Vi propongo questo articolo così come l'ho letto, senza commenti...
(Fonte: "la Repubblica")
Ti dai due pizzicotti e poi rileggi di nuovo la notizia. Andare al lavoro i giorni che vuoi, all’orario che vuoi e a fare le cose che vuoi? In Giappone? Nel paese dove una severa etica professionale non è tutto, ma è l’unica cosa che conta? E invece sì, succede proprio qui, a Osaka. Altro che reddito di cittadinanza, ci hanno pensato nel Sol Levante a rivoluzionare il mondo del lavoro, propriamente un’azienda che si presenta sul mercato con un programma a dir poco esotico e che porta un nome che rimanda a remote selve tropicali, Papua New Guinea Sea Food, tra gamberetti e affini.
Tutto parte da Fukushima, l’‘anno zero’ del Giappone post-moderno. Da qui sono scaturite sperimentazioni e start-up di ogni sorta che vanno fecondando visioni di società più vivibili. Da questa crisi di coscienze post-apocalittica che tante risorse ha frustrato (basti pensare all’enorme patrimonio agricolo della regione di Fukushima ancora oggi marchiato nella percezione comune con la più indelebile delle lettere scarlatte, ‘R’, come radiazioni) ma tante nuove energie ha incoraggiato (nuovi modelli di sviluppo sostenibile, e non più a trazione nucleare), fioriscono i primi germogli di questa azienda da sogno proibito che vide proprio in quel fatale giorno dell’11 marzo 2011 andare in fumo tutti i suoi averi: il caso volle che quest’umile impresa che si occupa di impacchettare gamberetti avesse il proprio hub nel Touhoku, a un tiro di schioppo atomico dalla centrale. Ricollocarono a Osaka ma il governo ebbe la geniale idea di non elargire fondi alle aziende che sceglievano di “scappare” dalla zona contagiata dalla peggiore delle febbri: dovevano contare solo sulle proprie forze. Alla fine, sommersa dai debiti, l’azienda veniva abbandonata perfino dal suo dirigente capo.
Cinque anni fa si trovarono a un bivio, tagliare i costi o soccombere. Qualunque ragioniere di senno sarebbe subito andato a incidere sulla carne del capitale più consistente e per questo più gravoso, quello della forza lavoro, ma l’ingenuo e utopico intento era risparmiare senza lasciare nessuno per strada. Risolsero con un colpo di fantasia, tipica del genio nipponico quando le cose si mette sul serio con scrupolo a farle (cioè sempre), e l’uovo di Colombo l’hanno trovato sul serio: facciamoli venire a lavorare quando vogliono. Non sazi di quella che a tutti alle prime doveva apparire come una boutade da sbronza da addio al celibato, qualcun altro rilanciò, «non è sufficiente, facciamogli fare quel che cavolo gli pare e piace!». In qualunque azienda del mondo avrebbero preso quei due funzionari per le orecchie e li avrebbero accomodati alla porta, non prima di aver disposto le carte per un T.S.O.. Non qui. Qui si sono presi maledettamente sul serio. E così è cominciata la favola dell’azienda che ora si ritrova solo 2 dipendenti a carico e 16 part iper-extra-flex-time.
Risultato? La produttività è aumentata e i costi della gestione del personale sono diminuiti del 30%. Un bello schiaffo ai dottori del lavoro che stanno una vita sulle carte per venire a capo di un contratto che salvi capra e cavoli. Non solo, nonostante i lavoratori fossero liberi di entrare e uscire a piacimento, è risultato che il loro numero fosse insufficiente per mandare avanti la produzione solo due giorni sull’arco di 5 anni: forse un’auto-compensazione semi-intenzionale dei part-timers. Inoltre, obbligando tutti a svolgere solo i loro compiti prediletti, l’efficienza generale è risultata scoppiare di salute.
Certo, la saggezza comune avrebbe sconsigliato una simile mossa: se uno non si vede costretto da un contratto a timbrare il cartellino ogni mattina perché mai dovrebbe farlo?
La risposta l’ha data Muto san, il manager dell’azienda, usando le candide e schiette parole che solitamente escono dalla bocca di quei bambini quando con lievità sbrogliano la complessità apparente del mondo degli adulti: ma se un lavoratore pagato a ore non si presenta a lavoro come campa? Eureka!
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(Fonte: "la Repubblica")
Ti dai due pizzicotti e poi rileggi di nuovo la notizia. Andare al lavoro i giorni che vuoi, all’orario che vuoi e a fare le cose che vuoi? In Giappone? Nel paese dove una severa etica professionale non è tutto, ma è l’unica cosa che conta? E invece sì, succede proprio qui, a Osaka. Altro che reddito di cittadinanza, ci hanno pensato nel Sol Levante a rivoluzionare il mondo del lavoro, propriamente un’azienda che si presenta sul mercato con un programma a dir poco esotico e che porta un nome che rimanda a remote selve tropicali, Papua New Guinea Sea Food, tra gamberetti e affini.
Tutto parte da Fukushima, l’‘anno zero’ del Giappone post-moderno. Da qui sono scaturite sperimentazioni e start-up di ogni sorta che vanno fecondando visioni di società più vivibili. Da questa crisi di coscienze post-apocalittica che tante risorse ha frustrato (basti pensare all’enorme patrimonio agricolo della regione di Fukushima ancora oggi marchiato nella percezione comune con la più indelebile delle lettere scarlatte, ‘R’, come radiazioni) ma tante nuove energie ha incoraggiato (nuovi modelli di sviluppo sostenibile, e non più a trazione nucleare), fioriscono i primi germogli di questa azienda da sogno proibito che vide proprio in quel fatale giorno dell’11 marzo 2011 andare in fumo tutti i suoi averi: il caso volle che quest’umile impresa che si occupa di impacchettare gamberetti avesse il proprio hub nel Touhoku, a un tiro di schioppo atomico dalla centrale. Ricollocarono a Osaka ma il governo ebbe la geniale idea di non elargire fondi alle aziende che sceglievano di “scappare” dalla zona contagiata dalla peggiore delle febbri: dovevano contare solo sulle proprie forze. Alla fine, sommersa dai debiti, l’azienda veniva abbandonata perfino dal suo dirigente capo.
Cinque anni fa si trovarono a un bivio, tagliare i costi o soccombere. Qualunque ragioniere di senno sarebbe subito andato a incidere sulla carne del capitale più consistente e per questo più gravoso, quello della forza lavoro, ma l’ingenuo e utopico intento era risparmiare senza lasciare nessuno per strada. Risolsero con un colpo di fantasia, tipica del genio nipponico quando le cose si mette sul serio con scrupolo a farle (cioè sempre), e l’uovo di Colombo l’hanno trovato sul serio: facciamoli venire a lavorare quando vogliono. Non sazi di quella che a tutti alle prime doveva apparire come una boutade da sbronza da addio al celibato, qualcun altro rilanciò, «non è sufficiente, facciamogli fare quel che cavolo gli pare e piace!». In qualunque azienda del mondo avrebbero preso quei due funzionari per le orecchie e li avrebbero accomodati alla porta, non prima di aver disposto le carte per un T.S.O.. Non qui. Qui si sono presi maledettamente sul serio. E così è cominciata la favola dell’azienda che ora si ritrova solo 2 dipendenti a carico e 16 part iper-extra-flex-time.
Risultato? La produttività è aumentata e i costi della gestione del personale sono diminuiti del 30%. Un bello schiaffo ai dottori del lavoro che stanno una vita sulle carte per venire a capo di un contratto che salvi capra e cavoli. Non solo, nonostante i lavoratori fossero liberi di entrare e uscire a piacimento, è risultato che il loro numero fosse insufficiente per mandare avanti la produzione solo due giorni sull’arco di 5 anni: forse un’auto-compensazione semi-intenzionale dei part-timers. Inoltre, obbligando tutti a svolgere solo i loro compiti prediletti, l’efficienza generale è risultata scoppiare di salute.
Certo, la saggezza comune avrebbe sconsigliato una simile mossa: se uno non si vede costretto da un contratto a timbrare il cartellino ogni mattina perché mai dovrebbe farlo?
La risposta l’ha data Muto san, il manager dell’azienda, usando le candide e schiette parole che solitamente escono dalla bocca di quei bambini quando con lievità sbrogliano la complessità apparente del mondo degli adulti: ma se un lavoratore pagato a ore non si presenta a lavoro come campa? Eureka!
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