giovedì 20 settembre 2018

Socrate per trovare nuovi leader

(Fonte: "La Stampa")

Coach. Una figura che è entrata nel nostro immaginario come allenatore (sportivo), ma negli ultimi anni c’è stato un proliferare di coach di ogni genere, da quelli che dicono che ti insegnano a vivere a quelli che allenano la mente.  
I coach sono arrivati anche nelle aziende, ma non si pensi a guru carismatici, men che meno a dei motivatori: il coaching è un metodo per testare e preparare i leader di domani, ma senza imporre regole, ricette né mantra da ripetere al risveglio o addominali prima di andare a letto. Il coach non dà risposte, anzi fa essenzialmente il contrario: pone domande. Per capire se il potenziale leader sa davvero quello che vuole e ha gli strumenti per ottenerlo e mantenerlo. Alla fine, è il caro vecchio metodo di Socrate: nessun insegnamento scolpito nella pietra o verità in tasca pronte all’occorrenza, ma solo punti interrogativi, il dubbio costruttivo come motore della conoscenza, anche di noi stessi. La nuova frontiera delle risorse umane in un’azienda ha radici nell’antica Grecia.  

Il significato
Coach letteralmente significa carrozza. E quello che fa un coach è portare una persona da un punto a un altro. In ambito aziendale, significa innescare la motivazione utile per chi è stato scelto per una posizione da leader, e aiutarlo a prendere consapevolezza delle competenze che gli mancano.


(...)
 
Il coach parte dal presupposto che il cliente non ha problemi: ha obiettivi. Che abbia le competenze professionali è evidente, altrimenti l’azienda non punterebbe su di lui. I coach seguono tante persone che per anni svolgono lavori tecnici: ma avranno anche le doti carismatiche e diplomatiche che servono per gestire altre persone?.  
 
Una relazione paritaria
 
Non uno psicologo, sia chiaro. Il coach fa cose che uno psicologo non può e non deve fare: può conoscere bene il suo «coachee» (il cliente si chiama così), dargli del tu, uscirci insieme. È una relazione paritaria, bisogna creare una relazione di fiducia.  

Quali punti di forza pensi di avere per fare il capo? Cosa credi che ti manchi? Questi sono grosso modo gli interrogativi, che ne generano altri a loro volta, in un percorso in cui il bravo coach sa trovare le domande più utili caso per caso. Le chiamano «powerful questions»: quelle domande a cui, anche nella vita, generalmente la prima risposta che sì dà è «Bella domanda». Quelle che smuovono qualcosa dentro, che toccano il cuore delle difficoltà, innescano il pensiero critico. Così potenti che a volte il coach si ritrova un cliente che va da tutt’altra parte, rischio di cui le imprese vengono informate al momento di prendere l’incarico: C’è chi si rende conto che il ruolo da leader non è quello che vuole.  
È capitato che alcuni chiedessero di passare ad altri incarichi, addirittura che lasciassero il lavoro e cambiassero vita. Effetto collaterale della consapevolezza, alla fine ben visto anche dalle aziende, perché meglio scoprirlo prima se il prescelto non è dove vorrebbe essere e non fa davvero quello che ama. Ma in definitiva, il coaching funziona? Se il percorso parte e il coachee è motivato, non fallisce quasi mai. Fallisce spesso con quelli che chiamiamo “uncoachable”: che pensano di non avere nulla da imparare, perché loro sanno già tutto. 

Le aziende
 
Che funzioni lo dimostra anche la crescente domanda delle aziende, tanto che i coach - quelli accreditati - non sono abbastanza.


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