(Fonte: "Sette")
Oggi è difficile valutare il lavoro. Molti sono i fattori che lo rendono nebuloso. Il mercato globale, tra nuove opportunità e concorrenza sleale, gli scenari di automazione robotica, gli effetti dell’economia digitale, la confusione di politici che compensano con l’ideologia la mancanza di strategie. Sono molto evidenti, e indignano, le difficoltà di lavoratori alla base della piramide, con occupazioni umili, usuranti e sottopagate: quelle di ieri e quelle di oggi, come gli operai e i nuovi fattorini (i runner). Meno evidenti, ma pesanti per giovani che magari hanno studiato, sono le frustrazioni di chi cerca un impiego creativo e non lo trova, restando vittima delle sue aspettative. Inaspettati, forse meno gravi, ma comunque preoccupanti, sono i sentimenti di inutilità provati da manager, colletti bianchi, notai, avvocati e altri professionisti di fascia alta, da cui dipende spesso il lavoro altrui, che vanno in crisi di fronte al seguente quesito: il tuo lavoro ha senso? La domanda fu posta nel 2013 da David Graeber, antropologo alla London School of Economics, ai lettori di Strike, una rivista di sinistra radicale, con un articolo che fece molto clamore. Oggi esce per Garzanti il libro che è figlio degli approfondimenti di quell’articolo: Bullshit jobs. Da intendersi come “lavori del cavolo” e non “lavori di merda”, come suggerirebbe una traduzione fin troppo letteraria. Perché non si tratta di lavori umili ma oggettivamente utili: a chi li svolge (economicamente) o a chi ne usufruisce (socialmente); si intendono quei lavori che sono percepiti come senza senso da chi li svolge, dunque soggettivamente inutili. In reazione all’articolo sono arrivati commenti e mail, storie di chi confessava di percepire come inutile il proprio lavoro. L’istituto inglese di statistiche YouGov ha poi condotto un sondaggio da cui è emerso che per il 37% degli inglesi il proprio lavoro «non dà un contributo significativo alla società». Strano che nell’epoca dei social network al potere, ci si senta così poco socialmente utili. Sarà che gli utili li fanno loro, i colossi del web, con il tempo e il lavoro offerto gratis dagli utenti?
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Oggi è difficile valutare il lavoro. Molti sono i fattori che lo rendono nebuloso. Il mercato globale, tra nuove opportunità e concorrenza sleale, gli scenari di automazione robotica, gli effetti dell’economia digitale, la confusione di politici che compensano con l’ideologia la mancanza di strategie. Sono molto evidenti, e indignano, le difficoltà di lavoratori alla base della piramide, con occupazioni umili, usuranti e sottopagate: quelle di ieri e quelle di oggi, come gli operai e i nuovi fattorini (i runner). Meno evidenti, ma pesanti per giovani che magari hanno studiato, sono le frustrazioni di chi cerca un impiego creativo e non lo trova, restando vittima delle sue aspettative. Inaspettati, forse meno gravi, ma comunque preoccupanti, sono i sentimenti di inutilità provati da manager, colletti bianchi, notai, avvocati e altri professionisti di fascia alta, da cui dipende spesso il lavoro altrui, che vanno in crisi di fronte al seguente quesito: il tuo lavoro ha senso? La domanda fu posta nel 2013 da David Graeber, antropologo alla London School of Economics, ai lettori di Strike, una rivista di sinistra radicale, con un articolo che fece molto clamore. Oggi esce per Garzanti il libro che è figlio degli approfondimenti di quell’articolo: Bullshit jobs. Da intendersi come “lavori del cavolo” e non “lavori di merda”, come suggerirebbe una traduzione fin troppo letteraria. Perché non si tratta di lavori umili ma oggettivamente utili: a chi li svolge (economicamente) o a chi ne usufruisce (socialmente); si intendono quei lavori che sono percepiti come senza senso da chi li svolge, dunque soggettivamente inutili. In reazione all’articolo sono arrivati commenti e mail, storie di chi confessava di percepire come inutile il proprio lavoro. L’istituto inglese di statistiche YouGov ha poi condotto un sondaggio da cui è emerso che per il 37% degli inglesi il proprio lavoro «non dà un contributo significativo alla società». Strano che nell’epoca dei social network al potere, ci si senta così poco socialmente utili. Sarà che gli utili li fanno loro, i colossi del web, con il tempo e il lavoro offerto gratis dagli utenti?
David Graeber si concentra su alcune categorie:
i consulenti per le risorse umane, i responsabili del marketing, gli
operatori delle relazioni pubbliche, gli strateghi finanziari e i legali
d’azienda. Figure spesso apicali, figlie del boom novecentesco del
settore terziario rispetto ai settori produttivi (primo e secondo) dove
il lavoro dell’uomo è stato in gran parte sostituito dall’automazione.
Da antropologo, Graeber li classifica per attitudini psicologiche e
ruoli neo-feudali perché ruotano attorno a un capo assoluto, il Re: ci
sono i “supervisori”, controllori il cui lavoro può ridursi a guardare
gli altri lavorare; i “tirapiedi”, che servono a far sentire importante
il capo con servigi spesso inutili; poi i “ricucitori” che servono a
risolvere i problemi che, però, spesso non dovrebbero esistere e sono
prodotti da capi distratti o disattenti (i ricucitori patiscono la
“nevrosi della casalinga”, per dirla con Freud); ci sono gli “sgherri”,
ovvero i bravi del Don Rodrigo di turno; infine i “barracaselle”, che
servono a fare numero e giustificare reparti non produttivi – se il loro
lavoro è più intellettuale, sono “passacarte”. Sentirsi un passacarte è
una percezione sempre più diffusa, anche in professioni qualificate di
livello medio, medio-alto, ci racconta Graeber via mail (per essere un
antropologo anarchico, contro l’idolatria del lavoro, è piuttosto
stakanovista, legge le mail anche dalla vasca da bagno): «I
medici lamentano che si devono occupare più di scartoffie che di
pazienti, e che sono vessati dai manager degli ospedali. Frustrazione
aumentata dal fatto che alcuni hanno scelto quella professione dopo
averla vista mitizzata nei telefilm come ER. Gli
insegnanti si lamentano di avere una montagna di burocrazia da
sbrigare. Per entrambe le categorie gioca un ruolo negativo
l’innovazione tecnologica: devono tradurre per i computer gli effetti
qualitativi del loro lavoro, la cura di studenti e pazienti. La
tecnologia migliora la produzione di cose, di beni materiali; applicarla
alle persone è complesso».
Fare da assistenti umani ai
sistemi informatici della scuola non è il lavoro che avevano scelto i
docenti ispirati dal prof. Keating dell’Attimo fuggente,
per completare il quadro delle narrazioni professionali ispirazionali.
Così medici, insegnanti e altri lavoratori si sentono passacarte
digitali, mediatori tra le macchine e gli umani. Schiavi di
quell’innovazione che in alcuni ambiti ha liberato l’uomo da lavori
pesanti (in fabbrica, nei campi, a casa) e che, secondo la previsione di
Keynes del 1930 avrebbe portato a una settimana lavorativa di 15 ore!
Sul perché il monte ore lavorative non si sia ridotto drasticamente ci
sono varie teorie, che mettono sotto accusa il consumismo e la
finanziarizzazione dell’economia. Di certo, in contesti come la scuola e
l’ospedale, ma anche in aziende private, sta crescendo un doppio odio
di classe, per un verso paradossale, forse assurdo. Da
un lato gli oppressi da lavori alienanti che odiano i loro oppressori, e
ok, è più fisiologico; ma dall’altro c’è anche l’odio di chi sta sopra
ed è depresso perché percepisce il suo lavoro come inutile, senza senso,
mentre chi gli sta sotto fa un lavoro utile, che ha senso e per questo
lo invidia. «È lo scontro tra due frustrazioni, una materiale,
l’altra spirituale», dice Graeber, che poi conclude: «Siamo una società
fondata sul rancore diffuso, soprattutto nei luoghi di lavoro».
Il lavoro del cavolo, il lavoro inutile, dunque non va confuso con un lavoro umile
o la parte umile di un lavoro. Il venditore telefonico fa un lavoro
umile e coperto d’infamia – quante gliene diciamo all’ennesima
telefonata per venderci titoli azionari? – ma lo fa perché ha bisogno di
soldi, necessità che produce il senso di quel lavoro; ma il manager che
fustiga i lavoratori di quel call center? Se ha studiato per fare
altro, se ha un minimo di coscienza, se ha progetti di vita anche
extra-lavorativa, se si chiede per un attimo che senso ha il suo lavoro,
può andare in crisi. Come succede alla capa-telefonista Sabrina Ferilli
in Tutta la vita davanti, film del 2008 diretto da Paolo Virzì, ispirato al libro di Michela Murgia Il mondo deve sapere. L’alienazione da lavoro del cavolo è centrale anche nel film Fight Club, del 1999:
il protagonista (interpretato da Edward Norton) è un consulente nel
ramo assicurativo di una grande casa automobilistica e sfoga la sua
frustrazione creando un club dove colletti bianchi stressati si
picchiano a sangue. In seguito al film sono sorti reali fight club negli
Usa e in Russia. Per chi non ama la violenza, ci sono altre strade.
Spesso, manager e consulenti riescono a trovare una via d’uscita e
cambiano vita. Aprono un blog, scrivono un libro. Ma non tutti possono
permettersi questo cambio di rotta.
Dalla lotta di classe ispirata da Marx,
dell’operaio contro il capitalista, si regredisce alla dialettica
feudale servo-padrone di Hegel. Un’involuzione materialista che Graeber
paragona alla dinamica tra slave e master,
usando termini di BDSM, gruppo di discipline e pratiche di
dominazione/sottomissione sessuale: «In ogni relazione di potere c’è una
relazione sadica, ma nelle aziende del terziario avanzato, dove tutto
si basa sui rapporti umani, su chi sta sopra e chi sta sotto, si
riproduce una dinamica simile al BDSM. Con una grossa differenza, però:
nel BDSM reale c’è una parola d’emergenza, di uscita sicurezza, per
esempio “arancia”, che chi è vessato può usare per far smettere
immediatamente il gioco. Ma tu, al tuo
capo, non puoi dire “arancia“ e sperare che lui diventi buono! Puoi solo
dire “mi dimetto”, ma così sei fuori del tutto». Donald Trump,
per Graeber è il campione di questo sadico feudalesimo manageriale. Alla
Casa Bianca educa e gestisce i suoi collaboratori come se fosse ancora
nella trasmissione tv che l’ha reso celebre, The Apprentice,
programma televisivo in cui viene messo in palio, per aspiranti uomini e
donne d’affari, un contratto che va a chi resta in gara. Gli altri
vengono eliminati al grido di «You Are Fired», «Tu sei licenziato» («Sei
fuori», nella versione con Flavio Briatore): «Lo
scopo di questi format è garantirti un posto di lavoro vicinissimo al
boss, è il corrispettivo di chi poteva lucidare la corona di Maria
Antonietta o sedersi a lato del Re Sole», commenta Graeber.
Spiega il successo di Trump con il voto di protesta: «Lui ha vinto con
il voto piccolo borghese, sì, ma anche di molti operai che non amano le
élite liberali di area democrat. I suoi elettori han detto “Trump è
vanitoso, avido, volgare, stupido, corrotto...” Sì! È quello che
pensiamo di voi politici! È come se avessero scelto un personaggio di
finzione, un Presidente da cartoni animati per denunciare la politica da
cartoni animati».
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