("
Il Fatto Quotidiano")
Attorno al think tank
“Business Round table” siedono i
top manager di un
paio di centinaia di
affermate multinazionali statunitensi tra cui JP Morgan Chase, Apple, AT&T, Amazon, General Motors, BlackRock e così
via. Ogni anno, dal 1978, l’associazione stila un rapporto sui
principi che dovrebbero presiedere una avveduta gestione aziendale. Quest’anno, il loro
rapporto sta facendo scalpore,
poiché invita le imprese a non
considerare più il solo profitto
come lo scopo principale della
loro attività, ma di includere anche la “protezione dell’ambiente” e la “dignità e il rispetto del
lavoro”.
Gli azionisti – dice il rapporto
– sono solo uno dei cinque stakeholders delle imprese, assieme ai consumatori, ai lavoratori, ai fornitori e alle comunità
locali. Quanto basta al Financial Times (e agli altri commentatori di casa nostra) per proclamare la fine delle teorie economiche del capitalismo classico secondo le quali – Milt on
Friedman in primis – affermano
che la responsabilità sociale
delle imprese deve fermarsi
all'aumentare i profitti. Il resto
segue da solo grazie agli automatismi impersonali del mercato. L’evoluzione delle posizioni del pensatoio delle corporation americane esprimerebbe la grande capacità di autoriforma del capitalismo, di adattamento alle esigenze dello sviluppo umano. Mohamed El-Erian, chief economic adviser di
Allianz, ha così commentato:
“C’è una svolta etica importante e riflette un consenso emergente attorno all’importanza di
un capitalismo più inclusivo”.
Altri, invece, – come Larry
Summers, già ministro con
l’Amministrazione Clinton –
sono più scettici sulle vocazioni
solidaristiche delle grandi imprese di capitale e temono che la
retorica del Roundtable faccia
parte di una strategia per neutralizzare le improcrastinabili
riforme fiscali e
regolamentazioni economiche.
In altre parole, il
grande capitalismo, capendo
che le contraddizioni sociali e le
crisi ambientali
da esso stesso innescate non possono più essere negate, si accinge a presentarsi come il soggetto capace di risolverle, senza interventi esterni
pubblici statali.
Le inedite attenzioni sociali e
ambientali delle grandi corporation non risponderebbero
nemmeno a una operazione di
marketing (green washing) per
rincorrere le crescenti sensibilità dei consumatori sempre più
attenti alla sostenibilità (vedi il
grande boom di tutte le forme di
certificazione bio ed etiche), ma
a un vero e proprio incameramento degli obiettivi sociali e
ambientali (un tempo materia
delle politiche pubbliche dello
sviluppo) nelle strategie imprenditoriali.
Non è forse già così per gran
parte delle politiche sociali e
della cooperazione allo sviluppo? Non sono già ora le Fondazioni bancarie i principali finanziatori dei servizi di welfare alle
persone lasciati al terzo settore
e non sono le fondazioni filantropiche create dai super ricchi
come Bill e Melinda Gates a determinare il tipo di “aiuti” da elargire ai Paesi più impoveriti?
Insomma, la “politicizzazione” del management non sembra mirare a riformare il capitalismo umanizzandolo, ma a capitalizzare il bios, a trasformare
in valore di scambio anche i buoni sentimenti.
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