giovedì 31 maggio 2018

Come gestire un team (2)

(Fonte: "Uomo&Manager") 

OSSERVAZIONE
 

Spesso può capitare di non conoscere bene le capacità del team che si sta guidando. In questo caso può essere utile iniziare da osservatore e assegnare un progetto al resto del gruppo senza definire un leader, sia pur temporaneo.
Come in ogni situazione, sarà l’approccio di ciascuno al problema da risolvere a guidare le dinamiche di gruppo e definire immediatamente i ruoli. Accanto ai “cervelloni” ci sarà sempre la
persona che avanza idee fuori dagli schemi creando un’alternativa creativa che spesso si rivela
il principio di una strada promettente per il raggiungimento del risultato atteso. In ogni caso,
lasciare al team dei momenti di “autogestione” si rivela sempre una scelta utile in grado di creare degli equilibri naturali che altrimenti non si creerebbero. Diversi studi di psicologia e organizzazione aziendale hanno dimostrato come non sia necessario che tutti abbiano spiccate conoscenze per raggiungere un risultato. All’interno di un gruppo ognuno ha la sua funzione e il grado di performance si misura anche sulla sensibilità sociale. L’intelligenza del gruppo di lavoro, infatti, non dipende dall’intelligenza individuale dei membri del gruppo, ma è correlata con la loro sensibilità sociale: saper ascoltare, accogliere le critiche in modo costruttivo, avere una mentalità aperta sono solo alcuni esempi di sensibilità sociale. Una buona dose di umorismo crea affidabilità e contribuisce ad accrescere il senso di appartenenza e il piacere di lavorare con un determinato staff. Utilizzare l’umorismo in un gruppo di lavoro riduce lo stress, aumenta la creatività, la comunicazione e l’unione di squadra e alcuni studi hanno anche scoperto che proprio lo humor può aumentare le prestazioni e l’efficacia della leadership.


IL TEAM PERFETTO? UN MIX DI PERSONALITÀ


Una buona condizione di partenza per un team performante, è che questo sia formato da persone con caratteristiche diverse. Negli anni ‘70, due gruppi di ricercatori sulla personalità arrivarono indipendentemente alla conclusione che la maggior parte dei tratti caratteriali possono racchiudersi in cinque categorie, conosciute come The Big Five:

  • Trasparenza: coloro che tendono a gioire delle avventure e sono aperti a nuove esperienze
  • Scrupolosità: i componenti organizzati e affidabili
  • Estroversione: tutti coloro che aumentano la propria energia e produttività stando in mezzo
    agli altri
  • Amabilità: le persone amabili sono spesso affidabili, di aiuto e compassionevoli
  • Stabilità emotiva: chi possiede sicurezza e calma è a proprio agio nell’affrontare anche momenti critici
Per gestire al meglio un team è bene definire un certo equilibrio anche tra neoassunti e leve
consolidate, possibilmente facendoli interagire secondo personalità omogenee.
 

MA ESSERE UN BRAVO LEADER COSA IMPLICA?

Oltre ad organizzare in modo efficace il lavoro, far rispettare i tempi di consegna/esecuzione e
definire le priorità, è necessario saper dare spazio all’autonomia delle singole persone, lasciando
che non siano meri esecutori ma, piuttosto, siano stimolati ad approcciare alla dinamica di gruppo
in modo diretto e propositivo. Essere autoritari aiuta a delimitare i confini e creare una giusta
distanza con i componenti del gruppo ma la giusta dose di disponibilità e collaborazione si rivela
sempre vincente in ottica di risultato. In generale, è chiaro che non esiste una formula magica per
la gestione delle risorse e, in qualunque modo si scelga di guidare il proprio team, è necessario tenere sempre in considerazione il fatto che ogni situazione contiene un numero quasi infinito di
sfumature e, a seconda delle competenze e della sensibilità di chi si trova a farvi fronte, può essere
sviluppata in altrettanti infiniti modi.


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mercoledì 30 maggio 2018

Come gestire un team

(Fonte: "Uomo&Manager")

Organizzare il lavoro di un team in vista di un obiettivo comune, non sempre è cosa facile da
realizzare. In ogni azienda, di grandi o piccole dimensioni, si rende spesso necessario suddividere il lavoro in più fasi, ciascuna da assegnare ad un gruppo specifico fatto di persone con caratteristiche e competenze diversificate. Coordinare e guidare un team verso un risultato deve essere frutto
di scelte oculate e comportamenti che allo stesso tempo stimolino e agevolino la compartecipazione
proattiva del gruppo di lavoro, alternando fermezza a disponibilità e comprensione.
 

COMUNICAZIONE
 

Saper comunicare è alla base di ogni rapporto umano, riuscire a stabilire empatia nei confronti dei singoli componenti del gruppo è il primo passo per agevolare la coesione e saper disciplinare le dinamiche più o meno critiche che possono svilupparsi all’interno di un team. Il manager, infatti, non deve solo saper organizzare, ma deve soprattutto sapersi relazionare per ottimizzare i tempi in vista del risultato finale. Un aspetto fondamentale derivante dalla capacità di comunicare è quello di saper creare un clima disteso e collaborativo per instaurare fiducia e stima tra tutti i componenti. Per riuscire a raggiungere gli obiettivi di successo è fondamentale che ogni persona del gruppo lavori al meglio delle sue capacità. Dimostrando di avere ben chiari gli obiettivi del progetto e aiutando i componenti ad avere una visione altrettanto chiara, un buon leader deve sapersi districare anche in momenti critici, gestendo lo stress di tutti, per evitare di innescare reazioni negative a catena.

MOTIVAZIONE
 

Saper motivare gli altri è una prerogativa fondamentale per stabilire un certo feeling, con il gruppo
nel suo insieme e con le singole persone, in grado di mantenere alta la partecipazione. La demotivazione di un solo componente può influire pesantemente sul lavoro dell’intero team. Viceversa, creare connessioni con il team e attivare delle relazioni tra i partecipanti può innescare il processo opposto.



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martedì 29 maggio 2018

Parliamo di welfare

(Fonte: "Uomo&Manager")


Il welfare pubblico, inteso come l’insieme delle iniziative realizzate dallo Stato per garantire
sicurezza, assistenza e protezione dei cittadini e delle loro famiglie, è sotto scacco da molti anni.
Il sistema non riesce più a garantirsi una solida sostenibilità fiscale ed incontra molte difficoltà nel rispondere alle nuove sfide generate dalla crescita demografica globale, dall’invecchiamento della
popolazione, dalla globalizzazione e dalla nascita di esigenze sempre più “esigenti”. 


Tutto questo, in un mondo in cui la trasformazione tecnologica e l’innovazione digitale stanno
cambiando le abitudini di tutti.
Il Welfare State in Italia assorbe circa il 25% di tutta la ricchezza nazionale prodotta (PIL), mentre il 51% della spesa totale è concentrata alla voce pensioni.
Non c’è da stupirsi, quindi, se anche nel nostro Paese si fa (lentamente) strada un nuovo modello di well-being dedicato ai lavoratori, un welfare aziendale che ha l’obiettivo di realizzare il giusto mix di
benefit per aumentare il benessere dei dipendenti nella vita privata e far crescere l’efficienza in quella lavorativa.

Ecco perché in alcune realtà, è possibile utilizzare la sala giochi durante le ore di lavoro e poter avere, in prossimità dei periodi di prova costume, allenamenti mirati nella palestra aziendale, programmi detox e pranzi sani gratuiti.
Ma non è tutto. Sostegno al reddito, allo studio, alla genitorialità, alla tutela della salute, alla conciliazione vita-lavoro e un piano azionario e pensionistico a copertura degli imprevisti dell’invecchiamento, rappresentano il tassello più classico del modello. 


Una parte dell’offerta aziendale, poi, si orienta verso il bilanciamento dei tempi di lavoro,
interventi in tema di formazione e borse di studio per i figli dei dipendenti.


UNA LEVA PER MIGLIORARE LE PERFORMANCE

Offrire servizi di welfare alternativi è una leva che permette di migliorare il benessere organizzativo e le performance economiche.
Le aziende attente alle politiche di welfare - secondo una ricerca effettuata da McKinsey e Company - hanno un engagement index (indice di impegno del lavoratore) più elevato rispetto a chi non ha
investito in questa direzione.
Contano cioè su una maggiore soddisfazione del personale (+16%), un aumento della dedizione al lavoro (+6%) e una rinnovata consapevolezza dell’immagine aziendale (+12%).
 

Morale: il welfare ha un solido impatto sulla produttività.
 

Dall’ultimo rapporto Welfare Index PMI commissionato da Generali, emerge che politiche di welfare innovative hanno avuto un effetto positivo sui dipendenti, incrementando la loro produttività del 63%.
Il lavoratore che si identifica con una struttura organizzativa attenta alle sue esigenze e che lo coinvolge nel raggiungimento degli obiettivi aziendali, mette quindi inconsciamente a disposizione
dell’impresa anche il proprio benessere psicologico che, a sua volta, condiziona positivamente i risultati economici.
La costruzione di una serie di misure a vantaggio del lavoratore aumenta anche il così detto employer branding, cioè la maggiore attrattività per i talenti.


ESEMPI ITALIANI
 
Anche in Italia, negli ultimi anni alcuni importanti marchi hanno realizzato interventi simili. Nel lontano febbraio 2009, Luxottica fu la prima azienda a proporre alle organizzazioni sindacali un programma gratuito di welfare che garantiva a impiegati e operai assistenza sanitaria, rimborso delle spese scolastiche e sostegno alla creazione di nuovi nuclei familiari sul territorio.
Qualche anno dopo, anche l’elegante casa di moda guidata da Brunello Cucinelli ha previsto la possibilità di rimborsare le spese sostenute dai dipendenti per attività culturali, mentre Auchan ha
sottoscritto un accordo per convertire il premio di risultato annuo in servizi e benefit legati alle esigenze della vita quotidiana. Lamborghini, invece, ha corso veloce (manco a dirlo!) sulla creazione di servizi per favorire il work-life balance e la formazione estiva dei figli dei lavoratori, mentre
il progetto Ferrero Pass garantisce da anni progetti di conciliazione vita-lavoro. Infine, dal 2013 il Gruppo Tod’s versa l’1% dell’utile netto per le famiglie in difficoltà nelle Regioni in cui opera. Secondo un recente rapporto pubblicato dall’Osservatorio Easy Welfare, chi investe di più nel
welfare aziendale appartiene al settore finanziario, assicurativo e agli Enti pubblici e le prestazioni più apprezzate riguardano l’istruzione dei figli, la previdenza complementare, la sanità integrativa
e l’erogazione in natura di beni e servizi. Dati utili per le imprese italiane che pensano di andare in questa direzione e che hanno chiara la stretta relazione fra economia e produzione e il sorriso dei propri dipendenti, vero patrimonio per cui il Made in Italy continua a fare la differenza in tutto il mondo.


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lunedì 28 maggio 2018

Licenziamento nullo se anticipato

Per vostra informazione, qualora la cosa interessasse a qualcuno.

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

È nullo il licenziamento del dipendente intimato in costanza di malattia prima della fine del
periodo di comporto.
Nel caso portato all’attenzione della Cassazione a sezioni unite (sentenza 12568/2018), il
datore di lavoro era receduto dal rapporto di lavoro non appena ricevuto un certificato di
malattia recante una prognosi tale da determinare il superamento del periodo massimo di
conservazione del posto, senza quindi attendere il suo compiuto esaurimento.
Per la Suprema corte, il licenziamento intimato per superamento del comporto prima della
scadenza dello stesso deve considerarsi «nullo per violazione della norma imperativa di cui
all'art. 2110, comma 2, cod. civ.», atteso che all’atto della comunicazione di recesso il presupposto legittimante il licenziamento non si è ancora realizzato.
Il tribunale prima, e la Corte d’appello di Cagliari poi, chiamati a giudicare la legittimità
della decisione, hanno rigettato l’impugnazione del dipendente, sull’assunto che il recesso non
dovesse considerarsi invalido, bensì meramente inefficace sino all’ultimo giorno di malattia.
La Cassazione ha ribaltato le decisioni dei giudici territoriali.
Poco conta che tale presupposto - come nel caso in esame - si sarebbe potuto realizzare successivamente. I requisiti di validità del recesso, infatti, devono sussistere al momento in cui lo stesso viene intimato.
Le sezioni unite danno altresì atto di come il contrasto tra il principio di diritto espresso nella sentenza e l’orientamento giurisprudenziale che sanziona con l’inefficacia il licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore, al quale i giudici territoriali sembrerebbero aver aderito, sia solo apparente: nel caso portato da ultimo all’attenzione della Suprema corte, infatti, il perdurare dello stato di malattia integrava «di per sé l’unica ragione del licenziamento» e, pertanto, l’unico presupposto di legittimità del recesso. Diversamente, nei precedenti giurisprudenziali che hanno aderito alla tesi dell’inefficacia, il recesso datoriale era fondato su di «un motivo di recesso diverso e
autonomo dal mero protrarsi della malattia» (segnatamente, giustificato motivo oggettivo,
sopravvenuta inidoneità del prestatore ovvero riduzione del personale) e, conseguentemente, il perdurare dello stato di malattia rappresentava un mero «elemento… estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento».
La sentenza 12568 risolve una questione pratica che spesso è dato incontrare: se, infatti, l’articolo 2110 del codice civile dispone che in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto solamente una volta «decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità», la legge tace in ordine alla sorte del licenziamento intimato prima che tale periodo sia effettivamente trascorso.
Le sezioni unite rendono giustizia di un contrasto giurisprudenziale che in realtà non sussisteva agli occhi del lettore più attento: il licenziamento è inevitabilmente nullo ogniqualvolta trovi la sua causa nel superamento di un periodo di comporto non verificatosi, mentre - qualora intimato per altra ragione in presenza della quale l’ordinamento consente il recesso datoriale - dovrà essere considerato
meramente inefficace sino all’esaurimento del comporto, ovvero fino a quando perduri la
malattia del lavoratore.


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venerdì 25 maggio 2018

Come imparare a lavorare meno (3)

(Fonte: "Io donna - Il Corriere della Sera") 

Mercoledì. In agenda ci sono io

Dalle sei del pomeriggio in poi non si lavora. Almeno proviamoci.
Impariamo a fare qualcosa di piacevole dedicato solo a noi stessi. Obblighiamoci anche a una vera pausa pranzo, senza mangiare di fronte al computer.

Staccare può dare ansia, il corpo si abitua alla frenesia lavorativa e quando ci fermiamo sembra di perdere tempo. Poi però torniamo alla scrivania con la mente più lucida e rendiamo di più: così l'ansia scende e pian piano si può adottare un'altra piccola buona abitudine.

Il cambiamento va fatto un poco per volta perché sia duraturo.

Giovedì. Tre respiri profondi

Appiccichiamo un post-it allo schermo del nostro computer per ricordarci di fare una pausa per sgranchirci ogni 30-45 minuti, di bere e di fare tre respiri profondi.

Essere presenti a noi stessi è l'esercizio di oggi, per provare a pensare a quel che facciamo nel momento in cui lo facciamo.
Magari spalle e collo per una volta non ci faranno male la sera.

Venerdì. C'è chi dice no

Oggi proviamo a dire no a un altro impegno. Bisogna fermarsi e chiederci perché sentiamo la molla irresistibile ad accettare quell'incarico, anche se sappiamo che dovremo fare i salti mortali per infilarlo nella nostra giornata.

Bisogna almeno negoziare, è sempre possibile farlo. E quando troviamo un muro, meglio il no.

La questione è riconoscere il proprio limite: tutti lo abbiamo, dobbiamo saperlo accettare. (...)

Strappare qualche giorno in più per evadere un nuovo compito ci permetterà di affrontarlo con meno ansia.

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giovedì 24 maggio 2018

Come imparare a lavorare meno (2)

(Fonte: "Io donna - Il Corriere della Sera")


Lunedì. Una piccola buona abitudine

(...)

Suona la sveglia, oggi impariamo a non gettarci a capofitto a preparare ciò che serve per la famiglia ma proviamo a farci una doccia con calma e a pensare prima a noi, dedicandoci un po' di tempo. 

Bisogna imparare a considerare noi stessi come un patrimonio. Come stiamo investendo questo bene prezioso? Trattare con amore il proprio corpo è il primo passo.

(...)

Possiamo metterci lo stesso tempo di sempre a prepararaci semplicemente mettendo bene in ordine le cose e preparandocele alla sera in modo da avere tutto a portata di mano per trovare ogni cosa subito senza rovistare nei cassetti. 
E non fare tutto come se fossimo inseguiti ci regalerà una bella sensazione di calma.

Martedì. Chiedo aiuto 

Farci aiutare è il compito per questo secondo giorno della settimana.
Bisogna imparare a semplificarci la vita e a delegare, mettendo a riposo il perfezionista che c'è in noi.
Chiedere al coniuge un aiuto per occuparsi di casa, spesa, bambini e incombenze varie è fondamentale per non vagare perennemente nell'ansia e questo vale per uomini e donne.



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mercoledì 23 maggio 2018

Come imparare a lavorare meno

Passare troppe ore alla scrivania fa male alla salute, ormai è certo. Ed esagerare non migliora la produttività, anzi.

Se vi è già capitato di andare in ferie e di ammalarvi il giorno stesso perché appena mollate il sistema immunitario va in vacanza pure lui, date una possibilità ai consigli che seguono.
Vi confesso che sono un po' scettica davanti a tesi del genere, forse anche perché non ho mai sperimentato un vero e proprio stress derivante dal lavoro che ho sempre avuto la fortuna di potermi gestire abbastanza serenamente (con picchi e tensioni, certo, ma assolutamente nella norma) però magari per qualcuno risultano inutili e non scontati.

Buona lettura!

(Fonte: "Io donna - Corriere della Sera")

(...)

Uno studio di "The Lancet" riporta che superare le 55 ore di scrivania alla settimana porta dritti a un maggior rischio di problemi cardiaci vari, dalle aritmie all'ictus.

Anche l'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha sentito il bisogno di ricordare che bisogna ridimensionare gli impegni con la Giornata Mondiale per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro celebrata nei giorni scorsi: pare che non farlo regalerà come minimo ansia, rapporti disastrati con i figli  e un probabile divorzio. E si potrebbe persino finire per perderlo, il lavoro: esagerare riduce la produttività, un po' perché ci si ammala di più, ma anche perché a furia di tirare la corda il cervello perde smalto.

L'unico modo per affrontare correttamente lo stress del quotidiano è trovare un equilibrio, magari mettendo in pratica i suggerimenti di un coach per una settimana.

Un campanello d'allarme per il fisico

(...)

Il superlavoro mette a dura prova il fisico. Sedentarietà, abitudini alimentari scorrette, dormire poco e male, essere sempre sotto stress provocano problemi cardiovascolari, muscolo-scheletrici e gastrointestinali, favoriscono sovrappeso e sintomi psicosomatici di malessere.
L'esaurimento emotivo porta a scarsa flessibilità mentale, conflitti coi colleghi e soprattutto in famiglia. 

(...)

L'Università di Melbourne fa sapere che dopo i 40 anni per rendere al massimo bisognerebbe lavoprare non più di 25 ore a settimana.

(...)

Oggi la competitività è enorme, il mondo va veloce e scendere è dura. Ma si può fare.

(...)

A partire da domani leggeremo insieme i consigli riportati dalla rivista, suddivisi per giorni lavorativi della settimana.

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martedì 22 maggio 2018

La sostenibilità piace (e paga)

("Affari&Finanza")

«I consumatori sono più maturi, smettono (come prima motivazione) di comperare un prodotto quando si sentono presi in giro sulla sua “reale” sostenibilità. Una presa di coscienza nei confronti degli acquisti green che troppe aziende, ancora oggi, sottovalutano».
Conosce bene il comportamento degli italiani Fabio Iraldo, professore di management della sostenibilità alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che, con le sue ricerche (tra le più significative sul tema, il «Green Economy Observatory» in collaborazione con la Bocconi di Milano che
ha studiato oltre 3.800 aziende) sviscera il rapporto tra i consumi nazionali e le politiche ambientali delle imprese. Una relazione, quest’ultima, che negli anni si è fatta sempre più complessa: «Ormai —osserva Iraldo — siamo arrivati al punto che il 52% di noi è persino disposto a pagare di più un prodotto che considera “veramente” sostenibile. La propensione, come conferma il «Global
Survey of Corporate Social Responsability and Sustainability» di Nielsen, è in aumento del 45% rispetto al 2014. Siamo di fronte, del resto, a una nuova consapevolezza ecologica che, in Italia e nel mondo, continua ad aumentare, trainata soprattutto dal desiderio di contribuire in prima persona al miglioramento della società».

Una coscienza verde che si è formata (in modo più evidente nelle nuove generazioni, mentre per le altre ci ha pensato, in parte, il quadro normativo che, negli ultimi anni, ha trasformato in obbligo parecchie scelte virtuose) «grazie all’evoluzione del contesto sociale: dai media (più sensibili, secondo il professore), fino all’entrata nei programmi scolastici (si inizia alle elementari) di temi come la raccolta differenziata, i gas serra, il surriscaldamento globale e i cambiamenti climatici».
Una sensibilità diffusa, appunto, ma anche una variabile di marketing in più che, per Iraldo, si rivela premiante, per le imprese che investono costantemente in ricerca e sviluppo (secondo Eurobarometro 2018, la media di quelle italiane è di circa il 6% del fatturato annuale) per diventare più sostenibili.
«Oltre il 40% delle nostre imprese — precisa — usa già materiali riciclati integralmente per il packaging e il 30% considera il “latogreen”come parte integrante dei processi creativi. Fino ad arrivare a quel 25% di aziende che addirittura ha implementato la vita utile dei propri prodotti. Gli sforzi, tuttavia, variano sensibilmente da settore a settore e il margine di miglioramento è ancora altissimo. Sono poche, del resto, le aziende in grado di affrontare il tema ambientale a 360 gradi. Mosche bianche come Sammontana, Gucci, Carlsberg».

Una chiave potente, la sostenibilità, che, oltre a promuovere comportamenti migliori (un terzo, a livello globale, le aziende che comunicano la carbon footprint dei propri servizi e prodotti, secondo lo State of Green Business Report 2018), rischia però di generare scenari poco trasparenti, al limite del greenwashing: definizione anglosassone inv entata proprio per indicare quelle aziende che usano le tematiche ambientali proprio perripulirsi (washing, appunto) la coscienza agli occhi dei consumatori. Atteggiamento, secondo Iraldo, in cui rischiano di scivolare anche le nostre imprese, visto che,
secondo le sue indagini sull’affidabilità dei messaggi pubblicitari a sfondo ambientale in Italia, la carenza di chiarezza coinv olge l’84% delle aziende nazionali. «Si tratta — conclude Iraldo — di un problema talmentediffuso in tutta la Ue che la Commissione europea sta lavorando per trovare il modo di accertare che gli argomenti legati alla sostenibilità sianoveri prima di usarli per fare comunicazione».

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lunedì 21 maggio 2018

Le aziende responsabili in Borsa battono gli indici

(Fonte: "Affari&Finanza")

Si  investe  sempre  più  guardando, oltre ai fondamentali di un’azienda, anche ai suoi comportamenti  in  tema  di  rispetto dell’ambiente, dei diritti sociali o di buon governo societario, ma il principale ostacolo alla diffusione degli investimenti Esg è il timore che l’esclusione delle aziende poco virtuose possa penalizzare la performance del portafoglio, preoccupazione espressa, ad esempio, da 220 dei 500 investitori istituzionali intervistati da Schroders per il suo Institutional Investor Study 2017. Ci sono diversi studi ed evidenze che dimostrano, invece, che le aziende più
attente  ai  temi  della  sostenibilità realizzano  performance  di  borsa migliori  e  un’ulteriore  conferma viene ora da una ricerca sviluppata congiuntamente  dalla  School  of Management del Politecnico di Milano e da Banor Sim che ha il pregio, rispetto a precedenti studi, di analizzare la correlazione tra il rating Esg e la performance di azioni più  vicine  agli  investitori  italiani,
oggetto di indagine sono, infatti, i titoli che compongono l’indice Stoxx Europe 600. La ricerca è coordinata  con  uno  studio  analogo  sul mercato  Usa  dall’Harvard  Business School.
 

L’analisi dimostra che, nel periodo che va dal 2012 al 2017, i titoli con il rating Esg più elevato hanno realizzato una performance cumulata dell’86,1% contro il 70,9% dei titoli con il rating più basso. «Dagli studi condotti emerge una correlazione tra migliore performance e aderenza  ai  principi  Esg;  oggi  in Usa  questa  correlazione  è  anche spinta dai flussi. In futuro, sarà difficile stabilire quanto incideranno le politiche di sostenibilità e i flussi di investimento  ad  esse  legati  sulle performance  di  un’azienda»,  ha spiegato  Massimiliano  Cagliero, fondatore e amministratore delegato di  Banor  Sim,  nell’illustrare le conclusioni dell’indagine. «Di fatto e importante riconoscere che una correlazione ci sia e che questo inneschi un circolo virtuoso nell’economia  reale,  con  la  conseguente spinta sulle aziende quotate ad adeguarsi per attirare investitori».
 

Attribuire un voto, un rating al modo in cui un’azienda affronta le problematiche relative  al rispetto
dell’ambiente,  i  diritti  sociali  o  il buon governo aziendale non è un compito facile, anche se dallo scorso gennaio, un regolamento della Consob, adottato in attuazione di una direttiva europea, impone alle società quotate e alle banche e assicurazioni di grandi dimensioni di integrare i propri rendiconti finanziari con una dichiarazione sui temi di carattere non finanziario, come  gli aspetti  ambientali,  sociali, quelli attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva. Per calcolare il rating di sostenibilità di ciascun titolo, i ricercatori
di Banor  e Politecnico  di Milano hanno preso in considerazione 424 indicatori, raggruppati in 10 categorie; il peso attribuito a ciascun indicatore cambia da industria a industria, seguendo un procedimento già utilizzato da alcuni ricercatori nel 2016 per il mercato Usa, per tenere conto delle specificità di ogni area di business. Dopotutto, come si sottolinea nel rapporto, fattori come la sicurezza dei dati e la privacy dei clienti sono molto più importanti nei settori dell’informatica e
delle  telecomunicazioni  piuttosto che  nell’industria  manifatturiera, dove, invece, gli aspetti legati all’inquinamento e all’impatto sull’ambiente  contano  decisamente  più che nel mondo dei servizi e della finanza. Una peculiarità che emerge dalla ricerca è che il mercato sembra premiare in particolare le imprese che perseguono buone pratiche  nei  tre  elementi  -  environment, social e governance – nel loro complesso, piuttosto che in uno dei singoli aspetti: se si valuta la performance dei titoli classificati in base al rating di un singolo elemento, infatti, si nota che i risultati migliori
sono ottenuti dai titoli con rating medio e non da quelli con rating più elevato. L’indagine ha poi approfondito l’analisi dei fattori che determinano  la  performance  di borsa complessiva, analisi eseguita solo per i titoli industriali che compongono l’indice, escludendo quindi banche, assicurazioni e società finanziarie. A contribuire principalmente alle performance è stato un
generalizzato aumento dei multipli di valutazione, il rapporto prezzo / utili, ma dall’analisi è emerso
anche che le imprese che presentano il rating Esg più elevato sono anche quelle che si sono dimostrate più efficienti nell’aumentare il proprio fatturato, nel migliorare la redditività (sono le uniche con un valore mediano positivo) e anche il dividend yield, il rapporto tra dividendi erogati e prezzo di borsa. Questa evidenza,  come  si  sottolinea  nel rapporto, «è coerente con l’ipotesi
che l’adozione delle migliori pratiche Esg sia la fonte di un vantaggio competitivo  di  lungo  termine». 


L’ultimo aspetto analizzato è quello che riguarda il legame fra rating Esg e valutazione di mercato, sintetizzata  dal  rapporto  prezzo/utili.
Anche in questo caso, la conclusione è che includere una valutazione dei rating Esg nel processo di selezione di titoli consente di migliorare i risultati. «Integrare criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di attenzione verso tutti gli stakeholder  con  i  modelli  tradizionali  di analisi finanziaria value-based può dare vantaggi ai gestori e agli investitori»,  ha  dichiarato  Giancarlo Giudici  della  School  of  Management  del  Politecnico  di  Milano.
«Sono  sempre  di  più  le  imprese che  investono  nelle  buone  pratiche Esg, nella convinzione che questo possa rappresentare un vantaggio competitivo di medio-lungo termine».


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venerdì 18 maggio 2018

L’occupazione si avvicina ai livelli registrati nel 2008

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Una mappatura delle reti e dei nodi relazionali tra individui, famiglie, imprese, istituzioni e territori per misurare i grandi cambiamenti dell’economia e della società, accelerati e resi strutturali dalla
doppia recessione del 2008-2009 e del 2012-2013. Eccola l’ultima fotografia Istat sulla situazione del Paese che arriva dal Rapporto annuale presentato nei giorni scorsi a Montecitorio. Una produzione che chiude la serie firmata dal presidente Giorgio Alleva, il cui mandato scade il 14 luglio, e che completa il percorso interpretativo offerto a partire dal 2015 con le analisi sui sistemi territoriali, nel 2016 con quella sulle sei generazioni che compongono la struttura demografica nazionale e, infine, nel 2017, con la riclassificazione degli otto gruppi sociali in cui sono raccolti i quasi 26 milioni di famiglie italiane.


Lavoro e istruzione, oltre alle dinamiche delle imprese, vengono confermate anche questa volta come le variabili chiave per capire dove sta andando l’Italia dopo il “salto di struttura”. Il mercato del lavoro, innanzitutto. Il recupero occupazionale dell’ultimo anno, che ci ha riportati sui livelli vicini a quelli del 2008, ha confermato la forza dei mutamenti: nei 23 milioni di occupati c’è oltre un
milione di part time in più rispetto a dieci anni fa, è scomparso un milione di manuali
(operai e artigiani), ci sono circa 500mila autonomi in meno e altrettanti nuovi dipendenti. E ancora, l’allineamento dell’ultimo anno rispetto al 2008 è stato quasi esclusivamente frutto delle assunzioni femminili (404mila in più) mentre gli uomini con un lavoro sono ancora sotto i massimi di dieci anni fa di 417mila unità. Le professioni qualificate si sono ridotte di 362mila unità e il personale non
qualificato è cresciuto di 437mila, mentre il settore che ha assorbito più addetti (861mila sempre tra il 2008 e il 2017) è quello del commercio e dei servizi. 


La crescita c’è stata ed è proseguita anche nel primo trimestre di quest’anno, soprattutto con i contratti a termine - ha spiegato Alleva - ma siamo ancora con un tasso di occupazione inferiore di 9 punti percentuali alla media europea e, considerando anche le forze di lavoro potenziali, ci sono 6 milioni di persone che vorrebbero entrare in questo mercato ma non ci riescono.
Chi è più istruito ha maggiori chance di trovare un lavoro e una migliore remunerazione anche in un contesto in cui, nel 90% dei casi, per la ricerca di un impiego continuano a essere preferite le reti informali di conoscenze e parentali; una preferenza che si rispecchia anche sul lato della domanda, visto che 7 imprese si 10 preferiscono reclutare per via informale. Ma circa il 13% di chi usa i canali informali prova anche le vie più formali: tra i laureati del 2011 che sono stati assunti nel 2015
la modalità più efficace per trovare il lavoro -ha spiegato Alleva - è stata l’inserzione o l’invio di un curriculum (circa il 33%). Mentre solo per i laureati di area scientifica o in ingegneria è stata importante la segnalazione dell’università. Trovare lavoro su segnalazione di familiari o amici si rivela anche meno redditizio, a riprova che non tutte le reti sociali funzionano come moltiplicatori positivi.
«Alla luce dei nuovi risultati - ha spiegato Alleva nella sua relazione - il rafforzamento dei
servizi per l’impiego rappresenta un elemento cruciale per realizzare politiche attive del
lavoro più efficaci, anche con riferimento alle misure di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale». Più lavoro e più istruzione garantiscono maggiore sicurezza anche perché sono associate a «reti di sostegno sociale» più forti e diffuse in caso di bisogno.
Insomma i vantaggi delle risorse relazionali - è stata la conclusione del presidente
dell’Istat - si estendono oltre i confini dell’individuo o della famiglia, accrescono la fiducia con effetti importanti per l’intera società.


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giovedì 17 maggio 2018

L’industria torna al «pre-crisi»

(Fonte: "Il Sole 24 ore")


Dodici anni. Una lunga traversata nel deserto che tuttavia per l’industria italiana sta per finire, chiudendo il gap nei ricavi rispetto al picco pre-crisi. “Aggancio” che si concretizzerà nel 2019, grazie alla crescita ancora robusta prevista per la nostra manifattura, rilanciata da una domanda estera che, pur rallentando, resta solida e dalla ripresa del ciclo di investimenti in Italia.
Un mix che nel rapporto-analisi dei settori industriali di Intesa Sanpaolo e Prometeia produrrà per 2018 e 2019 una crescita media annua dei ricavi superiore al 3% in termini correnti, esattamente quei 60 miliardi in più che riportano indietro le lancette al 2007, quando la manifattura tricolore superava i
930 miliardi di vendite. «Un recupero più lento del previsto - sottolinea il capo economista di Intesa Sanpaolo, Gregorio De Felice - che però si basa su elementi strutturali solidi, con l’industria a confermarsi il maggior elemento di traino della nostra economia. La fortissima selezione generata dalla crisi ha operato una profonda trasformazione del tessuto produttivo e i “sopravvissuti” sono
più forti e competitivi rispetto al 2007».


Condizione quanto mai gradita nel momento in cui il picco della crescita pare ormai alle spalle, mentre le condizioni di contesto esterno (commercio estero in frenata, politiche Bce e di altre banche centrali in prospettiva meno accomodanti, euro più forte sul dollaro rispetto al passato) si modificano in senso negativo per le imprese e il rischio di una guerra di dazi incombe sul nostro export.
In Italia, tuttavia, la crescita degli investimenti, il leggero aumento della dimensione media d’impresa, il miglioramento della redditività e il rafforzamento patrimoniale rappresentano le “spie” di un percorso virtuoso che la manifattura ha avviato:  se dopo la crisi la base produttiva è più piccola è però anche meglio attrezzata.
Elementi di forza visibili anzitutto sui mercati internazionali, con l’export industriale (al 2022 sarà il 51% dell’output dal 36% del 2008) visto in progresso anche nei prossimi anni, in grado di spingere l’avanzo commerciale a vette impensabili: dai 30 miliardi del 2007 ai 91 dello scorso anno, fino ai
115 previsti nel 2022, grazie al contributo decisivo della meccanica.
 

Settore brillante anche sul piano interno, grazie alla domanda aggiuntiva di investimenti innescata dal piano Industria 4.0, capace di attivare non solo i costruttori di impianti ma anche una vasta e articolata filiera di fornitori e componentisti a monte.
Se il 2017 è stato l’anno degli “ordini”, l’anno in corso è quello della messa a terra dei programmi, con investimenti in macchinari e attrezzature visti lievitare del 6,5%, di oltre dieci punti per le macchine utensili.
Non a caso, guardando alle previsioni per i singoli settori, proprio l’area meccanica sarà la protagonista assoluta, distanziando nel 2018 ogni altro comparto con una crescita del fatturato del 4,2% a prezzi costanti, quasi il doppio rispetto alla media. E nonostante un progressivo e fisiologico rallentamento degli investimenti, grazie all’export, anche nel medio termine resterà tra le aree più toniche.


Risultati oltre la media anche per auto e moto, largo consumo, elettrotecnica e farmaceutica mentre elettronica ed elettrodomestici presentano le previsioni meno rosee.
Nella media, però, l’intera industria fino al 2022 viaggerà a tassi di crescita superiori al 2%, consentendo un graduale recupero anche in termini di marginalità, con il margine operativo lordo sistematicamente a ridosso del 10% e una redditività che al termine del periodo in esame sarà tornata infine sui livelli del 2007.
«Abbiamo le spalle più robuste - spiega il partner di Prometeia Alessandra Lanza - ed ecco perché credo sia il momento per le imprese di continuare a dedicare risorse alla crescita». Che resta la strada maestra anche per proseguire il trend di recupero in termini occupazionali, dove invece il gap
rispetto al 2007 resta ancora ampio. Un deficit del 9% inferiore a quanto sperimentato da Spagna e Francia ma tuttavia ben più alto del 2,3% della Germania.
Trend numerici che nel frattempo si sono però accompagnati a evoluzioni qualitative, con il settore manifatturiero a sperimentare un riposizionamento della forza lavoro verso mansioni più qualificate, soprattutto tra i “colletti bianchi”. Trasformazione delle competenze cruciale nella gestione delle
nuove tecnologie 4.0, dove però i gap dell’Italia sono ancora evidenti: se in Germania il 25% delle aziende impiega tra i propri addetti specialisti nell’Ict, in Italia la quota scende al 18%.
Situazione insostenibile e da modificare al più presto, per una manifattura che diventa ogni giorno sempre più digitale.


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mercoledì 16 maggio 2018

I dirigenti non conciliano il lavoro con la famiglia

(Fonte: "Affari&Finanza")

Un manager under 50 su due non riesce a conciliare il lavoro con la famiglia nonostante quest’ultima sia considerata più importante della realizzazione professionale, con un punteggio, su una scala 1 a10, di 9,4 contro l’8,1 attribuito al lavoro.
L’armonizzazione, invece, è più riuscita tra gli over 50, che nel 66% dei casi riescono a far fronte ad entrambi gli impegni. In media, quindi, solo il 63% dei manager italiani riesce a bilanciare famiglia e lavoro, un dato di gran lunga inferiore a quello registrato in altri Paesi: negli Stati Uniti è alll’87%, in Germania al 75. La condizione dei manager in Italia e all’estero è fotografata  dall’indagine  promossa  da  Federmanager  su  oltre 1.000 dirigenti e quadri apicali, uomini e donne, e su 200 donne manager in Usa e Germania, realizzata dall’istituto di ricerca G&G Associated di Roma. A influenzare negativamente il work-family-life balance è innanzitutto la mancanza di tempo da dedicare alla famiglia. Le donne manager italiane, in particolare, investono nel lavoro più di 9 ore al giorno contro le 8,2 delle statunitensi e le 7,1 delle tedesche. Per contro, dedicano solo 3,7 ore al giorno per la casa, il coniuge e i figli. Negli Usa gli affetti meritano oltre 4 ore, in Germania solo 3,2 ma il tempo di non lavoro è dedicato anche ad altre attività sociali.


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martedì 15 maggio 2018

Si chiama parità di genere la nuova sfida dei manager

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

In Italia solo un manager su cinque è donna, contro una media europea di uno su tre. Va peggio
nell’industria, settore trainante dell’economia italiana, dove l’87,4% dei manager è uomo. Peraltro, rispetto ai colleghi uomini, le donne manager italiane guadagnano il 14% in meno.
Le posizioni apicali sono quelle in cui il gap retributivo e le differenze occupazionali sono più alte, secondo quanto emerge dalla ricerca di Federmanager su «L’altra dimensione del management,
il valore aggiunto delle donne tra ripresa, famiglia e società», realizzato dall’istituto di ricerca
G&G Associated, e presentato oggi nella città del Vaticano. Nel report annuale 2017 del World
Economic Forum sulla parità di genere, l’Italia è scivolata all’82esimo posto sui 144 Paesi analizzati . Nell’indice specifico che analizza il differenziale di retribuzione va anche peggio: l’Italia occupa il 118esimo posto. Un uomo guadagna mediamente il 12,7% in più rispetto ad una pari ruolo,
30.676 euro di retribuzione annua lorda media per gli uomini, 27.228 per le donne.
Eppure, come sottolinea la ricerca, una società più equa è una società più ricca. Secondo il
McKinsey Global Institute, se nel mondo le donne avessero pari accesso degli uomini nel lavoro e
nella società, il Pil globale aumenterebbe del 26%, quello italiano del 15%. Per le manager qualche timido passo in avanti è stato fatto, se si considera che dal 2005 al 2014 le donne dirigenti in Italia sono aumentate dal 24% al 28%. Tutto ciò nonostante siano mancate politiche mirate di sostegno alla famiglia, e prevalga una cultura aziendale ancorata a stereotipi prettamente maschili. Merito anche di provvedimenti come la legge Golfo-Mosca sulle quote rosa: nei Cda delle grandi aziende italiane la presenza di donne è cresciuta dal 7,4% (2011) al 33,5% (2017), si sono avuti «effetti numerici rilevanti, che rischiano di restare cifre scritte su carta se non vengono seguite da politiche di empowerment».
La legge 120/2011 perderà efficacia dopo il 2022, un arco temporale che nelle previsioni originarie dovrebbe consentire di avviare un grande cambiamento culturale nel mondo dell’impresa. Ma per
gli autori della ricerca è «una previsione piuttosto ottimistica se si considera, leggendo i dati in maniera più approfondita, che solo il 15% delle donne ha ruoli di executive all’interno dei Cda in cui sono presenti, mentre le donne presidenti sono appena il 7%».
Il superamento del divario di genere è una sfida che il management vuole cogliere, spiega il presidente di Federmanager, Stefano Cuzzilla: «Le pari opportunità tra uomini e donne sono una questione di civiltà - sostiene - ma sono anche un prerequisito per un’economia più solida e per uno sviluppo sostenibile. Abbiamo preso in in carica questo tema insieme alla Santa Sede perché serve un cambiamento della cultura dominante, perché pregiudizi e stereotipi sono ancora il primo ostacolo alle pari opportunità». Cuzzilla ricorda come, nell’ambito della ricerca, alla domanda sulla retribuzione per un direttore delle vendite, una responsabile delle risorse umane ha chiesto, prima di rispondere, se il riferimento fosse ad un direttore uomo o donna.
Quanto agli interventi per risolvere il divario di genere auspicati dal panel di manager intervistati,
sono soprattutto misure di flessibilità lavorativa (81% dei casi) e di welfare aziendale (citato nel
68%). In particolare, per il 96% il welfare aziendale è una risposta efficace (negli Usa è del 76%, in
Germania al 74%). Su una scala da 1 a 10 le donne manager hanno valutato positivamente gli orari di lavoro flessibili (9.2 punti), lo smart working (8,9 punti), l’assistenza parentale (8,8 punti), il supporto della genitorialità (8,7 punti).
L’indagine mette in luce un ritardo nell’adozione di codici di condotta, presenti nel 40% delle
aziende statunitensi contro il 7% dell’Italia. Per il 75% delle manager italiane, il lavoro rappresenta innanzitutto una realizzazione personale, oltre a rispondere a necessità contingenti. Il problema della
disparità tra i due sessi in ambito lavorativo in Italia dal 57% è ritenuto un fattore culturale, mentre negli Usa (28%) e in Germania (per il 27%) è considerato un problema sociale. Sugli effetti della presenza delle donne nelle aziende l’85% dei manager italiani ritiene che a beneficiarne sia l’immagine aziendale, il 77% il clima e l’organizzazione. Solo il 63% delle donne manager italiane riesce a bilanciare famiglia e lavoro, contro l’87% degli Usa e il 75% della Germania. Le manager italiane dedicano 9 ore al giorno al lavoro, mentre negli Usa 8,2 ore e in Germania 7,1 ore.


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lunedì 14 maggio 2018

I millennial: senza ferie pur di lavorare

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Per l’ assunzione i giovani sono pronti a rinunciare a ferie e festivi. La coraggiosa ricerca condotta per le Acli dell’Iref si confronta con gli slittamenti della realtà e con il forzoso adattamento dei giovani a un mercato del lavoro che li penalizza strutturalmente.

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Li chiamano i «nativi precari». Sono gli italiani sotto i 30anni, nati durante la crisi: Loro non hanno conosciuto altro e sanno che il lavoro è e sarà sempre un problema. Uno studio dell’Iref,
l’ente di ricerca delle Acli, li ha intervistati (...) e ha scoperto che i nati negli anni ‘90 sono disposti a
rinunciare ad alcuni diritti pur di ottenere (e mantenere) un posto di lavoro, ma anche per raggiungere una meta professionale.
È il lavoro in deroga (...). Che per i millennials significa rinunciare ad alcuni o anche a tutti i
diritti pur di lavorare. La ricerca parla di «obbedienza preventiva alla precarietà», una sorta di imprinting per i nostri giovani «talmente incorporata nelle loro vite da far loro accettare in maniera preventiva le penalizzazioni del mercato del lavoro». Riguarda il 35% degli intervistati, percentuale che sale al 38% se l’under 30 non è laureato e vive in Italia, mentre tocca appena l’11,3% se vive all’estero: anche se «nativi precari», gli expat italiani fanno esperienza di un mercato del lavoro
meno bloccato e quindi sono meno disposti a rinunce, come invece i coetanei rimasti in patria.
In generale, solo l’11,7% disobbedirebbe all’imprinting.
Ma se poi si rischia il licenziamento ecco allora che solo il 32,8%non accetterebbe alcuna deroga. Perché almeno uno su due invece, pur di tenersi il posto, lavorerebbe nei giorni festivi, salterebbe le ferie (16,7%), rinuncerebbe a parte dello stipendio (12,4%), o ai giorni di malattia (10,5%).
Ma c’è deroga e deroga. Perché va considerata la rinuncia per «il lavoro dei sogni». (...) Per
i millennials le rinunce fanno parte del progetto professionale, è la gavetta di una volta: solo che per gli expat dura un periodo, mentre per chi resta non finisce mai. Per un po’, si rinuncerebbe anche allo stipendio (33,2%) o ci si accontenterebbe di una retribuzione bassa (34,6%), perché, (...) in questo sistema, il pagamento è solo una delle forme di retribuzione.
E per realizzare i propri sogni può andare bene lavorare nel tempo libero(38%), per più ore (43%) e a casa (41,9%).
Compromessi accettati soprattutto e di più da non laureati, «i più istruiti sono più resilienti», ma per tutti, (...), c’è una frustrazione mista a disillusione, un autoconvincimento che questo sia l’unico dei mondi possibili e l’unica soluzione sia l’adattamento. Soluzioni? Intanto, un maggiore orientamento
all’ingresso del mercato del lavoro fin dalla scuola, e poi, soprattutto, meccanismi sistematici più aperti e trasparenti: in Italia il lavoro si trova ancora troppo quasi solo per conoscenze.


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Olivetti come modello di impresa internazionale moderna

"Business Insider Italia" ci racconta Adriano Olivetti come esempio di imprenditore moderno.

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venerdì 11 maggio 2018

Lavoratori più soddisfatti se non periferici

"HBR" di recente ha fatto un'interessante riflessione su quanto siano più soddisfatti quei lavoratori che possono lavorare direttamente nella sede principale dell'azienda rispetto a quelli che lavorano nelle sedi periferiche.
A parità di compiti, se un lavoratore è impegnato al centro dell'azienda e un altro fa parte di uno staff periferico, il secondo ha meno la sensazione di essere importante, pensa di essere facilmente sostituibile e, di conseguenza, di avere un lavoro meno sicuro.  

La stessa cosa vale per i dipendenti che ricoprono ruoli di supporto rispetto a chi è coinvolto  direttamente nella creazione del prodotto o del servizio primari dell'azienda.

I lavoratori "non core" sono più a rischio di minore benessere psicologico, sostengono i ricercatori, e i manager dovrebbero prestare attenzione a questo fattore e prendere provvedimenti per aumentare la soddisfazione di questi dipendenti.


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giovedì 10 maggio 2018

Ricominciare dopo i 50 anni: si può

"Il Sole 24 Ore" ci racconta che ricominciare a lavorare dopo i 50 anni è possibile in 8 casi su 10.

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mercoledì 9 maggio 2018

Formazione: ci sono pochi soldi (e restano anche fermi)

(Fonte: "Il Corriere Economia")

Gli ultimi dati dell’indagine Excelsior, realizzata da Unioncamere in collaborazione con Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ci dicono che per il mese di aprile le aziende italiane hanno programmato 425 mila entrate di nuovi dipendenti, di cui un terzo rivolte ai giovani con meno di trent’anni. È un fabbisogno di forza lavoro che in circa il 20% dei casi, a detta delle imprese, è difficile da trovare. Nel segmento giovanile questo rischio di mancato incontro tra domanda e offerta sale al 30%. Il settore più esposto al «mismatch» è quello delle nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni, cioè quello più strettamente legato a Industria 4.0.

La situazione è paradossale. Da una parte si cerca di favorire e accelerare la digitalizzazione del sistema produttivo, con un ambizioso piano ad hoc finalizzato a proiettare le aziende verso la quarta rivoluzione industriale, dall’altra mancano le competenze necessarie per dare linfa vitale a quel piano. Per superare questo paradosso l’ultima legge di bilancio ha introdotto un’agevolazione fiscale volta a sostenere le imprese che fanno formazione sulle professioni di Industria 4.0. 

L’iniziativa è lodevole, ma non basta.

In Italia su 100 persone in cerca di lavoro solo 8 fanno formazione professionale, contro le 11 della Francia e le 24 della Germania. È il riflesso di una spesa per la formazione professionale che in Italia, in percentuale sul Pil, è inferiore a quella dei principali partner europei.
Tale scarto risulta più marcato se rapportiamo le risorse al numero complessivo dei partecipanti alle attività di formazione: 3.500 euro per partecipante in Italia, contro i 6.200 della Germania e i 15.000 della Francia.

I bassi costi per partecipante segnalano un altro nodo: il deficit qualitativo dell’offerta formativa nel nostro Paese, schiacciata su competenze di base e su professioni tradizionali, poco specializzate, scarsamente innovative.
In Italia la formazione professionale viene svolta attraverso canali distinti. C’è il canale autofinanziato da imprese e lavoratori dei Fondi interprofessionali, che vanno a sostenere la formazione continua, rivolta agli occupati. Parliamo di circa 500 milioni di euro l’anno.
Un sistema più attento alle nuove competenze, che andrebbe potenziato e liberato da molte pastoie burocratiche. Ma anche dal peso della formazione obbligatoria. La tematica che coinvolge il maggior numero di lavoratori è ancora oggi «salute e sicurezza sul lavoro».

C’è il canale della Iefp, l’istruzione e formazione professionale, rivolto ai giovani e gestito dalle Regioni. Gode di finanziamenti sia nazionali sia comunitari, in particolare grazie al Fondo sociale europeo. Nel 2015 l’ammontare è stato di 700 milioni di euro. Qui si trovano splendide realtà innovative ma anche molte situazioni in cui permane un forte scollamento con le nuove tecnologie. Basti osservare che la quota maggiore di iscritti riguarda la figura professionale dell’operatore della ristorazione.


L’allargamento della forbice tra innovazione e conservazione si manifesta con più nettezza se andiamo a vedere le differenze territoriali. Nella Provincia autonoma di Trento la percentuale di iscritti a corsi per cameriere è il 18% sul totale, in Sicilia è quasi il 40%, in Campania il 57% per cento.
Qualche anno fa, nel 2015, fecero scalpore le parole del presidente della Sezione giurisdizionale siciliana della Corte dei Conti. Il magistrato indicò la formazione professionale come un settore a finalità «parassistenziale», cioè rivolto non tanto ad accrescere le competenze e l’occupabilità dei lavoratori quanto a finanziare gli enti di formazione.
In Sicilia nel 2007-13 il Fondo sociale europeo e il cofinanziamento nazionale hanno messo a disposizione 2,1 miliardi di euro, destinati in parte considerevole alla formazione professionale. Non è dato sapere quali siano stati gli effetti di questo fiume di denaro sul piano della innovazione del tessuto produttivo dell’isola. Per il periodo 2014-20, l’Europa ha ridotto i fondi alla Sicilia a 820 milioni di euro.

Nonostante le minori risorse, a fine 2017 l’impegnato era il 13% e lo speso il 3%. Nello stesso periodo a Trento l’impegnato era il 44% e lo speso il 23%.

Non possiamo quindi adagiarci sullo stimolo che arriva da Industria 4.0. Occorre uno sforzo perché la formazione sia finalizzata a rinnovare le competenze professionali e sia valutata per i suoi effetti sul mercato del lavoro. Occorre ricostruire l’intera filiera della formazione tecnico-professionale, raccordandola alla domanda delle imprese e assicurando l’immediata conoscibilità dei fabbisogni formativi espressi in ogni parte del territorio del Paese.
Occorre un monitoraggio puntuale e omogeneo, che consenta di verificare l’impatto della formazione sulla crescita quantitativa e qualitativa del lavoro e di indirizzare la spesa dove serve davvero. Si è discusso fin troppo del lavoro che cambia, molto poco di come spendere i soldi per la formazione, condizione necessaria per farlo cambiare in meglio.

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martedì 8 maggio 2018

Dove si guadagna di più?

"Il Corriere della Sera" ci racconta in quale Paese europeo si guadagna di più al primo impiego da neolaureati.

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lunedì 7 maggio 2018

Manager italiani troppo accentratori

(Fonte: "Affari&Finanza")

«I manager italiani hanno delle ottime qualità, molto apprezzate anche all’estero, ma hanno in genere un difetto congenito: fanno fatica a creare un team, sono troppo individualisti». Lamberto Biscarini è senior partner del Boston consulting Group (Bcg), una delle più grandi società di consulenza del mondo ed è responsabile Europa della divisione consumer. Quindi ha avuto e ha che fare con ogni genere di impresa consumer, dai beni di consumo, al retail, alla moda, al turismo. «Si tratta di uno dei settori più liberalizzati e competitivi», dice Biscarini.

Ingegner Biscarini, è questa della capacità di creare una squadra il difetto più grande del nostro middle management?
«È certo uno dei più rilevanti nel confronto con i manager stranieri. I nostri dirigenti sono spesso individualisti e quindi hanno uno stile di comando tendenzialmente accentratore. È un probabile effetto della cultura italiana.
Altrove, invece, la capacità di un manager si misura nella sua capacità di costruire un team che sappia lavorare con uno spirito di gruppo. Il che significa anche non aver paura di scegliere delle
persone molto in gamba. Ricordo che al mio primo impiego il capo il primo giorno mi disse che la cosa migliore che avrei potuto fare nella mia carriera era di assumere collaboratori migliori di me così come lui aveva fatto nella sua fino ad allora. Mi colpì molto».


Altri difetti?
«La scarsa esperienza internazionale. Nelle grandi aziende tedesche, francesi, inglese, c’è l’abitudine di far fare ai propri dirigenti un percorso di alcuni anni all’estero. In questi paesi, chi ha 35-40 anni ha già al proprio attivo vari anni fuori dal proprio paese».


Quali sono invece le migliori doti che lei riscontra nei manager del nostro paese?
«Tra le migliori caratteristiche c’è, più che altrove, uno spirito imprenditoriale. Il che significa
che questi uomini hanno il coraggio di prendere delle decisioni.
Sono inoltre pragmatici e flessibili, ovvero hanno la capacità di deviare dagli schemi senza farsi
troppi problemi. E queste sono qualità ben apprezzate all’estero».


Non c’è quindi un pregiudizio anti-italiano?
«Assolutamente no. L’italianità non è un problema, non ci sono pregiudizi. Soprattutto se sei
giovane e fai carriera all’estero non ci sono difficoltà. Il vero problema, in questo caso, è un altro».
 

Quale?
«È difficile farli tornare, questi giovani che dai 25 ai 30 vanno all’estero a fare i manager».
 

Perché?
«Ci sono due difficoltà: 1. Resta fra l’Italia e l’estero un gap retributivo. C’era già ai tempi di mio padre, e lui lavorava nell’industria; 2. La struttura produttiva italiana, fatta di piccole e medie imprese, dove le posizioni manageriali sono poche, non favorisce il ritorno».
 

Lei parla di giovani che vanno all’estero. Questo è ormai un fenomeno imponente: l’Italia deve preoccuparsi?
«No. La domanda deve andare dove c’è l’offerta. L’Europa viene spesso vista da una prospettiva
nazionalista ma la verità è che ormai esiste un mercato europeo.
Quindi è giusto che i giovani vadano dove ci sono prospettive. Negli Stati Uniti ci sono stati enormi
spostamenti da una parte all’altra del continente. E questo è stato benefico per l’economia Usa. Sarà così anche per l’Europa. Il problema non è l’uscita dei giovani ma, casomai, come rendere attraente il loro rientro».


Qualcuno dice che ci sono in Italia troppi laureati per il tipo di struttura imprenditoriale che abbiamo, basata sulle Pmi. Hanno ragione?
«Io penso che la cultura e la preparazione non siano mai troppe. Non credo che la struttura industriale italiana sia un limite per l’assorbimento dei laureati. Anche le piccole e medie imprese devono sempre di più competere in un ambiente internazionale dove servono persone con un bagaglio culturale elevato e una certa dose di savoir faire. La laurea è necessaria sebbene non sufficiente di per sé».


Quali sono le figure manageriali nuove che le imprese italiane fanno fatica a trovare?
«Soprattutto quelle legate alle nuove tecnologie, quindi agli analytics, al digital marketing, alla customer experience».


Se non si trovano, le imprese vanno a cercarle all’estero?
«Sì, di solito nel Nord Europa, in Gran Bretagna, in Francia».
 

Arrivano più dirigenti dall’estero in Italia?
«Se ne incontrano un po’ di più che in passato, ma non abbastanza. Occorrerebbe invece favorire questi arrivi perché aiuterebbero l’Italia a sprovincializzarsi».


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venerdì 4 maggio 2018

Cosa serve oggi per essere un buon Ad?

Cosa vogliono le aziende da un potenziale Amministratore delegato? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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giovedì 3 maggio 2018

Sì allo smartphone usato epr timbrare il cartellino

(Fonte: "La Stampa")

È possibile chiedere ai propri dipendenti, impiegati in altre ditte  o  che  svolgono  attività fuori  sede,  di  installare  una app sugli smartphone di proprietà per rilevare l’inizio e la fine dell’attività di lavoro.
Chi  invece  non  intende scaricare  l’applicazione  che localizza  geograficamente  il lavoratore,  potrà  continuare a  entrare  e  uscire  dal  posto lavoro usando i sistemi tradizionali. Lo ha deciso il Garante  della  privacy  (...),  riferendosi  al  caso  di due  agenzie  interinali,
Manpower  e  Manpower  Italia. L’Authority ha così accolto un’istanza di «verifica preliminare»  presentata  proprio dalle società, ma al tempo stesso ha dettato alcune misure a garanzia dei lavoratori: il sistema  potrà  infatti  conservare  il solo  dato  relativo  alla  sede  di lavoro, cancellando quello sulla posizione  geografica.  Inoltre sullo  schermo  del  telefonino
del  dipendente  dovrà  sempre essere visibile un’icona che indichi che la funzione di localizzazione è attiva. L’applicazione dovrà poi essere configurata in modo da impedire il trattamento di altri dati contenuti nel cellulare (come sms o e-mail). Le aziende dovranno peraltro fornire ai dipendenti un’informativa con la tipologia dei dati, la finalità del trattamento e i tempi di conservazione.


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mercoledì 2 maggio 2018

No alle intromissioni dell’azienda nella casella e-mail del lavoratore

Per vostra informazione visto che spesso in privato ci fate domande sull'argomento (anche se non si tratta di "qualità") ;)

(Fonte: "La Stampa")

Il  datore  di  lavoro  non  può accedere  in  modo  indiscriminato alla posta elettronica o ai dati personali contenuti nei  cellulari  in  dotazione  al personale. Lo ha ribadito nel dicembre  2016  il  Garante della  privacy,  vietando  alla multinazionale  di  consulenza Aon l’ulteriore uso dei dati trattati in violazione della legge. Si tratta infatti chiaramente di un comportamento illecito.
A fare il reclamo era stato un  dipendente,  secondo  cui la società avrebbe controllato informazioni anche private contenute nelle e-mail, sia durante  il  rapporto  di  lavoro sia  dopo  il  licenziamento  del lavoratore.
L’autorità ha spiegato che il datore di lavoro - pur potendo verificare  l’esatto  adempimento della prestazione di lavoro e il corretto uso dei mezzi forniti al dipendente - «deve in ogni caso salvaguardare la libertà e la dignità, attenendosi  ai  limiti  previsti  dalla  normativa».  La  legge  infatti  non  permette in alcun modo di realizzare un controllo massivo, prolungato  e  indiscriminato
dell’attività  del  lavoratore.  I dipendenti  inoltre  devono sempre  essere  informati  in modo chiaro e dettagliato sulle  modalità  di  utilizzo  degli strumenti aziendali e di eventuali verifiche.


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