mercoledì 12 settembre 2018

Telelavoro triplicato in un anno

L’ estate sta finendo, le vacanze pure. E se il vostro capo vi proponesse di riprendere a lavorare, ma senza tornare in ufficio? I telelavoratori, meglio smart workers, sono ancora pochini. Ma tutti felici. Manuela Manes, 45 anni, nata in provincia di Pordenone e da una vita a Milano, da 7 è pioniera dello smart working per Siemens Italia e pittrice. Non sempre in quest’ordine. Il quartier generale della multinazionale tedesca è un palazzone di vetro nel quartiere Adriano, periferia nord est del capoluogo lombardo. Gli armadi sono quasi spariti, le scrivanie resistono ma sono condivise. Scordatevi la foto di famiglia accanto al pc. E scordatevi pure il pc.

Intranet e l’app per i rifiuti

Con l’accordo siglato con i sindacati a giugno dello scorso anno tutti i 2.400 collaboratori di Siemens sono diventati «smart». Si viaggia con il portatile, che si connette con una schedina all’intranet aziendale. Dal divano di casa oppure dal tavolino di un bar, poco cambia e a nessuno interessa. Se c’è bisogno di un posto riservato per incontrare i clienti o un team di lavoro si prenota una sala. Con un’app, proprio come il servizio per ritirare la raccolta differenziata, quello di bike sharing oppure la palestra. Il che vuol dire che non si lavora per orari, ma per obiettivi. I dipendenti coinvolti nel progetto pilota nel 2011 erano 260, tra questi c’è Manuela. Lei lavora per il marketing e racconta così la sua giornata: «Mi alzo presto, ma non esiste né l’ansia del traffico né quella del cartellino. Non perdo più tempo, perché ottimizzo i miei tempi. Nessuna gara a chi esce dall’ufficio per ultimo e fa bella figura con il capo». 

Dicono che con lo smartworking la produttività aumenta. «Non so se esistano dei parametri scientifici, ma quando si è felici si lavora meglio. Non tornerei mai indietro. È una condizione ideale, un beneficio sia per me che per l’azienda». 

La corsa delle grandi aziende
 
La legge 81 del maggio 2017 regola e definisce il lavoro agile, da intendersi come «modalità di esecuzione del rapporto del lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro». C’è bisogno di un accordo - collettivo oppure individuale - per regolare tempi di riposo e diritto alla disconnessione, oltre alle modalità di recesso, che deve sempre essere possibile. Il principio è quello della volontarietà. Insomma se il lavoratore non è d’accordo, non se ne fa nulla. Le più determinate a cogliere l’opportunità di eliminare il posto fisso, inteso non come contratto a tempo indeterminato ma come scrivania, sono le grandi aziende. 

A testimoniarlo è l’identikit del lavoratore agile: uomo, età media 40 anni, dipendente di una grande impresa del Nord Italia. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, dopo la legge 81 del 2012 dell’ex ministro del Lavoro Giuliano Poletti gli smart workers sono aumentati in un anno del 60%. Non si tratta solo di tagliare i tempi del trasporto e della macchinetta del caffè, ma ripensare il rapporto di lavoro subordinato. «Ci vogliono fiducia e senso di responsabilità - conclude Manuela, immagine social con i tacchi sulla scrivania, poco istituzionale ma che rende bene l’idea -. Bisogna saper mantenere i contatti con i colleghi anche senza vederli ogni giorno. Poi chi è assunto da poco tenderà a stare di più in azienda, ma sono sempre i risultati a fare la differenza. Ecco perché conta molto il cambio di mentalità dei manager». 

Oltre a Siemens, ci sono Nestlè, Intesa San Paolo, Axa, Enel, Ferrovie e la Ferrero, che dopo i primi sei mesi di progetto pilota ha deciso di triplicare. Da un’indagine interna su dipendenti e manager della multinazionale piemontese coinvolti nello smart working è emerso che lavorare un giorno a settimana “in agilità” migliora la capacità di organizzare il tempo e il rispetto delle scadenze. Di più, si registra una crescita della sensazione di fiducia percepita dal dipendente e un miglioramento della propensione ai risultati. Tutto nell’ottica di un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata. 

Solo una su dieci
 
«In Italia lo smart working coinvolge circa il 5% dei lavoratori, ma con una distribuzione diversa a seconda del tipo di impresa. Con un campione pesato per essere rappresentativo, siamo arrivati a stimare 305mila persone – spiega Fiorella Crespi, ricercatrice del Politecnico -. Le iniziative che hanno portato a un ripensamento complessivo dell’organizzazione interessano circa il 9% delle grandi aziende». Meno di una su dieci. Pochine, anche se stanno recuperando in fretta il tempo perso perché agevolate da una cultura manageriale meno legata al controllo visivo. Altro grande incentivo: la capacità di conciliare tempi di vita e di lavoro è anche un punto di forza e di attrazione per i giovani talenti. 

La musica cambia per le piccole e medie imprese, per cui «è ancora molto forte la percezione che sia una normativa che non si può applicare alla loro realtà», conclude Crespi. 
Ed è un peccato. Come spiega il rapporto pubblicato a luglio dello scorso anno da Eurofound, agenzia europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, trovare nuove forme di work-life balance è anche una strategia per combattere il gender gap nell’occupazione e aiutare i care giver, cioè «coloro che si prendono cura», dei figli o dei parenti più anziani e in difficoltà. Con il telelavoro vincono tutti. Non ci sono costi da sostenere per il pubblico, i privati possono tagliare diverse spese fisse e aumenta pure la produttività. 

Gli ultimi in Europa
 
Tutto il contrario di quel che accade a chi è obbligato a timbrare il cartellino. Secondo la ricerca pubblicata dall’European Labour Force, la differenza delle ore lavorate ogni settimana tra uomo e donna aumenta quando c’è un bimbo con meno di dodici anni. Per lei scende da 35 a 30, per lui invece aumenta anche se di poco: da 39 a più di 40. Attenzione però. Il maggior scarto tra quanto si vorrebbe lavorare e quanto si lavora è per gli uomini proprio in questa fase. Il telelavoro, il lavoro agile o in mobilità, nelle sue diverse forme può essere una buona soluzione per le esigenze di cura di tutti. Mamme, e anche papà. Secondo i ricercatori in Europa il 60% dei lavoratori deve rispettare orari rigidi, il 30% può contare su «una discreta flessibilità in alcuni momenti della giornata». 
La media europea di chi - in diverse forme - non è obbligato a lavorare da casa è del 17 %. Ai primi posti - con percentuali che superano il 30% - ci sono Danimarca, Svezia e Regno Unito. Ultimi in classifica con meno del 10%, preceduti da Grecia, Repubblica Ceca e Polonia, ci siamo noi. 

Il ritardo della Pa 
 
Il telelavoro è ancora poco - anzi molto poco - diffuso nella pubblica amministrazione. Secondo la legge Madia del 2015, l’obiettivo da raggiungere nei primi sei mesi del 2018 era del 10% dei dipendenti pubblici - circa 300mila persone - ma siamo poco sopra lo 0,3 per cento, il che significa 3mila lavoratori nelle amministrazioni tra il Nord e la Capitale. 
Secondo il rapporto realizzato da Marina Penna, ricercatrice dell’agenzia Enea, l’inizio del cronico ritardo sta nella violazione di un obbligo introdotto nel 2012 dal Decreto Crescita del governo Monti. Per pianificare il ricorso al telelavoro, bisognava prima di tutto individuare le attività non telelavorabili. Anche se erano previste delle sanzioni per chi non avesse provveduto, non se n’è mai fatto nulla.
C’è da aggiungere che regole e prassi escludono i dirigenti e chi ha contratti diversi da quello a tempo pieno e indeterminato e che l’età media dei dipendenti pubblici è alta. L’Italia infatti ha il più basso tasso percentuale di dipendenti sotto i 35 anni - il 2% contro il 18% dei paesi Ocse - e la più alta sopra i 54 anni, 45% contro il 22%. 
 
Si aggiungono la scarsità di risorse per il necessario rinnovamento dei mezzi tecnologici e la complicata disciplina sugli infortuni. Le iniziative, pure virtuose, ci sono. Apripista le province di Trento e Bolzano, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Per queste amministrazioni, l’obiettivo del 10 % non è poi così remoto. Tra gli enti di ricerca, spicca l’Istat, poi ci sono il Ministro dello Sviluppo Economico e della Salute. Ma a Sud di Roma di telelavoro non c’è ancora traccia. 

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