professionista incompetente.

Un modo per verificare se in passato il consulente abbia agito bene in tal senso è quello di parlare con i suoi clienti e vedere se esiste qualche lamentela che riguardi questo aspetto.

Esperienza

Anche l'esperienza, naturalmente, sarà fondamentale. Il consulente dovrà essere in grado di comprendere il contesto dell'organizzazione e la situazione particolare nella quale si trova e fornire una soluzione creativa studiata ad hoc in base alle sue esigenze.

La capacità di ritagliare soluzioni pensate sul cliente deriva dall'esperienza che si matura avendo a che fare con diverse realtà che si differenziano in base alla grandezza, al settore di appartenza, alla posizione geografica, alla complessità, ecc.

Conoscenze

Un consulente dovrà anche aver compiuto il percorso di studi più adatto a supportare il lavoro che deve svolgere e avere le competenze necessarie per capire i prodotti e i servizi delle singole organizzazioni per le quali dovrà lavorare.
Dovrà conoscere, inoltre, tutti i principali standard sui sistemi di gestione e altre norme internazionali richieste per implementare bene i sistemi. Alcuni esempi possono includere norme specifiche del settore, standard di prodotto, indicazioni per la gestione della sicurezza nello specifico settore, ecc.

Un buon consulente è bene anche che abbia esperienza nella gestione dei progetti e nelle metodologie e tecniche della qualità, del problem solving, del risk management, della gestione del cambiamento, ecc.

Vanno considerate anche precedenti esperienze lavorative nel settore dell'organizzazione e nella gestione diretta della Qualità.

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martedì 22 dicembre 2015

ISO 9001:2015 - Cosa serve per continuare ad avere successo anche in futuro?

Come si determina cosa serve per continuare ad avere successo anche in futuro? Come può essere di supporto in questo ragionamento la ISO 9001:2015?

A seconda di quale sia lo scopo della vostra organizzazione, conviene partire da ciò che vi serve oggi per funzionare bene, fare soldi, ricevere fondi, ecc.
Una volta che l'avrete stabilito, sarete in grado di quantificare i costi per sostenere il vostro successo nel tempo.

Alcuni costi, naturalmente, sono ovvi come - ad esempio - quelli per le strutture, i materiali, la manodopera ma si tende a dimenticare quelli legati alla manutenzione, alla gestione dei permessi, al mantenimento delle certificazioni.

Un atteggiamento "risk-based thinking", un buon riesame della Direzione e l'analisi dei dati sono altri input utilissimi per valutare le azioni già intraprese e decidere quali azioni future occorrono per migliorarne i risultati.

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lunedì 21 dicembre 2015

Senti come si lavora bene

(Fonte: "D")

Un assolo di Keith Richards non è proprio l'ideale per concentrarsi sul lavoro, ma ai tempi del coworking e degli open space un paio di cufie con della buona musica possono servire a far fluire le idee.
Ecco qualche trucco per scegliere la colonna sonora perfetta.
  • Evitare canzoni con molto testo : crea confusione. Meglio scegliere canzoni in una lingua sconosciuta, per esempio come quella inventata dai Sigur Ròs.
  • Scegliere brani ritmati, ripetitivi, per evitare che la mente spenda troppe risorse nel prevedere quello che sta ascoltando. Un esempio? "Music for Airports" di Brian Eno.
  • I benefici della musica sul lavoro scompaiono se i testi sono ripetuti troppo spesso arrivando alla noia. Chi lavora con le emozioni e chi sul lavoro deve mostrarsi sorridente può ascoltare brani rock allegri o può ascoltare il proprio cantante preferito: il buon umore e le idee giuste, magicamente, si materializzeranno. 
Ed ecco i generi musicali migliori che stimolano la produzione:
  • Immancabile, il jazz di Miles Davis e Alice Coltrane, una varietà enorme di stati d'animo e di ritmi.
  • Johann Sebastian Bach, per la sua elegante progressione matematica, è il top della musica classica.
  •  Steve Reich e Philip Glass sono compositori minimalisti che inducono la trance meditativa, quello che ci vuole per non distrarsi.
  • La chill-out di Bonobo e Cinematic orchestra aiuta a smaltire lo stess.
  • L'ambient di Brian Eno e Aphex Twin resta un piacevole sottofondo.
  • Le colonne sonore dei videogame sono fatte apposta per la concentrazione. La London Symphony Orchestra, ad esempio, ne ha registrate dozzine
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venerdì 18 dicembre 2015

Cosa fare quando le cose vanno bene?

Quando le cose vanno bene, la cosa più intelligente da fare è concentrarsi su chi vi ha dato una mano a realizzare i nostri obiettivi e dire grazie a coloro che vi hanno aiutato.
Non concentratevi solo su voi stessi nel ricercare le ragioni del successo che avete raggiunto. Il vostro obiettivo deve essere quello di portare le persone che lavorano con voi e fare le cose bene e non c'è niente di meglio che riconoscere il loro impegno nel raggiungimento di certi obiettivi per stimolarle a fare ancora di più in futuro.


A tutti piace lavorare con qualcuno che ne apprezza il contributo. Non dimenticatelo mai quando avrete la tentazione di gongolarvi nell'autocompiacimento per un obiettivo raggiunto.Senza una squadra non siete niente e tutto quello che potete fare da soli potreste migliorarlo semplicente facendovi aiutare dai vostri colleghi e sfruttando le loro conoscenze e competenze specifiche.
 

E' la sinergia che porta i risultati migliori.

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giovedì 17 dicembre 2015

Cosa fare quando le cose vanno male?

Dove bisogna guardare quando le cose iniziano ad andare male?
State pur sicuri che, prima o poi, vi accorgerete che per identificare un colpevole dovrete guardarvi allo specchio.

Naturalmente la nostra è un'affermazione che suona come una provocazione ma desideravamo ricordarvi che, quando le cose vanno male, è sempre più facile dare la colpa agli altri e che questo è un grande errore.  
 
Non stiamo dicendo che gli altri non sbaglino mai e che gli unici a sbagliare siate voi ma che è sicuramente più utile iniziare ad assumersi la propria parte di responsabilità personale per tutto ciò che non è andato secondo i piani perché questo permette di assumersi anche la piena responsabilità di ricercare una soluzione.

Una volta che ci si è guardati allo specchio, si può riflettere su questioni quali: 
1) cosa posso imparare da questa situazione?2) Come posso impedire che questo problema si verifichi di nuovo in futuro?

Il passo successivo, naturalmente, è una grande attenzione al processo della comunicazione. 
Quando qualcosa va storto, comunicare bene diventa ancora più essenziale.Informate il vostro team di quello che è successo in modo che in futuro tutti stiano più attenti ad evitare problemi simili e impegnatevi insieme per risolvere i problemi e fare tesoro dell'esperienza negativa fatta.

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mercoledì 16 dicembre 2015

Le quattro attitudini da capitalizzare

(Fonte: "D")

Il sogno americano del self-made man non è mai stato così italiano. Parola di Annalisa Rolandi, psicologa (...), che racconta come il talento sarà sempre più la carta vincente sul lavoro, mentre le competenze professionali contano meno che in passato.

"Da un'indagine sugli amministratori delegati di grandi imprese italiane è emerso il disorientamento del management, dal momento che i modelli di gestione tipici del passato sono stati messi in discussione dallo tsunami economico di questi anni" (...)

Ancora non è chiaro quali saranno le nuove competenze su cui puntare per rilanciare le società, per questo si è smesso di selezionare in base alla laurea e al master e ora si punta su persone "H.E.R.O.", come li definisce Fred Luthans, professore amiericano di psicologia del lavoro: un acronimo che sta per "hope" nel senso di determinazione, efficacia, "resilience" ovvero elasticità e ottimismo. Sono queste le fondamenta del "capitale psicologico", le 4 caratteristiche comportamentali che una persona oggi deve avere per fare strada nel mondo del lavoro.

Le persone determnate che hanno la certezza di sapercela fare, quelle che meglio riescono a risollevarsi dagli insuccessi e gli ottimisti che sanno trovare strade alternative per raggiungere il proprio obiettivo, sono le più ricercate dalle aziende, dice la professoressa Rolandi, che rassicura anche coloro che non ne sono istintivamente equipaggiati, perché il 50% ha queste doti grazie alla genetica, ma l'altra metà se le costruisce con il tempo, come frutto di un bagaglio culturale ed esperenziale.

Se il capitale psicologico è il patrimonio che caratterizza un individuo rispetto a un altro - ed è anche quello che insomma aiuta a esprimere il talento che ognuno possiede, trovando in se stessi le risorse per riuscire - il metodo H.E.R.O. si adatta perfettamente alla nuova era digitale. Molti perfetti sconosciuti, attarverso un'applicazione per lo smartphone, un servizio online o un sito, sono diventati famosi e ricchi basandosi soprattutto sulle proprie buone "vibrazioni". 
"Oggi il vantaggio competitivo è raggiungibile attraverso la liberazione e lo sviluppo delle potenzialità psicologiche positive", sostiene Rolandi, "e funziona a maggior ragione nel campo digitale, in cui c'è più possibilità che un singolo abbia successo al di là del proprio curriculum".

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martedì 15 dicembre 2015

Stage - uno su dieci ce la fa

(Fonte: "D")

Sono 320mila i giovani che hanno fatto uno stage in un'impresa privata nel 2014, secondo il dossier "Formazione continua e tirocini formativi" del rapporto Excelsior di Unioncamere.
E rispetto a chi li ha preceduti - almeno coloro che hanno svolto stage "extracurricolari", cioè dopo il diploma o la laurea - hanno avuto condizioni migliori: da quando, tra il 2013 e il 2014, è entrata in vigore regione per regione una nuova normativa, infatti, si è finalmente delineato un chiaro schema di garanzie e diritti, tra cui quello al rimborso spese - tra i temi più importanti per i giovani che, il 10 novembre, sono scesi in  piazza in quattro continenti per la prima "Giornata internazionale degli stagisti".

I tirocini extracurricolari in Italia non possono più essere gratuiti: ogni regione ha posto un limite minimo - dai 300 euro al mese della Sicilia e di Trento ai 600 di Piemonte e Abruzzo - per garantirne la sostenibilità economica e non escludere i meno abbienti dall'uso di questo strumento per accrescere le competenze.

Resta invece aperto il problema della confusa regolamentazione dei tirocini curricolari, quelli svolti per esempio dagli studenti. Per loro non solo non c'è alcun diritto al rimborso, ma manca un quadro normativo definito, dato che il vecchio decreto ministeriale di riferimento, (il 142/1998), per effetto dell'accavallamento con le nuove leggi regionali, risulta inutilizzabile.

Ma gli stagisti d'Italia sono molti di più dei 320mila censiti da Unioncamere: a quelli nelle aziende private vanno aggiunti quelli in enti pubblici e non profit, per un totale intorno al mezzo milione l'anno.

Sempre secondo il rapporto, un aspetto rilevante è che i tirocinanti sono in leggero aumento rispetto all'anno precedente (+3,1%) e lo stage resta una porta appena socchiusa sul mondo del lavoro: solo l'11,9% nel 2014 ha avuto una proposta di assunzione.
Un miglioramento, comunque, rispetto al passato: tra il 2010 e il 2013 la percentuale non aveva mai superato il 10%.

Anche per questo è importante scegliere con cognizione: conoscere il mercato degli stage e confrontare le offerte per limitare le perdite di tempo. Specie perché, in Italia, la categoria non è fatta solo di giovanissimi: quasi un terzo degli stagisti del 2014 viene dall'università (...).
Interessate ai profili "alti" sono soprattutto le grandi aziende (in quelle con oltre 250 dipendenti, 3 stagisti su 5 sono laureandi o laureati), che sono anche quelle che assumono di più (3 stagisti su 10). 

Il settore più propenso a stabilizzare è quello dell'informatica e telecomunicazioni (33% di stage diventano contratti). Solo il 6% viene assunto invece nella sanità privata.

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lunedì 14 dicembre 2015

Iniziative lean che non funzionano. Perché? (5)

L'ultima ragione che farà sicuramente fallire qualsiasi iniziativa lean, anche nell'azienda che l'abbia pianificata meglio, è la mancanza di una leadership forte.

Capite da soli che questo è anche il problema più difficile da risolvere perché, se manca un leader, è difficile crearlo da zero.
In questo caso non esiste una vera e propria soluzione ma questo aspetto va tenuto, comunque, nella giusta considerazione.

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venerdì 11 dicembre 2015

Iniziative lean che non funzionano. Perché? (4)

Il quarto motivo che impedisce ai progetti lean di essere degnamente implementati nelle organizzazioni è la mancanza di obiettivi ben definiti e il mancato chiarimento delle aspettative relative al progetto nel suo insieme.

Anche la mancanza di un monitoraggio continuo dei progressi fatti e dell'applicazione di eventuali azioni correttive crea problemi, ovviamente.

La soluzione, in questo caso, è decidere cosa si vuole ottenere dall'iniziativa lean che si vuole mettere in pratica, stabilire obiettivi ben chiari e mettere in campo misurazioni atte a verificare che vengano raggiuntio.

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giovedì 10 dicembre 2015

Iniziative lean che non funzionano. Perché? (3)

Tra i motivi che più spesso portano al fallimento di un progetto lean c'è la mancanza di una vera e propria preparazione per affrontarlo degnamente.

Preparate un buon piano, dunque, e studiatelo nei minimi particolari.
Non dimenticate di considerare la formazione di tutte le persone che dovranno partecipare al progetto, la gestione di team di lavoro multifunzionali, l'empowerment delle persone e lo stanziamento di tutte le risorse necessarie.

Senza pianificazione non si va da nessuna parte, a maggior ragione se avete in mente di implementare un cambiamento culturale importante come quello proposto dal lean thinking.

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mercoledì 9 dicembre 2015

Iniziative lean che non funzionano. Perché? (2)

Il secondo motivo per cui le iniziative lean non funzionano all'interno delle organizzazioni che le implementano è perché mancano una profonda comprensione di ciò che si sta cercando di fare e un supporto reale da parte delle persone.

Bisogna sforzarsi di coinvolgere tutti i lavoratori che devono partecipare all'iniziativa lean affinché si impegnino dando il massimo e sforzandosi in tutti i modi di contribuire al progetto.
In caso contrario, i miglioramenti ottenuti non saranno sicuramente in linea con le aspettative.

Ma come si fa a convincere davvero le persone?

Come abbiamo ripetuto spesso, bisogna, prima di tutto, spiegare bene cosa si intende fare in modo da rendere il cambiamento meno traumatico. Se le persone non sanno cosa aspettarsi, è probabile che sviluppino una paura nei confronti di qualsiasi cosa destinata a cambiare la loro routine quotidiana.

La seconda cosa da fare è far notare come ogni persona che parteciperà al progetto potrà ottenere qualche vantaggio dal miglioramento collettivo del modo di lavorare. 

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lunedì 7 dicembre 2015

Iniziative lean che non funzionano. Perché?

Quali sono le ragioni principali che portano al fallimento degli interventi lean all'interno delle nostre organizzazioni?

Qualche giorno fa si discuteva di questo argomento su LinkedIn e sono uscite alcune considerazioni interessanti che ho pensato di riportarvi.

Il primo motivo che porta al fallimento di un'iniziativa lean è che non c'è la necessaria pianificazione.

E quale può essere la soluzione più ovvia a questa problematica?
Non si può semplicemente decidere in un giorno di diventare lean e sperare che tutto vada per il verso giusto. Occorre determinare quali vincoli ostacolino la nostra capacità di migliorare la velocità di consegna, aumentare la qualità di prodotti e servizi ed eliminare le attività prive di valore aggiunto
Come se tutto questo non bastasse, il vostro piano di implementazione dovrà essere sviluppato in base alla mappatura del valore e all'analisi dei gap esistenti.
Quali saranno gli altri motivi che portano all'insuccesso delle iniziative lean? Ne parleremo nei prossimi giorni. Voi, nel frattempo, avete qualche idea in proposito?

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venerdì 4 dicembre 2015

L'ufficio ideale ha piante e interni blu

(Fonte: "Sette")

Per tanti diventa letteralmente una seconda casa: l'ufficio, per moltissimi lavoratori, è il luogo dove di fatto si passa la maggior parte del tempo. Architettura, organizzazione e design possono fare la differenza fra un posto dove, lavorare, mette alla prova salute e benessere, e invece un ambiente gradevole, che stimola produttività e creatività facendo persino stare meglio.

Come progettare spazi "giusti"?

(...)

Architetti, psicologi e neurologi hanno condotto esperimenti su alcuni volontari per capire quali stimoli ambientali influenzino di più parametri e alcune attività svolte in azienda, come la concentrazione o la socializzazione, l'apprendimento o la collaborazione fra colleghi.
Obiettivo: creare per ciascuna impresa l'ufficio ideale, che risponda ai bisogni della ditta e degli impiegati allo stesso tempo.

(...)

Il metodo punta a una progettazione in cui ci sia un ascolto attento dei lavoratori che poi dovranno usufruire degli spazi: non è più possibile prescinderne, oggi, e l'approccio multidisciplinare con psicologi e neurologi serve a tener conto di tutte le dimensioni del benessere.

(...)

Non c'è una ricetta valida per tutti, perché ogni realtà lavorativa è un caso a sé; il metodo però consente di tagliare su misura spazi e ambienti tenendo conto di elementi standard che sono alla base di qualsiasi buona progettazione a cui si aggiungono i dati che emergono dalle nostre sperimentazioni, che per esempio indicano come stimolare i cinque sensi con colori, materiali, suoni e odori comporti esiti diversi sulle prestazioni dei lavoratori.

Lo smart working del futuro prevede anche uffici verdi con un occhio di riguardo alla qualità dell'aria indoor (...).
Si è verificato che in presenza di composti organici volatili, anidride carbonica in eccesso e scarsa ventilazione, le performance cognitive peggiorano (...)

Anche minimi miglioramenti dell'aria in ufficio possono avere un impatto sulle capacità decisionali e la creatività degli occupanti.

Il blu è il colore più adatto a potenziare le prestazioni dei lavoratori in svariati ambiti di attività (...) perché non induce affaticamento cognitivo ed è rilassante: tocchi in sfumature blu vicino alla scrivania possono migliorare memoria e concentrazione.

Il verde, colore affine al blu, ha effetti simili perché facilita la memoria e aumenta la capacità di apprendimento, per cui è ottimo per gli spazi dedicati allo studio o alla lettura di documenti.

Rosso e grigio sono più legati alla capacità di focalizzazione e concentrazione, quando è necessario essere molto attenti al compito che si sta svolgendo senza avere distrazioni.

Materiali e luci influenzano anch'essi le prestazioni: gli esperimenti degli architetti (...) mostrano per esempio che una stanza con arredi in legno e luci calde concentrate sul tavolo è adatta ad attività di formazione / apprendimento individuali mentre peggiora i risultati se si deve tenere una riunione decisionale.

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giovedì 3 dicembre 2015

Come diventare puntuale

Siete dei ritardatari senza rimedio? Siete convinti di averle provate tutte ma proprio non riuscite ad essere in orario?
 
Il tempo è un fattore stabile e conosciuto, non cambia. Non può essere gestito, può diventare solamente qualcosa di conosciuto o qualcosa che si ignora completamente. 
In fondo tutti nella giornata abbiamo lo stesso numero di ore a disposizione: che si tratti di noi o del Presidente degli Stati Uniti, la cosa non cambia. 

Se ancora una volta state arrivando in ritardo ad una riunione, probabilmente non è perché qualche ostacolo si è messo tra voi e il meeting impedendovi di rispettare l'orario concordato ma perché non l'avete anticipato, non avete fatto niente per evitarlo.  
E se non passate il tempo anticipando i problemi, non state rispettando le persone che vi aspetteranno in riunione.  
 
In altre parole, l'ostacolo siete voi
 
Se davvero volete essere puntuali, sarete puntuali. Perché essere puntuali è facile.

Per la prima volta in assoluto, stiamo per rivelarvi come essere sempre puntuali ad una riunione. 
Siete pronti?
Eccovi il grande segreto: il modo per arrivare in tempo a una riunione è il seguente:

essere puntuali

Non vi arrabbiate! davvero, non vi serve nessuna abilità particolare. Non c'è nulla da imparare.

Se volete essere puntuali, arriverete in tempo. E' semplice.
 
Le persone che sono costantemente in ritardo trovano sempre un sacco di scuse: il traffico, i bambini, un malessere, la pioggia, eccetera. Ma tutte queste scuse non rappresentano altro che un po' di disprezzo per l'appuntamento al quale dovrebbero presentarsi puntuali.

Quando decidiamo di non essere puntuali, perché è sempre una decisione, il messaggio che traspare agli occhi degli altri non è mai "sono troppo occupato" ma "non considero questa cosa abbastanza importante per arrivare puntuale".
Ricordatelo sempre, vi aiuterà ad essere puntuali.
 
Essere in ritardo è il risultato di tante piccole decisioni che prenderete sulla strada tra voi e la riunione. Ci vogliono giorni di preparazione per assicurarsi di essere perennemente in ritardo.  
L'incapacità di arrivare puntuali a un appuntamento è qualcosa che nella vostra mente avete preparato per molto tempo. 
 
Provate a pensare per un attimo a cosa accadrebbe se arrivare in orario fosse una questione di vita o di morte. 
Ecco. 
Adesso siete d'accordo con noi che arrivare sempre in ritardo non ha niente a che fare con la sfortuna?
 
Per motivarvi alla puntualità, rileggetevi la nostra raccolta di aforismi sulla gestione del tempo. Magari potrà darvi una mano. ;)

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mercoledì 2 dicembre 2015

Il fattore OM

Soffrite all'idea di non riuscire ad organizzarvi così bene da riuscire a fare più cose di quante riusciate effettivamente a fare? Magari questo articolo tratto da "D" potrà aiutarvi. ;)

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martedì 1 dicembre 2015

Identikit di un boss perfetto - 2

(...)

Un capo vincente è ovvio che piaccia di più, ma ognuno vuole sentire come propria almeno un pezzetto di quella vittoria. Se il boss è capace di dare merito al team, quest'ultimo si impegnerà di più.

(...)

E il boss più amato?
Primo: non abbaia gli ordini, ma li comunica coinvolgendo: "Ehy Jane, se riuscissimo ad avere quel modello entro settimana prossima lo potremmo lanciare nel meeting di fine mese".
Secondo: considera la felicità dei dipendenti un business critico. Per ogni infelice manifesto, si sa che ce ne sono altri cinque che fingono di non esserlo.
Terzo: non guarda la lattuga appassita in giardino dicendo "che schifo di lattuga". Si interroga sul perché non ha creato le condizioni ideali affinché la sua insalata crescesse più buona delle altre.

(...)

I top manager di casa nostra (...) come se la cavano?

(...)

Le cose per fortuna stanno migliorando anche da noi (...) complice la crisi, che ha creato uno shock favorevole al cambiamento, si fa strada oggi un modello di leader che definiamo responsabile. Attento cioè agli interessi di tutti i suoi stakeholders (portatori di interessi): che siano l'azionista, i clienti, i fornitori, l'ambiente sociale in cui l'azienda opera e - infine ma non ultimi - i dipendenti. 
Il capo dev'essere in grado di andare oltre il quarter, il risultato economico immediato. Questa capacità di visione di lungo termine, diventa il valore aggiunto.

Dalla ricerca condotta da Magni & Co. in Bocconi, su circa 3.000 casi, emerge una situazione con margini di miglioramento: appena il 16% dei leader è oggi definito responsabile, il 36% è in una situazione intermedia, il 48% invece ha ancora una visione di breve periodo: guida accentrata e scarso coinvolgimento dei lavoratori, spesso pensa solo al fatturato e a i bonus.

Secondo due ricerche condotte da Wyser (...) e dal sito InfoJobs, agli italiani piace un boss carismatico, decisionista e autorevole (ma non autoritario), che si comporta da mentore (accettando le critiche). (...) Il boss dei sogni è quello che da un lato alimenta il cosiddetto role-modeling - diventa cioè un modello a cui ispirarsi o ambire - e dall'altro applica il walk the talk: dimostra coerenza fra intenzioni e azioni. Solo così il team può dare il meglio, diventando il primo alleato del capo. 
Perché, come dice efficacemente John Maxwell (...) chi pensa di guidare gli altri e non ha nessuno che lo segue, sta solo facendo una passeggiata.

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lunedì 30 novembre 2015

Identikit di un boss perfetto

(Fonte: "Il Venerdì")

C'è qualcuno che parla addirittura di effetto "turn the Page", un voltar pagina che coincide con il cognome dell'uomo che sta rivoluzionando la visione del potere e della leadership.
Quel Larry Page, cofondatore di Google, che guida la classifica dei Ceo più amati del pianeta: non solo osannato dagli internauti googlanti (il sito di Mountain View è di gran lunga il www più cliccato al mondo), ma da un impressionante 97% dei suoi dipendenti.

42 anni, 1 metro e 81 di altezza, 29 miliardi di dollari di patrimonio personale, Larry pranza alla mensa aziendale dividendo il tavolo con i più giovani dello staff; lo si vede passeggiare all'interno del Googleplex -l'headquarter californiano - in jeans e T-shirt, pronto a due chiacchiere con chi lo incrocia; ha fortemente voluto il congedo di 12 settimane per i papà e le compagne delle mamme biuologiche.
Per citare solo alcuni, fra le centinania di aneddoti che fanno dire a Joe Wiggins, capo della comunicazione europea di Glassdoor (...): "secondo i suoi dipendenti, Page guida la società con una visione forte e geniale, simpatica ed eccentrica, rendendosi accessibile. Piace per la capacità di attarrre i migliori talenti, in un ambiente di lavoro emozionante".

Il segreto è nel gioco degli scacchi. Una leadership open and populist, la definiscono i sociologi americani: aperta perché informale, trasparente, persino "umanizzante"; populista perché non elitaria e in grado di strizzare l'occhio a una nuova generazione di dipendenti cresciuti a pane e social network, nell'ottica paritaria delle rete.

"Un leader è un commerciante di speranza", sosteneva già Napoleaone Bonaparte. La novità è che oggi non si sceglie o si lascia un'azienda, ma un boss. 
(...)
La differenza di Google & le sue sorelle, società che per Fortune sono tra le 1000 Best Companies to Work For, la fanno proprio i leader. In aziende che non vanno a caccia dei migliori capi, ma costruiscono in casa il boss dei loro sogni.

(...)

Quando oggi si chiede alle persone di raccontare del migliore dei manager con cui hanno lavorato, si trascurano i talenti innati - intelligenza, fascino, empatia - per concentrarsi su abilità che sono sotto il controllo personale del boss: capacità di trasmettere passione, assumersi responsabilità, dimostrarsi onesti.

(...)

I 7 "ruoli" del boss indimenticabile sono:

buon allenatore
bravo motivatore
capitano coraggioso
leader sincero
guida rassicurante
essere umano autentico
giocatore di scacchi, non di dama

Pensate alla differenza: nella dama tutte le pedine sono uguali, un modello povero di leadership. Negli scacchi, invece, ogni pezzo ha un ruolo e un'abilità speciale e speciali limiti. Un boss indimenticabile è un maestro nel gestire la schacchiera delle persone.

(...)

Domani continueremo nella lettura dell'articolo e, tra le altre cose, vedremo come se la cavano i boss di casa nostra...

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venerdì 27 novembre 2015

Manager all'estero - Una carriera da nomadi

(Fonte: "Affari&Finanza")

Vita da espatriati, manager in viaggio per l'azienda nei più remoti angoli del mondo, per aprire nuove vie di business, creare start up o gestire crisi e rilanciare l'attività.

Invogliati da promozioni e guadagni più attraenti, i dirigenti accettano di fare le valigie, con famiglia o senza, per agguantare la sfida professionale.

Un meccanismo oliato, che si traduce in ruoli di vertice, una busta paga più gonfia, voli in business class, privilegi e benefit.

E che cosa li aspetta a fine missione?
Ancora al top o un posto in panchina?

(...)

Ma con la crisi negli ultimi due anni, le aziende italiane hanno incominciato a richiamare gli espatriati e tendono a sostituirli con manager locali.

(...)

Promozione, sfida professionale. Molto difficilmente c'è un rifiuto.
(...)
Età media 38 anni, maschi per lo più, l'espatrio dura in media due anni e mezzo, con una sparuta minoranza di globe trotter della mobilità internazionale. Sul piatto c'è l'aumento del salario lordo tra il 15 e il 20 per cento, e una cascata di allowance cash: per la famiglia, sia che segua l'espatriato o no.

(...)

L'espatriato che rientra trova nel 90% dei casi un ruolo di maggior crescita, in qualche caso equivalente.
(...)
Il rientro è un passaggio molto delicato. Ci sono aziende (...) che disegnano un percorso di carriera, ma non tutte sono preparate per questo.

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giovedì 26 novembre 2015

Storytelling l'arte nuova di parlare a tutti

Anche se proprio così nuova non è, eccovi un articolo sull'arte dello storytelling.

(Fonte: "Affari&Finanza")

C'è una parola abusata nella comunicazione e nell'informazione contemporanea: storytelling.

Da slang per nerd, questo termine è oggi diventato di dominio pubblico, una sorta di mantra collettivo che (...) tutti continuano a ripetere senza comprenderne fino in fondo il significato.

(...)

Storytelleing, innanzitutto, è la capacità di raccontare una storia, o meglio, la propria storia in un modo personale, diverso dagli altri, molto partecipativo e soprattutto con un punto di vista preciso.

Nell'era di internet e dei social media tutti, non solo i brand, sono chiamati a essere storyteller e a diventare editori di se stessi, ragionando con le categorie di un giornale.

In secondo luogo, lo storytelling non può essere lineare come invece erano le notizie e le informaizoni di ieri: deve nascere tridimensionale e quindi adatto ad essere spezzettato in tante versioni, in tanti format a seconda dei canali che intraprenderà.

In un certo senso, il suo contenuto e la sua forma devono essere dettati proprio dai nuovi format e poi ricondotti a quelli consolidati: per questo sarebbe meglio pensare una storia partendo dalle dinamiche di Instagramm e di Snapchat per poi risalire a quelle di un articolo tradizionale piuttosto che il contrario.

Infine, oltre all'importantissima creatività, uno storytelling di successo si nutre di numeri, di dati.

Chi oggi non è in grado di leggere gli andamenti di Google Analytics, chi non ha a disposizione un ottimo CRM (sistema di gestione delle relazioni con i clienti) e chi ancora non conosce i comportamenti e le relazioni dei propri lettori, non può essere in grado di raccontare una storia interessante o rilevante.
E non importa che si parli di carta stampata o di internet; fanno parte dello stesso flusso e vanno nella stessa direzione.

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mercoledì 25 novembre 2015

Pulizia lean

Le iniziative di stampo "lean" servono a "pulire" i vostri processi, esattamente come pulireste la casa in cui abitate per presentarla al meglio a possibili compratori.
Vendere il vostro business quotidiano, infatti, non è molto diverso. Ripulire le costose inefficienze della vostra azienda, eliminare il disordine quotidiano, smaltire le scorte in eccesso e archiviare le pratiche che sono in giro da troppo tempo prima o poi darà i suoi frutti, questo è certo. 


Ci sono due iniziative lean, in particolare, che potranno aiutarvi a ripulire i vostri processi:

1. Value Stream Mapping


Si parte dal processo che si desidera migliorare e si procede con una sua mappatura reale in grado di descrivere come si lavora. 

A questo punto, cercate di ottenere un feedback dalle persone che lavorano sul processo per mettere in evidenza eventuali carenze operative. Individuate le problematiche, potete iniziare a cercare la soluzione e a costruire un piano per il miglioramento, la sua attuazione e il monitoraggio dei risultati 
2. Focus su quattro aree chiave

Una delle sfide maggiori per chi cerca un approccio più snello è individuare un punto di partenza, soprattutto se il disordine a livello operativo va avanti da anni.
 

Ci sono quattro aree chiave dalle quali è possibile partire:

● ridurre le perdite derivanti dai prodotti resi; 

● determinare i costi degli scarti; 
● analizzare il valore aggiunto delle fasi dei processi ed eliminare i passaggi inutili; 
● quantificare i costi di rilavorazione dei prodotti difettosi

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martedì 24 novembre 2015

L'apprendimento come base per un futuro professionale

Viviamo in una società basata sulla conoscenza e sul miglioramento continuo e l'apprendimento è la chiave per il nostro futuro.  
Le competenze rappresentano il livello di capacità che una persona possiede nel proprio campo professionale e determina la qualità e la quantità dei risultati che può raggiungere. 
Per riuscire nel vostro lavoro dovete impegnarvi di più sulla formazione di quanto facciate quotidianamente per adempiere ai vostri compiti professionali.Abbracciare una vita basata sull'apprendimento e dedicare parecchio tempo a migliorare le vostre abilità, conoscenze ed esperienze, significa - infatti - costruire una base solida da cui partire per realizzareun buon successo professionale.

Cercate di ritagliarvi qualche minuto ogni giorno per imparare qualcosa dai colleghi più anziani o più dotati di esperienza. Ognuno ha qualcosa da insegnare, basta capire in cosa si distingua.

In ultimo, provate a leggere almeno un libro all'anno per auto-migliorarvi professionalmente, anche se la vostra organizzazione non vi sostiene in questo percorso e dovrete sacrificare il tempo libero per crescere professionalmente. Individuate i vostri punti deboli e cercate di migliorarvi partendo proprio da quelli.


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lunedì 23 novembre 2015

Ideare una strategia

In cosa consiste il processo mediante il quale i manager formulano e mettono in atto le strategie?  

La strategia è il risultato di un processo formale di pianificazione nel quale il top management gioca un ruolo fondamentale.Un processo tipico di pianificazione strategica potrebbe essere descritto attraverso le sue cinque fasi fondamentali come segue:
  1. identificare la mission aziendale e i principali obiettivi;
  2. analizzare l'ambiente esterno dell'organizzazione per rilevare minacce e opportunità;
  3. analizzare l'ambiente operativo interno dell'organizzazione per identificare debolezze e punti di forza;
  4. selezionare le strategie che si basano sui punti di forza dell'organizzazione e correggono le sue debolezze. Queste strategie dovrebbero essere coerenti con gli obiettivi derivanti dalla mission e importanti per l'organizzazione;
  5. attuare le strategie scelte
Il compito di analizzare l'ambiente esterno ed interno dell'organizzazione e di selezionare le strategie più appropriate è noto come formulazione della strategia.
La sua implementazione, invece, avviene quando la si mette all'opera:
  1. decidendo azioni coerenti con essa;
  2. assegnando ruoli e responsabilità;
  3. destinando risorse;
  4. definendo obiettivi a breve termine;
  5. progettando sistemi di controllo;
  6. stabilendo quali ricompense daremo agli uomini che si distingueranno maggiormente nell'aiutarci a implementare la nostra strategia. 


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venerdì 20 novembre 2015

La sfida del cambiamento

L'accettazione è sempre il primo passo necessario per scatenare energie positive durante il processo di cambiamento. Accettare il cambiamento non significa che dobbiamo per forza farci piacere quello con cui abbiamo a che fare ma, semplicemente, che non ci facciamo bloccare da questa novità e che accettiamo di averci a che fare, magari anche semplicemente per riuscire a cambiarla a nostro favore

Può darsi che il cambiamento al quale stiamo assistendo non ci piaccia per nulla ma accettarlo apre la possibilità di un'ulteriore trasformazione.L'accettazione si differenzia dal tollerare qualcosa perché limitarsi a toillerare ci porta a tenere a distanza la situazione, identificandola come qualcosa che dobbiamo per forza sopportare e sulla quale non possiamo agire in alcun modo. Accettando qualcosa si cessa, invece, di resistere e si inizia ad incanalare la nostra energia per lavorare sul cambiamento.

Quando ci lanciamo in una trasformazione e l'accettiamo, ci sentiamo più vivi, presenti e consapevoli. Non restiamo più attaccati alla nostra comfort zone, siamo liberi di agire, creare ed esplorare perché non spendiamo più energie a difenderci ma le impieghiamo per lavorare sul cambiamento.


Improvvisamente smettiamo di vedere davanti a noi un buco nero e di preoccuparci per i rischi che stiamo correndo e iniziamo a vedere la nuova situazione come una possibilità, un'opportunità da cogliere per dire la nostra e vedere come il cambiamento possa soddisfare anche le nostre esigenze.


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giovedì 19 novembre 2015

Ricomporre i conflitti

(Fonte: "Io donna")

(...)

Non cercare il colpevole: tanto, non c'è

(...)

Meglio uscire dalla logica del chi ha ragione e chi torto (sempre l'altro), e della recriminazione continua. C'è un problema da affrontare, non un colpevole da trovare. E niente moralismi sulla giustizia.

Non cercare di spuntarla a tutti i costi

Non è una gara. A volte, per avere l'ultima parola si paga un prezzo troppo alto, perché chi "perde" cerca la rivincita, cova rancore, ecc.

State zitti, se potete

Fate una promessa: per una settimana, non parlate a nessuno della lite in corso. Altrimenti, a forza di raccontarla, si perde di vista il punto di partenza e si finisce con il pensare solo a come l'altro sia un mascalzone.

Un'arma vincente: l'aikido delle opinioni

Nell'aikido, una delle arti marziali giapponesi, non ci si oppone all'energia motoria dell'avversario. La si sfrutta per mandarlo al tappeto, se serve.
Attaccare frontalmente le opinioni è controproducente. Meglio partire da un "ma io la penso come te" e portare l'altro gradualmente verso un nuovo obiettivo: il tuo.

(...)

Per uscire bene da un litigio ci sono due possibilità: la prima è far parlare l'altro senza interromperlo, lasciando a lui la fatica di arrivare fino in fondo. L'altra è mostrarsi d'accordo. Che non significa non litigare, tanto meno mentire o rinunciare alle proprie idee, ma invece attacare con: "Se fossi in te la penserei allo stesso modo". Così, almeno, si crea un punto di partenza in comune per una discussione.

(...)

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mercoledì 18 novembre 2015

Ci penserò domani (2)

(Fonte: "D")

(...)


Se il problema (...) non è cronico, si può adottare la "tecnica dell'elefante". Anche un elefante può mangiare un boccone alla volta (...) i compiti da svolgere possono quindi essere scomposti e affrontati a pezzi.

In altri casi si punta ad abolire il pensiero "tutto o nulla", tipico del procrastinatore perfezionista. Un colloquio o un esame possono essere superati accettando votazioni intermedie, e non necessariamente il massimo.

(...)

Altro trucco: fissare scadenze dettagliate, con compiti di difficoltà crescente. Chi procrastina di solito ha una percezione alterata del tempo, nelle conversazioni si sofferma su particolari irrilevanti e si distrae con facilità. Sottostima il momento presente e sovrastima quello futuro. E il domani diventa mai.

(...)

Per fare oggi quel che vorremmo rimandare a domani basta suddividere il tempo in unità di misura più piccole: 30 giorni anziché un mese, ad esempio. "Quando penso il tempo in una forma più granulare, usando i giorni e non gli anni, il futuro mi sembra più vicino", ha spiegato Daphna Oyserman (....).

Ma c'è anche chi si è inventato la tecnica della procrastinazione produttiva. John Perry, filosofo di Stanford e autore del saggio "The Art of Procrastination", consiglia di stilare un elenco di impegni, dal più urgente al meno importante. 
Si parte dal fondo, sbrigando le faccende meno pressanti, in modo da non sentirsi inattivi, arrivando quindi con maggiore tranquillità a svolgere gli impegni più urgenti.

(...)

Non tutti i procrastinatori sono uguali. Ci sono i procrastinatori passivi che rimandano gli impegni fino all'ultimo minuto accumulando ansia e riducendo la produttività. E quelli attivi, che posticipano intenzionalmente fino all'ultimo momento. Inviano un curriculum l'ultimo giorno utile, si preparano per un colloquio poche ore prima. Sono coloro che cercano la forte motivazione data dalla pressione temporale (...) e che sono in grado di completare le attività prima delle scadenze ottenendo risultati soddisfacenti. La procrastinazione è usata come strategia di auto-motivazione e le scadenze vengono percepite come incentivo anziché come fonte di stress.

Il comportamento opposto è la tendenza ad agire senza pensare, facendo tutto in fretta e male.
(...) E' stata definita pre-crastinazione: è il modo di chi risponde immediatamente alle email senza aver letto bene quello che scrive il mittente, o di chi va a pagare le bollette appena arrivano. Decidendo e facendo tutto subito ci si sente meglio e si tiene a bada, anche qui, l'ansia.

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martedì 17 novembre 2015

Ci penserò domani


(Fonte: "D")

Vorreste leggere questo articolo ma vi siete ripromessi di farlo tra qualche ora? Il titolo v'incuriosisce, ma poi è arrivata una notifica di Twitter e vi siete distratti? 
State procrastinando. Ma non siete soli, a quanto pare. 
La sindrome di Rossella O'Hara, quella del "ci penserò domani", colpisce molti italiani: il 30% ha quest'abitudine, tra loro il 18% è un procrastinatore cronico.

La differenza non è da poco. Ritardare una decisione a volte può essere utile; invece temporeggiare perché si ha paura del risultato finale è una tecnica di difesa personale che può diventare patologica.

(...)

Il contesto culturale italiano, tra l'altro, con un basso orientamento al futuro e una scarsa programmazione, ben si presta all'arte della procrastinazione.

(...)

Il procrastinatore non decide, non sceglie. E rimanda di tutto: la dieta, l'iscrizione in palestra, la pulizia ai denti, l'invio di un'email, l'appuntamento con l'idraulico, l'esame all'università, il pagamento delle bollette.
La scusa di non avere tempo e non riuscire e incastrare gli impegni c'entra poco (...) la sindrome ha a che fare con l'ansia e la paura del fallimento.

Dire a un procrastinatore cronico di fare qualcosa subito equivale a dire al depresso clinico di tirarsi su di morale.

(...)

Quando procrastiniamo perdiamo tempo, ci facciamo sfuggire le opportunità e tendiamo a non vivere in maniera autentica. Il rischio è rimanere impantanati in un circolo vizioso.

(...)

Domani vedremo come affrontare la procrastinazione non cronica (per quella cronica è meglio ricorrere all'aiuto di un professionsita che ci faccia capire quali motivi ci portano a rimandare all'infinito) e scopriremo chi sono i pre-crastinatori.


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lunedì 16 novembre 2015

Come comportarsi con un cacciatore di teste

Molti di voi ci raccontano che i colloqui con i cacciatori di teste spesso sono più insidiosi di quelli con i potenziali datori di lavoro. Questo succede perché chi lavora nelle agenzie per la ricerca di personale non è interessato ad individuare un profilo preciso per colmare le esigenze di un'azienda specifica ma ad avviare una relazione con un candidato che, potenzialmente, potrebbe andare bene per diverse posizioni. Ecco perché, spesso, un candidato viene convocato per una posizione per la quale l'agenzia sa benissimo che non è il miglior profilo su piazza; in futuro potrebbe risultare adatto a coprire un'altra esigenza.

In realtà, quindi, il primo colloquio è orientativo e serve solamente per raccogliere informazioni sul candidato, per questo le domande sono spesso estremamente generiche.

Non considerate, dunque, tempo perso recarvi in questo genere di agenzie e vediamo come comportarsi con questi professionisti per portare a casa il miglior risultato possibile.
  1. Mai, mai e poi mai arrivare in ritardo;
  2. preparatevi al meglio per rispondere alle domande sapendo che non potrete sottrarvi. Con moltà probabilità vi verranno chieste informazioni sul vostro attuale posto di lavoro: mettete in luce i suoi punti migliori perché si rifletteranno sulla vostra presentazione professionale. Se, ad esempio, descriverete un ambiente dinamico, ben strutturato, culturalmente aperto, è probabile che il vostro profilo venga proposto per qualcosa di simile. Se, al contrario, vi lamenterete di un ambiente di lavoro poco stimolante, passerà il messaggio che siete stati scelti per lavorare in una realtà del genere e - probabilmente - nessuno vi proporrà il salto di qualità. Non si tartta di raccontare bugie ma semplicemente di cogliere i punti di forza di un ambiente e di illustrarli al meglio;
  3. mai, mai e poi mai parlare male dell'attuale datore di lavoro;
  4. sappiate che, probabilmente, vi faranno anche domande di tipo personale. Siate pronti a sapere fin dove intendete arrivare con le vostre risposte;
  5. se vi è concesso di fare domande, utilizzate il cacciatore di teste per avere qualche informazione sul potenziale datore di lavoro. Ovviamente non vi verrà detto di chi si tratta e non vi verranno nemmeno date indicazioni per capirlo ma potrete informarvi sulla tipologia di lavoro che vi aspetta, sull'ambiente, sulla struttura, ecc. Tutte informazioni ugualmente utili se arriverete a fare un colloquio presso l'azienda e saprete utilizzarle bene;
  6. siate sinceri, raccontate la verità sul vostro curriculum e sul vostro percorso di carriera;
  7. non usate mai un cacciatore di teste per ottenere una controfferta dalla vostra attuale azienda perché - con molta probabilità - non verrete mai più richiamati;
  8. spesso il colloquio finisce in modo criptico, quasi privo di senso e la persona che vi trovate davanti non vi darà alcuna indicazione su com'è andato. Non preoccupatevi, è assolutamente normale

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venerdì 13 novembre 2015

Per fare affari l'azienda chiama l'antropologo

(Fonte: "Il Venerdì")

Potete chiamarlo "cross cultural coach" oppure "business anthropologist", ma la sostanza non cambia. Negli Stati Uniti, che hanno fatto scuola, l'antropologo culturale è entrato nelle big company già a partire dagli anni Ottanta e oggi (...) è quasi un nume tutelare per formare manager o impiegati che lavorano in Paesi lontani dall'Occidente.

Ma ora anche in Europa e in Italia questa figura  acquista credito tra gli imprenditori che vogliono investire all'estero con maggiori probabilità di successo.

(...)

Non si tratta solo di capire che i consumi sono influenzati anche da fattori culturali, è necessario comprendere le dinamiche di gruppo in un ambiente di lavoro.

(...)

E l'attenzione alle differenze culturali serve per lavorare al meglio non solo in Paesi molto lontani, ma anche in altri relativamente più vicini come la Russia. 
Così, nelle grandi imprese, le cosiddette lezioni di "intercultural orientation" stanno diventando quasi una routine.

(...)

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giovedì 12 novembre 2015

La mobile enterprise in Italia fa risparmiare 10 miliardi in un anno. L'articolo è tratto da: "Affari & Finanza".

Voi cosa ne pensate? Usate tablet e smartphone al lavoro? Vi sono utili?

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mercoledì 11 novembre 2015

Meditate manager, meditate

(Fonte: "Il Venerdì")

"Bisogna essere, non fingere". Questa è stata la prima frase.
La seconda: "Non simulare quel che non sei, perché sul lungo periodo non funziona".
Alla terza arriva lo spaesamento per chi ascolta: "E' necessario avere consapevolezza dei propri pensieri. E' un concetto derivato dalla meditazione vipassana buddista. In inglese viene chiamata mindfulness ed è molto in voga". Dove? Nell'addestramento di manager e dirigenti. Almeno in quelle aziende dove si crede che l'organizzazione del lavoro sia un nodo essenziale per stare sul mercato e che, di conseguenza, la gestione delle risorse umane sia una scienza che deve diventare esatta.

(...)

Quando si parla di lavoro organizzato in maniera intelligente, smart working, in genere ci si riferisce al concentrarsi sugli obiettivi e non più sul tempo che si passa in ufficio, alla riduzione dei gradi gerarchici, alla possibilità di collaborare anche da fuori, dove è necessario, utile o più semplicemente piacevole stare, invece di dover per forza occupare una scrivania in uno spazio solo lavorativo. Stavolta però si tratta di compiere un passo a monte: cambiare la mentalità di chi il lavoro degli altri lo organizza. Secondo il rapporto dell'Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, presentato il 20 ottobre, soluzioni di lavoro intelligente sono state adottate da circa due aziende su dieci in Italia e il risparmio sui costi arriva spesso al 30 per cento.

Il pregiudizio da noi, è che in questo modo si lavori meno (...) in realtà, semmai, il rischio è opposto: visto che lo puoi fare ovunque e a qualunque orario, lavori sempre perché è quel che ti viene richiesto. Con un crollo conseguente della produttività. Ma, stando al Politecnico, in otto aziende su dieci non arrivano nemmeno a porsi questi problemi. Gestite da dirigenti inadeguati, vivono solo di emergenze. L'inadeguatezza nel programmare si trasforma nella necesità di avere sempre tutti a portata di mano (...). E' un'attitudine accompagnata dall'incapacità di valutare i risultati, giudicando gli altri solo in base ad aspetti secondari come il tempo che passano in ufficio. Ma sarebbe un errore pensare che questo sia un difetto degli amministratori delegati, perché quelli in genere già lavorano per obiettivi e sono ben contenti di risparmiare e aumentare la produttività. No, il problema è nei quadri medio-alti.

Oltreoceano si sono spinti sufficientemente in avanti da iniziare a criticare anche il modello della compagnia solare tipica della Silicon Valley, da Google a Facebook. Quelle dove la felicità del dipendente è fra le priorità perché si traduce in entusiasmo nel lavoro. Il sociologo inglese William Davies recentemente ha pubblicato "The Happiness Industry: How the Government and Big Business Sold us Well-being" (...) dove si sostiene che certe compagnie stanno investendo così tante risorse per rendere contenti i dipendenti che chi non aderisce a questo nuovo modello di armonia viene visto con sospetto.

(...)


Il mondo è pieno di persone che fanno i manager per il motivo sbagliato e vengono promosse per caratteristiche errate. Si cerca di far carriera per guadagnare di più e per essere riconosciuti socialmente. E ci si circonda di simboli del potere inutili: la scrivania più grande, il posto macchina riservato, il computer più potente. Fare il manager invece è gestire risorse ed essere capaci di valorizzarle.

(...)

Le conoscenze oggi sono distribuite in maniera orizzontale. Chiunque pensi di saperla più lunga a  priori rischia un brutto risveglio e di sicuro come manager fa un pessimo lavoro.
Quando invece una persona riesce a trasformare il suo team i risultati sono evidenti.

La felicità di un dipendente conta molto e costa anche (...) ma la si può vedere come un investimento: ogni persona ha una parte di energia che può impiegare nel lavoro se è motivata ed è contenta. A patto di avere dei manager che sanno mettere in pratica questa filosofia.

Viene da pensare alla Olivetti degli anni Cinquanta o alle scuole manageriali della Pirelli degli anni Settanta e Ottanta. Ma è l'ingresso della psicologia nella formazione a fare ora la differenza. Si tratta di sviluppare se stessi. (...) Trent'anni fa, al tempo degli yuppie, l'unica cosa che importava erano i margini di guadagno e la soddisfazione degli azionisti. Poi sono arrivati i valori dei clienti, in seguito quelli degli impiegati e ora si guarda allo stato mentale dei manager. Con una certezza: non è la tecnologia a liberare il potenziale delle persone, ma le persone stesse. E' il passaggio dalla dittatura del QI, il quoziente di intelligenza, all'emergere del QE, il quoziente emotivo che nel lavoro è essenziale.

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