(Fonte: "L'Economia")
Per i giovani più istruiti i confini nazionali sono sempre meno rilevanti.
Contano le possibilità di trovare un lavoro coerente con la propria formazione, gratificante, ben pagato, con buone prospettive di carriera.
Nel mondo della ricerca scientifica, in particolare, la circolazione dei «talenti» è molto elevata: esiste ormai un sistema globale di porte girevoli, con giovani nazionali che escono e giovani stranieri che entrano in questo o quel Paese.
(...)
Il saldo di talenti è positivo per iPaesi anglosassoni ed in particolare per gli Usa. Ma lo è anche per alcuni piccoli Paesi come Svizzera, Svezia
o Danimarca.Per altri Paesi (Francia, Germania, Olanda) il saldo è vicino allo zero (l’emigrazione è quasi interamente compensata dall’immigrazione).
L’Italia si segnala invece per un saldo fortemente negativo, quasi da Paese in via di sviluppo. È la sindrome di quella «fuga dei cervelli» a
senso unico di cui finalmente si è cominciato a discutere.
Nella rilevazione non figurano i Paesi dell’Europa centro-orientale. Sappiamo che l’adesione alla Ue ha promosso in quest’area un enorme brain drain (fuga di cervelli, appunto) a tutto vantaggio degli altri Paesi
Ue. Ma l’onda si sta arrestando. Il rapporto«The labour force boomerang» pubblicato da Colliers International lo scorso luglio indica che una fetta consistente di emigrati dei Paesi Ue della ex-Cortina di Ferro —Polonia, Slovacchia, RepubblicaCeca, Ungheria, Romania e Bulgaria — potrebbe presto rientrare in patria dopo anni passati in Europa occidentale. Da un lato, ci sono i fattori di «spinta» come la Brexit e la caduta del valore della sterlina. Dall’altro, quelli di «attrazione»: il trend di crescita dei salari, la diminuzione consistente dei livelli di corruzione, una tassazione del reddito più agevole e il relativo aumento degli indici di qualità della vita a
Est.
Il rapporto mette in luce un altro dato interessante: le iniziative (poche, ma mirate) messe a punto dai governi di quei Paesi per richiamare i propri talenti. Si va dal piano «Ritorno» di Praga che sostiene le imprese che assumono ricercatori emigrati all’estero al programma ungherese «Giovani tornate a casa!», mirato agli expat nel Regno Unito. La Romania ha stanziato un fondo ad hoc a cui possono attingere imprenditori di ritorno in patria, a fronte di un capitale di investimento proprio di 40mila euro. Infine, vi è il piano di re-integro degli emigrati del governo slovacco (partenza in questi mesi) che ha come target gli 80mila giovani nel Regno Unito.
Benintesi: il rientro potenziale dei giovani dell’Est non è una conseguenza della chiusura del divario economico tra Ovest e Est Europa. O almeno, non soltanto. Ma potrebbe esserne un presupposto. L’assenza di forza lavoro qualificata nel corso degli ultimi due decenni ha infatti rallentato il percorso di convergenza con l’Europa occidentale.
La laurea in Italia non serve
Ma torniamo all’Italia. Qualche settimana fa un rapporto di Confindustria ha sottolineato il danno del brain drain sull’ economia del Belpaese di oggi
e domani. Un paragone tra Francia (un Paese con alti livelli di disoccupazione, ma non afflitto dal fenomeno brain drain) e Italia, sulla base dei dati Eurostat del 2016 aiuta a comprendere il problema. Sebbene l’Italia registri un tasso di disoccupazione maggiore per ogni livello di
istruzione (primaria, secondaria, terziaria) e qualsiasi fascia di età (15-19, 20-24, ecc.) il gap fra i due Paesi aumenta, lungo le varie coorti, per i tassi di disoccupazione dei giovani con livello di istruzione terziaria.
Nel 2016, in Italia, tra i 25 e i 29 anni è stato più facile trovare un lavoro con in tasca la licenza media o un diploma piuttosto che la laurea. Ciò spiega perché ilaureati francesi non partano dal loro Paese, mentre gli italiani sì.
Tutti più poveri
Ci sono soluzioni all’orizzonte? Da un lato è necessario affrontare il problema della de-industrializzazione per risolvere il macigno della disoccupazione tra i meno istruiti. Dall’altro lato sono indispensabili misure specifiche e selettive per trattenere e richiamare i più istruiti. Non è neppure detto che tutto ciò sia sufficiente. L’evoluzione a Est ci insegna che, oltre alle azioni dei governi, contano anche le condizioni di
contesto.
Le statistiche dell’Ocse mostrano chiaramente come l’Italia sia fanalino di coda nella classifica dei Paesi che facilitano l’ avvio di nuove forme di impresa. Sono due i parametri chiave: l’accesso al credito e a canali di formazione dedicati.
La sfida èenorme. Rassegnarsi ad essere un «Paese per vecchi» è come fare harakiri, il suicidio rituale dell’antico Giappone. Senza giovani in gamba che lavorano e producono non si generano abbastanza risorse. Diventeremo tutti progressivamente più poveri, in un perverso circolo
vizioso
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
Per i giovani più istruiti i confini nazionali sono sempre meno rilevanti.
Contano le possibilità di trovare un lavoro coerente con la propria formazione, gratificante, ben pagato, con buone prospettive di carriera.
Nel mondo della ricerca scientifica, in particolare, la circolazione dei «talenti» è molto elevata: esiste ormai un sistema globale di porte girevoli, con giovani nazionali che escono e giovani stranieri che entrano in questo o quel Paese.
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Il saldo di talenti è positivo per iPaesi anglosassoni ed in particolare per gli Usa. Ma lo è anche per alcuni piccoli Paesi come Svizzera, Svezia
o Danimarca.Per altri Paesi (Francia, Germania, Olanda) il saldo è vicino allo zero (l’emigrazione è quasi interamente compensata dall’immigrazione).
L’Italia si segnala invece per un saldo fortemente negativo, quasi da Paese in via di sviluppo. È la sindrome di quella «fuga dei cervelli» a
senso unico di cui finalmente si è cominciato a discutere.
Nella rilevazione non figurano i Paesi dell’Europa centro-orientale. Sappiamo che l’adesione alla Ue ha promosso in quest’area un enorme brain drain (fuga di cervelli, appunto) a tutto vantaggio degli altri Paesi
Ue. Ma l’onda si sta arrestando. Il rapporto«The labour force boomerang» pubblicato da Colliers International lo scorso luglio indica che una fetta consistente di emigrati dei Paesi Ue della ex-Cortina di Ferro —Polonia, Slovacchia, RepubblicaCeca, Ungheria, Romania e Bulgaria — potrebbe presto rientrare in patria dopo anni passati in Europa occidentale. Da un lato, ci sono i fattori di «spinta» come la Brexit e la caduta del valore della sterlina. Dall’altro, quelli di «attrazione»: il trend di crescita dei salari, la diminuzione consistente dei livelli di corruzione, una tassazione del reddito più agevole e il relativo aumento degli indici di qualità della vita a
Est.
Il rapporto mette in luce un altro dato interessante: le iniziative (poche, ma mirate) messe a punto dai governi di quei Paesi per richiamare i propri talenti. Si va dal piano «Ritorno» di Praga che sostiene le imprese che assumono ricercatori emigrati all’estero al programma ungherese «Giovani tornate a casa!», mirato agli expat nel Regno Unito. La Romania ha stanziato un fondo ad hoc a cui possono attingere imprenditori di ritorno in patria, a fronte di un capitale di investimento proprio di 40mila euro. Infine, vi è il piano di re-integro degli emigrati del governo slovacco (partenza in questi mesi) che ha come target gli 80mila giovani nel Regno Unito.
Benintesi: il rientro potenziale dei giovani dell’Est non è una conseguenza della chiusura del divario economico tra Ovest e Est Europa. O almeno, non soltanto. Ma potrebbe esserne un presupposto. L’assenza di forza lavoro qualificata nel corso degli ultimi due decenni ha infatti rallentato il percorso di convergenza con l’Europa occidentale.
La laurea in Italia non serve
Ma torniamo all’Italia. Qualche settimana fa un rapporto di Confindustria ha sottolineato il danno del brain drain sull’ economia del Belpaese di oggi
e domani. Un paragone tra Francia (un Paese con alti livelli di disoccupazione, ma non afflitto dal fenomeno brain drain) e Italia, sulla base dei dati Eurostat del 2016 aiuta a comprendere il problema. Sebbene l’Italia registri un tasso di disoccupazione maggiore per ogni livello di
istruzione (primaria, secondaria, terziaria) e qualsiasi fascia di età (15-19, 20-24, ecc.) il gap fra i due Paesi aumenta, lungo le varie coorti, per i tassi di disoccupazione dei giovani con livello di istruzione terziaria.
Nel 2016, in Italia, tra i 25 e i 29 anni è stato più facile trovare un lavoro con in tasca la licenza media o un diploma piuttosto che la laurea. Ciò spiega perché ilaureati francesi non partano dal loro Paese, mentre gli italiani sì.
Tutti più poveri
Ci sono soluzioni all’orizzonte? Da un lato è necessario affrontare il problema della de-industrializzazione per risolvere il macigno della disoccupazione tra i meno istruiti. Dall’altro lato sono indispensabili misure specifiche e selettive per trattenere e richiamare i più istruiti. Non è neppure detto che tutto ciò sia sufficiente. L’evoluzione a Est ci insegna che, oltre alle azioni dei governi, contano anche le condizioni di
contesto.
Le statistiche dell’Ocse mostrano chiaramente come l’Italia sia fanalino di coda nella classifica dei Paesi che facilitano l’ avvio di nuove forme di impresa. Sono due i parametri chiave: l’accesso al credito e a canali di formazione dedicati.
La sfida èenorme. Rassegnarsi ad essere un «Paese per vecchi» è come fare harakiri, il suicidio rituale dell’antico Giappone. Senza giovani in gamba che lavorano e producono non si generano abbastanza risorse. Diventeremo tutti progressivamente più poveri, in un perverso circolo
vizioso
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