(Fonte: "L'Impresa")
Le macchine sono sempre di più intorno a noi. Ma le persone restano centrali. Questa la tesi di Francesco Varanini, autore del libro Macchine per pensare (...).
Come sta cambiando il rapporto fra persone e macchine?
Il rapporto uomo macchina è diventato davvero problematico, dalla rivoluzione industriale in avanti. Prima le macchine erano degli strumenti in mano alle persone. Magari complicate, come l’orologio, che Newton prese ad esempio per descrivere la complessità dell’universo. Ma erano strumenti usati
dalle persone. Non esisteva ancora la dimensione dell’automa, una cosa che assomiglia alle persone e si avvicina ad avere un’anima.
Il problema comincia con la rivoluzione industriale. In realtà c’erano stati dei precursori: i giochi da salotto alla corte francese e austriaca. L’ingegnere francese Vaucanson all’inizio del 1700 costruisce i primi automi da salotto. Il flautista che suona. L’anatra che digerisce. Avendo rapporti con la corte è stato nominato ispettore dell’industria pubblica tessile. Quelli che conosciamo come telai Jacquard, poi diventati in Inghilterra elementi base della rivoluzione industriale, sono nati in Francia. Jacquard era un tecnico francese che aveva ereditato e trasformato in macchine per la fabbrica le idee di Vaucanson sviluppate per le macchine da salotto.
Oggi computer e smartphone sono diventati strumenti di massa, usati da miliardi di persone.
Credo che si possa dire che ci sono due tipi di macchina. Il primo gruppo sono le macchine che organizzano il lavoro e la società. Il secondo tipo sono le macchine utensili, nelle mani dell’uomo. La macchina che fa paura che provoca ancora reazioni di rifiuto, come avvenne durante la rivoluzione
industriale con il movimento dei Luddisti, è la macchina che organizza e realizza il lavoro da sé, sostituendo spesso le persone. La macchina strumento continuiamo a usarla ma non ci condiziona e non ci fa paura. C’è una prima svolta. Le macchine si diffondono e diventano sempre più importanti e necessarie per far fronte alla complessità. Così il giovane ingegnere americano Hollerith inventa una macchina - basata sull’uso di schede perforate, come il telaio Jacquard - per elaborare i dati dei censimenti pubblici. Queste macchine sono i precursori dell’informatica, che non nasce negli anni
’40 dello scorso secolo, ma molto prima. È un storia europea, prima che americana. Le macchine informatiche derivano da una riflessione sul controllo sociale. Il Panopticon, il carcere immaginato da Bentham, dove da una garitta centrale si possono osservare tutti i detenuti, è il prototipo della macchina che controlla.
Ma come hanno origine i computer moderni?
All’inizio del XX secolo si estende l’uso delle schede perforate è la stessa tecnologia alla base dei telai Jacquard. Un giovane ingegnere americano, Hollerith, ha pensato di costruire delle macchine basate sulle schede perforate per snellire l’elaborazione dei dati raccolti nei censimenti. Alla fine del 1800, una volta fatto un censimento ci volevano circa 5 anni per elaborare i dati. Allora egli pensò di usare le macchine a schede perforate, cioè tabulati codificati per essere elaborati dalla macchina
più rapidamente, per ottenere prima i risultati di un censimento.
Le macchine moderne sono oggi collegate in una rete globale, come presagiva George Orwell…
Sì questo è un altro grande cambiamento, perché il fatto che le macchine siano tutte collegate fra di loro ha tolto alle macchine stesse la caratteristica di semplici strumenti.
Il personal computer, per esempio, era un progetto già maturo negli anni ’60, anche se non era ancora diffuso. Poi nella seconda metà degli anni ’70 è stato compiuto un grande salto, grazie al genio di Steve Jobs che ha creato il primo personale computer di uso facile e semplice. Ma in quel periodo il personal computer era una specie di martello o penna evoluti. Ancora uno strumento nelle mani delle persone. Per svolgere compiti semplici, come scrivere o fare dei calcoli.
Un utensile usato per espandere i propri spazi di libertà. Il collegamento in rete è stato un modo per connettere i computer a un server centrali, tornando al concetto del Panopticon. I personal computer originari erano certo più complessi, lenti e meno performanti di quelli odierni. Ma facevano
meno paura. Servivano a pensare memoria e conoscenze. Le grandi macchine nate all’inizio del XX secolo erano invece degli strumenti che ci fanno paura e oggi siamo tornati a queste paure ancestrali.
Oggi si parla di industria 4.0. Le macchine rischiano di sostituire anche la testa delle persone?
In un certo senso sì. Ci sono degli scenari che vanno in quella direzione. Di qui a 40 anni, secondo alcuni. O un po’ più in là, secondo altri. Ma molti prefigurano una società in cui gran parte del lavoro svolto dall’uomo potrà essere svolto da una macchina. Questo è un altro dei motivi di timore da parte delle persone. Oppure, e questo è lo scenario che io vedo, è solo una comoda via di uscita. Le persone in generale temono la complessità. I problemi politici, sociali, economici che non riusciamo a risolvere. La scienza ha cambiato molte credenze derivanti dalla religione. Abbiamo perciò bisogno di immaginare qualcuno o qualcosa che ci sostituisca. Da un lato temiamo queste macchine… Già Freud immaginava le macchine come qualcosa che sta nei sogni delle persone e che non conosciamo bene, che non sapevamo controllare. Oggi i timori sono cresciuti, perché le macchine sono molto più pervasive. Ma, nel contempo, ci affidiamo alla macchina come una soluzione facile dei nostri problemi. Le macchine, pensiamo, si occuperanno per noi di gestire tutta una serie di attività. La complessità, l’industria, l’ambiente.
Il lavoro dei manager oggi è principalmente di ideare, immaginare, realizzare, gestire, controllare.
In una visione estrema, possiamo immaginare che in futuro anche i manager saranno sostituiti da
macchine pensanti?
Ci sono alcuni scenari che lo prevedono. Alcuni, devo ammettere, un po’ spinti ad arte dai produttori di macchine e sistemi. Ibm e Google, ad esempio, hanno creato sistemi per sostituire le macchine alle persone. Ibm ha lanciato il servizio online Watson, che dà una serie di risposte attingendo a un patrimonio di conoscenze vastissimo. È un sistema cognitivo, assimilabile a una macchina. In generale, molti presentano come una cosa bella l’interazione fra uomo e macchina pensante. Ci sono software allo studio e alcuni già disponibili, che possono sostituire le persone in alcune attività, anche molto importanti. Ad esempio alcuni software sostituiscono il medico nel fare le diagnosi. Oppure il direttore risorse umane, nel valutare i collaboratori o nella selezione del personale. E qualcuno immagina software destinati a sostituire specifiche figure professionali. Avremo un algoritmo che replica il direttore finanziario e uno per l’amministratore delegato.
Intelligenza artificiale. Un’altra grande sfida.
Anche in questo caso ci sono diversi scenari. Chi costruisce sistemi di intelligenza artificiale prevede di sostituire alcune funzioni umane con le macchine pensanti e in questo caso intelligenti. In realtà sta a noi esseri umani decidere se lasciarsi sostituire o no. Questa è una scelta etica. Ma è anche una presa di posizione di fronte alle macchine. Sta a noi decidere se lasciare alle macchine il nostro posto. Non solo in attività manuali ma anche in attività intellettuali, come giornalisti, scrittori o ingegneri. Oppure possiamo cercare di decidere noi cosa fare, anche di fronte a un’alternativa reale, digitale, computerizzata. Io propendo per questa soluzione. Secondo me la scelta spetta sempre alle persone. Il progetto dell’intelligenza artificiale è nato proprio con l’idea di sostituire le persone. Il primo a ipotizzarlo in modo strutturato, nell’era moderna, è stato Turing. Poi sono seguiti i ragionamenti sugli automi di Von Neumann all’inizio degli anni ’50.
L’intelligenza artificiale è nata con l’idea di imitare e simulare il comportamento umano.
È un punto chiave. Dobbiamo chiederci: cosa ce ne facciamo di macchine che imitano e simulano il nostro comportamento?
Alla fine di studi e ricerche riusciremo ad avere solo una imitazione, probabilmente peggiore,
della fantastica macchina pensante che è l’uomo. Magari meno costosa, assoggettabile al comando
di qualcuno. Ma sarà sempre una imitazione e una simulazione. A partire da quegli studi teorici sono
stati fatti enormi passi avanti. Oggi abbiamo a disposizione una massa immensa di informazioni, i cosiddetti Big Data. Informazioni reali sul comportamento reale delle persone. L’interrogativo di fondo resta un altro. Cosa farebbe la macchina, in una certa situazione, se non imitasse e simulasse il comportamento umano, ma se prendesse davvero una propria decisione autonoma.
Se si deve accettare una sfida è proprio questa.
Il fattore umano, con i suoi limiti ed errori, non è meglio di una fredda macchina per prendere decisioni?
La macchina dà l’idea della perfezione, ma non ha sentimenti. Nel mio libro sostengo che c’è una inutile rincorsa nel cercare di trasformare in un programma ciò che le persone sanno già fare benissimo. E ciò che l’uomo sa fare benissimo, e che la macchina non riesce ancora a simulare, è la capacità di prendere e scommettere su ipotesi interpretative, senza avere alcuna certezza.
Non all’interno di un quadro e di un modello costruito. Ma in una situazione non prevista. I modelli alla base dei quali si costruisce l’intelligenza artificiale si basano su ciò che è già accaduto, non su ciò che potrebbe accadere. L’uomo sa muoversi in una situazione inattesa.
Le macchine possono aggiornarsi via via attraverso le informazioni che derivano dall’esperienza umana. Ma non credo che potranno mai davvero competere con l’uomo. Ma rispetto chi, per motivi imprenditoriali o ideologici, insiste su questa ipotesi.
Qual è la risposta che alla fine danno coloro che propendono per l’intelligenza artificiale?
La realtà in cui noi crediamo di vivere non esiste. Noi pensiamo di essere qui, ma in realtà siamo
frutto di un programma e viviamo in una sorta di simulazione alla Matrix, costruita dal computer. Un
filosofo, Fredkin, parla di filosofia digitale e sostiene proprio questo.
Una ipotesi forte. Ipotesi più deboli sostengono che noi comunque non viviamo più nel mondo che abbiamo creato. Ora in qualche misura viviamo in una Infosfera. Oppure Onlife. Qualcosa che è a metà fra l’online e l’offline. Preciso che non condivido questo approccio. C’è un manifesto della Commissione Europea, ispirato da un filosofo italiano, Luciano Floridi, che sostiene che ormai viviamo nell’Infosfera (...). Un esempio? Viviamo dentro Facebook e siamo assoggettati alle regole di quel mondo. Noi possiamo fare solo ciò che in quel mondo è permesso di fare. In un certo modo sta diventando vero, sia chiaro, ma solo perché noi accettiamo di stare dentro questo ambiente e ne subiamo le regole. Chi lo dice che un personaggio o un ministro deve comunicare via Facebook o via
Twitter? Certo che se accettiamo di stare dentro l’Infosfera siamo in un mondo che qualcuno, umano, ha costruito e ha stabilito che certe cose si possono fare e certe cose no.
Alla fine i manager sono persone chiamate a prendere decisioni. Dotate di ragione e sentimenti.
Questo è un tema centrale. La parola dell’anno è la post-verità. Il fatto che esita una verità è frutto di una lettura del mondo logicoformale. Una cosa o è vera o è falsa. Non ci sono opinioni, sensazioni, cultura. Non c’è il contesto. Una cosa è vera o falsa in assoluto.
Immaginiamo se poi questa logica dovesse essere la base per le decisioni di una macchina. In Facebook è partita la caccia alle notizie false, le fake news. Il punto di partenza è cercare di subordinare tutta la vita dentro un modello già costruito dove certe cose esistono o non esistono. Il problema della sostituzione delle persone è di creare un algoritmo, un calcolo che preveda una certa risposta a un certo stimolo. O magari risposte a domande che non sono state fatte, ma partendo da uno scenario prefissato. È comunque un calcolo, ma già fatto. Di fronte all’uso che può fare un
manager di questi strumenti, siamo di fronte a un bivio: noi abbiamo sempre più informazioni e conoscenze. Oggi un manager analizza i dati, con sistemi di business intelligence o analytics, data mining. Trovo delle chiavi di lettura, basate su dati reali. La decisione però non è mai automatica. C’è sempre il fattore umano. L’algoritmo è tutta un’altra cosa. Vediamo il caso del motore di ricerca che ci offre delle indicazioni. Ma, attenzione, gli esperti sanno che il ranking, l’ordine di priorità con
cui vengono mostrati i risultati non è scientifico, ma si basa su alcuni presupposti inseriti nell’algoritmo.
Torniamo a un esempio pratico.
Da lungo tempo esiste il pilota automatico che assiste il pilota di aerei. Possiamo pensare che lo stesso accada per i manager? Secondo i costruttori la macchina impara da sola. Ma apprende sempre in base a un algoritmo, a un criterio. Oggi attraverso l’analisi dei comportamenti umani sul web, sostengono alcuni, si può comprendere se si avvicina o no una epidemia di influenza. Scriviamo a qualcuno ammalato. Chiediamo consigli. E così via. E lasciamo tracce di tutto questo. Attraverso le tracce si può capire lo sviluppo dell’epidemia.
Ma un conto è un essere umano che segue delle tracce. Un’altra storia è se le tracce sulla rete vengono interrogate non da un essere umano, ma da un algoritmo.
Einstein disse una volta: la logica ci porterà da A a B. l’immaginazione ci porterà ovunque. Possiamo immaginare delle macchine che abbiano anche la creatività, oltre alla logica?
Secondo i costruttori di macchine, che seguono la logica del filosofo Bertrand Russell, sì. Ma è sempre una simulazione del modo di immaginare dell’uomo. Quindi siamo sempre un passo indietro. Partiamo da una domanda: cos’è l’intelligenza. Comprende una serie di capacità di analisi e soluzione dei problemi. La parola intelligenza deriva dal latino e prevede la capacità di scegliere. Una macchina può copiare il modo di scegliere partendo dal comportamento di un milione di persone. Ma ci sarà sempre un’altra persona che sceglie qualcosa di diverso. Quindi il concetto stesso di intelligenza prevede sempre qualcosa di diverso o differente che l’uomo per caso o per scelta scopre. Lo dimostra la storia delle scoperte scientifiche o dell’evoluzione sociale. Le rotture della continuità potrebbero essere imitate dalla macchina, ma ci sarà una persona che farà ancora qualcosa di diverso.
Qual è il punto di equilibrio fra manager e macchine pensanti?
Usare le macchina partendo dal nostro cervello. Inventare, immaginare, narrare.
Accorgersi degli stati di mano. Il modo di funzionare della nostra mente è del tutto diversa dalle modalità alla base del funzionamento di un computer, che si basa su un calcolo. L’uomo calcola, ma anche sogna, immagina, crea, inventa. Nel caso dei manager, in particolare, un suggerimento è
quello di coltivare la cultura umanistica. È proprio la risposta alla presenza della macchine. Nei calcoli le macchine ci sono di grande aiuto. Ma la capacità di innovazione, cogliere nuovi trend, lo si fa con la cultura umanistica. L’alternativa è fidarsi dei tecnici e affidarsi a loro. Sono quelli che costruiscono le macchine. Si finisce per subire la lettura del mondo dei tecnici. E possiamo
immaginare che siano anche gli unici che sanno difendersene. Invece credo che la cultura umanistica che abbraccia tanti campi, con l’uomo al centro, aiuti a comprendere e usare meglio le macchine.
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Le macchine sono sempre di più intorno a noi. Ma le persone restano centrali. Questa la tesi di Francesco Varanini, autore del libro Macchine per pensare (...).
Come sta cambiando il rapporto fra persone e macchine?
Il rapporto uomo macchina è diventato davvero problematico, dalla rivoluzione industriale in avanti. Prima le macchine erano degli strumenti in mano alle persone. Magari complicate, come l’orologio, che Newton prese ad esempio per descrivere la complessità dell’universo. Ma erano strumenti usati
dalle persone. Non esisteva ancora la dimensione dell’automa, una cosa che assomiglia alle persone e si avvicina ad avere un’anima.
Il problema comincia con la rivoluzione industriale. In realtà c’erano stati dei precursori: i giochi da salotto alla corte francese e austriaca. L’ingegnere francese Vaucanson all’inizio del 1700 costruisce i primi automi da salotto. Il flautista che suona. L’anatra che digerisce. Avendo rapporti con la corte è stato nominato ispettore dell’industria pubblica tessile. Quelli che conosciamo come telai Jacquard, poi diventati in Inghilterra elementi base della rivoluzione industriale, sono nati in Francia. Jacquard era un tecnico francese che aveva ereditato e trasformato in macchine per la fabbrica le idee di Vaucanson sviluppate per le macchine da salotto.
Oggi computer e smartphone sono diventati strumenti di massa, usati da miliardi di persone.
Credo che si possa dire che ci sono due tipi di macchina. Il primo gruppo sono le macchine che organizzano il lavoro e la società. Il secondo tipo sono le macchine utensili, nelle mani dell’uomo. La macchina che fa paura che provoca ancora reazioni di rifiuto, come avvenne durante la rivoluzione
industriale con il movimento dei Luddisti, è la macchina che organizza e realizza il lavoro da sé, sostituendo spesso le persone. La macchina strumento continuiamo a usarla ma non ci condiziona e non ci fa paura. C’è una prima svolta. Le macchine si diffondono e diventano sempre più importanti e necessarie per far fronte alla complessità. Così il giovane ingegnere americano Hollerith inventa una macchina - basata sull’uso di schede perforate, come il telaio Jacquard - per elaborare i dati dei censimenti pubblici. Queste macchine sono i precursori dell’informatica, che non nasce negli anni
’40 dello scorso secolo, ma molto prima. È un storia europea, prima che americana. Le macchine informatiche derivano da una riflessione sul controllo sociale. Il Panopticon, il carcere immaginato da Bentham, dove da una garitta centrale si possono osservare tutti i detenuti, è il prototipo della macchina che controlla.
Ma come hanno origine i computer moderni?
All’inizio del XX secolo si estende l’uso delle schede perforate è la stessa tecnologia alla base dei telai Jacquard. Un giovane ingegnere americano, Hollerith, ha pensato di costruire delle macchine basate sulle schede perforate per snellire l’elaborazione dei dati raccolti nei censimenti. Alla fine del 1800, una volta fatto un censimento ci volevano circa 5 anni per elaborare i dati. Allora egli pensò di usare le macchine a schede perforate, cioè tabulati codificati per essere elaborati dalla macchina
più rapidamente, per ottenere prima i risultati di un censimento.
Le macchine moderne sono oggi collegate in una rete globale, come presagiva George Orwell…
Sì questo è un altro grande cambiamento, perché il fatto che le macchine siano tutte collegate fra di loro ha tolto alle macchine stesse la caratteristica di semplici strumenti.
Il personal computer, per esempio, era un progetto già maturo negli anni ’60, anche se non era ancora diffuso. Poi nella seconda metà degli anni ’70 è stato compiuto un grande salto, grazie al genio di Steve Jobs che ha creato il primo personale computer di uso facile e semplice. Ma in quel periodo il personal computer era una specie di martello o penna evoluti. Ancora uno strumento nelle mani delle persone. Per svolgere compiti semplici, come scrivere o fare dei calcoli.
Un utensile usato per espandere i propri spazi di libertà. Il collegamento in rete è stato un modo per connettere i computer a un server centrali, tornando al concetto del Panopticon. I personal computer originari erano certo più complessi, lenti e meno performanti di quelli odierni. Ma facevano
meno paura. Servivano a pensare memoria e conoscenze. Le grandi macchine nate all’inizio del XX secolo erano invece degli strumenti che ci fanno paura e oggi siamo tornati a queste paure ancestrali.
Oggi si parla di industria 4.0. Le macchine rischiano di sostituire anche la testa delle persone?
In un certo senso sì. Ci sono degli scenari che vanno in quella direzione. Di qui a 40 anni, secondo alcuni. O un po’ più in là, secondo altri. Ma molti prefigurano una società in cui gran parte del lavoro svolto dall’uomo potrà essere svolto da una macchina. Questo è un altro dei motivi di timore da parte delle persone. Oppure, e questo è lo scenario che io vedo, è solo una comoda via di uscita. Le persone in generale temono la complessità. I problemi politici, sociali, economici che non riusciamo a risolvere. La scienza ha cambiato molte credenze derivanti dalla religione. Abbiamo perciò bisogno di immaginare qualcuno o qualcosa che ci sostituisca. Da un lato temiamo queste macchine… Già Freud immaginava le macchine come qualcosa che sta nei sogni delle persone e che non conosciamo bene, che non sapevamo controllare. Oggi i timori sono cresciuti, perché le macchine sono molto più pervasive. Ma, nel contempo, ci affidiamo alla macchina come una soluzione facile dei nostri problemi. Le macchine, pensiamo, si occuperanno per noi di gestire tutta una serie di attività. La complessità, l’industria, l’ambiente.
Il lavoro dei manager oggi è principalmente di ideare, immaginare, realizzare, gestire, controllare.
In una visione estrema, possiamo immaginare che in futuro anche i manager saranno sostituiti da
macchine pensanti?
Ci sono alcuni scenari che lo prevedono. Alcuni, devo ammettere, un po’ spinti ad arte dai produttori di macchine e sistemi. Ibm e Google, ad esempio, hanno creato sistemi per sostituire le macchine alle persone. Ibm ha lanciato il servizio online Watson, che dà una serie di risposte attingendo a un patrimonio di conoscenze vastissimo. È un sistema cognitivo, assimilabile a una macchina. In generale, molti presentano come una cosa bella l’interazione fra uomo e macchina pensante. Ci sono software allo studio e alcuni già disponibili, che possono sostituire le persone in alcune attività, anche molto importanti. Ad esempio alcuni software sostituiscono il medico nel fare le diagnosi. Oppure il direttore risorse umane, nel valutare i collaboratori o nella selezione del personale. E qualcuno immagina software destinati a sostituire specifiche figure professionali. Avremo un algoritmo che replica il direttore finanziario e uno per l’amministratore delegato.
Intelligenza artificiale. Un’altra grande sfida.
Anche in questo caso ci sono diversi scenari. Chi costruisce sistemi di intelligenza artificiale prevede di sostituire alcune funzioni umane con le macchine pensanti e in questo caso intelligenti. In realtà sta a noi esseri umani decidere se lasciarsi sostituire o no. Questa è una scelta etica. Ma è anche una presa di posizione di fronte alle macchine. Sta a noi decidere se lasciare alle macchine il nostro posto. Non solo in attività manuali ma anche in attività intellettuali, come giornalisti, scrittori o ingegneri. Oppure possiamo cercare di decidere noi cosa fare, anche di fronte a un’alternativa reale, digitale, computerizzata. Io propendo per questa soluzione. Secondo me la scelta spetta sempre alle persone. Il progetto dell’intelligenza artificiale è nato proprio con l’idea di sostituire le persone. Il primo a ipotizzarlo in modo strutturato, nell’era moderna, è stato Turing. Poi sono seguiti i ragionamenti sugli automi di Von Neumann all’inizio degli anni ’50.
L’intelligenza artificiale è nata con l’idea di imitare e simulare il comportamento umano.
È un punto chiave. Dobbiamo chiederci: cosa ce ne facciamo di macchine che imitano e simulano il nostro comportamento?
Alla fine di studi e ricerche riusciremo ad avere solo una imitazione, probabilmente peggiore,
della fantastica macchina pensante che è l’uomo. Magari meno costosa, assoggettabile al comando
di qualcuno. Ma sarà sempre una imitazione e una simulazione. A partire da quegli studi teorici sono
stati fatti enormi passi avanti. Oggi abbiamo a disposizione una massa immensa di informazioni, i cosiddetti Big Data. Informazioni reali sul comportamento reale delle persone. L’interrogativo di fondo resta un altro. Cosa farebbe la macchina, in una certa situazione, se non imitasse e simulasse il comportamento umano, ma se prendesse davvero una propria decisione autonoma.
Se si deve accettare una sfida è proprio questa.
Il fattore umano, con i suoi limiti ed errori, non è meglio di una fredda macchina per prendere decisioni?
La macchina dà l’idea della perfezione, ma non ha sentimenti. Nel mio libro sostengo che c’è una inutile rincorsa nel cercare di trasformare in un programma ciò che le persone sanno già fare benissimo. E ciò che l’uomo sa fare benissimo, e che la macchina non riesce ancora a simulare, è la capacità di prendere e scommettere su ipotesi interpretative, senza avere alcuna certezza.
Non all’interno di un quadro e di un modello costruito. Ma in una situazione non prevista. I modelli alla base dei quali si costruisce l’intelligenza artificiale si basano su ciò che è già accaduto, non su ciò che potrebbe accadere. L’uomo sa muoversi in una situazione inattesa.
Le macchine possono aggiornarsi via via attraverso le informazioni che derivano dall’esperienza umana. Ma non credo che potranno mai davvero competere con l’uomo. Ma rispetto chi, per motivi imprenditoriali o ideologici, insiste su questa ipotesi.
Qual è la risposta che alla fine danno coloro che propendono per l’intelligenza artificiale?
La realtà in cui noi crediamo di vivere non esiste. Noi pensiamo di essere qui, ma in realtà siamo
frutto di un programma e viviamo in una sorta di simulazione alla Matrix, costruita dal computer. Un
filosofo, Fredkin, parla di filosofia digitale e sostiene proprio questo.
Una ipotesi forte. Ipotesi più deboli sostengono che noi comunque non viviamo più nel mondo che abbiamo creato. Ora in qualche misura viviamo in una Infosfera. Oppure Onlife. Qualcosa che è a metà fra l’online e l’offline. Preciso che non condivido questo approccio. C’è un manifesto della Commissione Europea, ispirato da un filosofo italiano, Luciano Floridi, che sostiene che ormai viviamo nell’Infosfera (...). Un esempio? Viviamo dentro Facebook e siamo assoggettati alle regole di quel mondo. Noi possiamo fare solo ciò che in quel mondo è permesso di fare. In un certo modo sta diventando vero, sia chiaro, ma solo perché noi accettiamo di stare dentro questo ambiente e ne subiamo le regole. Chi lo dice che un personaggio o un ministro deve comunicare via Facebook o via
Twitter? Certo che se accettiamo di stare dentro l’Infosfera siamo in un mondo che qualcuno, umano, ha costruito e ha stabilito che certe cose si possono fare e certe cose no.
Alla fine i manager sono persone chiamate a prendere decisioni. Dotate di ragione e sentimenti.
Questo è un tema centrale. La parola dell’anno è la post-verità. Il fatto che esita una verità è frutto di una lettura del mondo logicoformale. Una cosa o è vera o è falsa. Non ci sono opinioni, sensazioni, cultura. Non c’è il contesto. Una cosa è vera o falsa in assoluto.
Immaginiamo se poi questa logica dovesse essere la base per le decisioni di una macchina. In Facebook è partita la caccia alle notizie false, le fake news. Il punto di partenza è cercare di subordinare tutta la vita dentro un modello già costruito dove certe cose esistono o non esistono. Il problema della sostituzione delle persone è di creare un algoritmo, un calcolo che preveda una certa risposta a un certo stimolo. O magari risposte a domande che non sono state fatte, ma partendo da uno scenario prefissato. È comunque un calcolo, ma già fatto. Di fronte all’uso che può fare un
manager di questi strumenti, siamo di fronte a un bivio: noi abbiamo sempre più informazioni e conoscenze. Oggi un manager analizza i dati, con sistemi di business intelligence o analytics, data mining. Trovo delle chiavi di lettura, basate su dati reali. La decisione però non è mai automatica. C’è sempre il fattore umano. L’algoritmo è tutta un’altra cosa. Vediamo il caso del motore di ricerca che ci offre delle indicazioni. Ma, attenzione, gli esperti sanno che il ranking, l’ordine di priorità con
cui vengono mostrati i risultati non è scientifico, ma si basa su alcuni presupposti inseriti nell’algoritmo.
Torniamo a un esempio pratico.
Da lungo tempo esiste il pilota automatico che assiste il pilota di aerei. Possiamo pensare che lo stesso accada per i manager? Secondo i costruttori la macchina impara da sola. Ma apprende sempre in base a un algoritmo, a un criterio. Oggi attraverso l’analisi dei comportamenti umani sul web, sostengono alcuni, si può comprendere se si avvicina o no una epidemia di influenza. Scriviamo a qualcuno ammalato. Chiediamo consigli. E così via. E lasciamo tracce di tutto questo. Attraverso le tracce si può capire lo sviluppo dell’epidemia.
Ma un conto è un essere umano che segue delle tracce. Un’altra storia è se le tracce sulla rete vengono interrogate non da un essere umano, ma da un algoritmo.
Einstein disse una volta: la logica ci porterà da A a B. l’immaginazione ci porterà ovunque. Possiamo immaginare delle macchine che abbiano anche la creatività, oltre alla logica?
Secondo i costruttori di macchine, che seguono la logica del filosofo Bertrand Russell, sì. Ma è sempre una simulazione del modo di immaginare dell’uomo. Quindi siamo sempre un passo indietro. Partiamo da una domanda: cos’è l’intelligenza. Comprende una serie di capacità di analisi e soluzione dei problemi. La parola intelligenza deriva dal latino e prevede la capacità di scegliere. Una macchina può copiare il modo di scegliere partendo dal comportamento di un milione di persone. Ma ci sarà sempre un’altra persona che sceglie qualcosa di diverso. Quindi il concetto stesso di intelligenza prevede sempre qualcosa di diverso o differente che l’uomo per caso o per scelta scopre. Lo dimostra la storia delle scoperte scientifiche o dell’evoluzione sociale. Le rotture della continuità potrebbero essere imitate dalla macchina, ma ci sarà una persona che farà ancora qualcosa di diverso.
Qual è il punto di equilibrio fra manager e macchine pensanti?
Usare le macchina partendo dal nostro cervello. Inventare, immaginare, narrare.
Accorgersi degli stati di mano. Il modo di funzionare della nostra mente è del tutto diversa dalle modalità alla base del funzionamento di un computer, che si basa su un calcolo. L’uomo calcola, ma anche sogna, immagina, crea, inventa. Nel caso dei manager, in particolare, un suggerimento è
quello di coltivare la cultura umanistica. È proprio la risposta alla presenza della macchine. Nei calcoli le macchine ci sono di grande aiuto. Ma la capacità di innovazione, cogliere nuovi trend, lo si fa con la cultura umanistica. L’alternativa è fidarsi dei tecnici e affidarsi a loro. Sono quelli che costruiscono le macchine. Si finisce per subire la lettura del mondo dei tecnici. E possiamo
immaginare che siano anche gli unici che sanno difendersene. Invece credo che la cultura umanistica che abbraccia tanti campi, con l’uomo al centro, aiuti a comprendere e usare meglio le macchine.
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