(Fonte: "Il Fatto Quotidiano")
Lavorare meno, lavorare tutti: chi invoca questo approccio come panacea non sa che l’economia italiana lo sta già applicando. Nel 2018, l’Italia ha recuperato il numero di occupati pre-crisi, cioè
del 2008, e ha anzi segnato un nuovo record: 23,3 milioni di persone al lavoro, 125.000 in più che
nell’anno del crac di Lehman Brothers. Ma nel 2018 mancano all’appello 1,8 milioni di ore lavorate rispetto a dieci anni fa, un buco del 5,1 per cento. E non perché gli italiani siano diventati più produttivi, cioè capaci di ottenere gli stessi risultati in minor tempo. L’economia, infatti, non è mai tornata al livello pre-crisi: il Pil dei primi due trimestri del 2018 era del 3,8 per cento più basso di quello del periodo corrispondente del 2008. Quindi lavorano più persone, ma per produrre meno.
Quello che è successo, spiega il rapporto "Il mercato del lavoro: un bilancio degli ultimi dieci anni" presentato dall’Istat, è che la qualità del lavoro è peggiorata, si sono ridotti gli impieghi a tempo pieno e sono aumentati i tempi determinati e i part time involontari (imposti dal datore di lavoro a chi invece sarebbe ben felice di fare il turno pieno). Ma l’ossessione con cui la politica guarda al numero di occupati ha generato l’illusione che tutto fosse tornato a posto. Il nostro tasso di disoccupazione (la quota di chi cerca lavoro e non lo trova) al 10,6 per cento è più basso di quello di altri Paesi Ue, ma se l’Italia avesse un tasso di occupazione (la percentuale di popolazione con un lavoro sul totale) analogo a quello del resto dei Paesi d ell’eurozona, ci sarebbero 3,8 milioni di occupati in più.
In una prima fase, il calo delle ore lavorate si poteva spiegare con la scelta delle imprese di ricorrere
alla cassa integrazione per gestire i cali di domanda. Ma ora la cassa integrazione è tornata al livello del 2008, eppure continuano a mancare 1,8 milioni di ore lavorate. Questo si spiega in parte con il fatto che in dieci anni sono spariti 866.000 posti di lavoro a tempo indeterminato e c’è stata una ecatombe silenziosa anche di lavoratori indipendenti (-602 mila, il 10,2 per cento del totale del 2008).
Il vuoto lasciato è stato riempito soltanto in parte dalla carica dei tempi determinati: alla fine dei
primi nove mesi del 2018 ce n’erano 735.000 in più che nel 2008, il grosso dell’aumento si è registrato tra quelli di breve durata, sotto i sei mesi (+613.000). E poi ci sono i part time involontari: un milione e mezzo in più che nel 2008. Non soltanto un effetto collaterale della crisi che riduce tutele e opportunità, ma la spia di un mutamento strutturale (e preoccupante) dell’economia italiana,
spiega l’Istat: l’occupazione si sta spostando da settori dove dominavano i contratti a tempo indeterminato o comunque full time, come l’industria e le costruzioni, verso altri dove c’è una maggiore incidenza del tempo parziale: alberghi e ristorazione, servizi alle imprese, sanità e servizi alle famiglie.
A spiegare questo lavoro mancante c’è anche il blocco del turnover nella Pubblica amministrazione, che ha chiuso la strada alla più tipica delle occupazioni a tempo indeterminato. Ma c’è anche la debolezza del sistema delle imprese italiane nei settori più tecnologici che in altri Paesi trainano la crescita e offrono le opportunità più interessanti. Un dato riassume il problema: nel 2010 gli italiani con un dottorato di ricerca conseguito in un ateneo italiano che lavoravano all’estero erano il 14,7 per cento di quelli con un lavoro, nel 2018 la percentuale è salita al 18,8 per cento. E le generazioni più giovani risultano più propense alla mobilità, probabilmente anche perché di occasioni di sfruttare il loro titolo in Italia ce ne sono sempre di meno.
Se proprio si vuole vedere un segno positivo, nell’evoluzione del mercato del lavoro, si può notare
che nel 2018 le donne occupate sono mezzo milione in più che nel 2008 (+5,4 per cento), soprattutto
nel settore terziario. Da sempre gli economisti considerano una maggiore partecipazione femminile fondamentale per sfruttare il potenziale latente dell’economia italiana. Ma le mogli si sono messe
a lavorare soltanto perché i mariti non trovavano più nulla. Gli uomini occupati sono calati di
388.000 unità (-2,8 per cento), colpa del crollo di industria ed edilizia. Altro segnale drammatico:
la crisi ha spaccato ancora di più l'Italia. Il Centro-Nord ha 376.000 occupati in più che nel 2008, il Mezzogiorno 262 mila in meno. Il record degli occupati su base nazionale a 23,3 milioni su base nazionale, insomma, è ben magra soddisfazione
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
Lavorare meno, lavorare tutti: chi invoca questo approccio come panacea non sa che l’economia italiana lo sta già applicando. Nel 2018, l’Italia ha recuperato il numero di occupati pre-crisi, cioè
del 2008, e ha anzi segnato un nuovo record: 23,3 milioni di persone al lavoro, 125.000 in più che
nell’anno del crac di Lehman Brothers. Ma nel 2018 mancano all’appello 1,8 milioni di ore lavorate rispetto a dieci anni fa, un buco del 5,1 per cento. E non perché gli italiani siano diventati più produttivi, cioè capaci di ottenere gli stessi risultati in minor tempo. L’economia, infatti, non è mai tornata al livello pre-crisi: il Pil dei primi due trimestri del 2018 era del 3,8 per cento più basso di quello del periodo corrispondente del 2008. Quindi lavorano più persone, ma per produrre meno.
Quello che è successo, spiega il rapporto "Il mercato del lavoro: un bilancio degli ultimi dieci anni" presentato dall’Istat, è che la qualità del lavoro è peggiorata, si sono ridotti gli impieghi a tempo pieno e sono aumentati i tempi determinati e i part time involontari (imposti dal datore di lavoro a chi invece sarebbe ben felice di fare il turno pieno). Ma l’ossessione con cui la politica guarda al numero di occupati ha generato l’illusione che tutto fosse tornato a posto. Il nostro tasso di disoccupazione (la quota di chi cerca lavoro e non lo trova) al 10,6 per cento è più basso di quello di altri Paesi Ue, ma se l’Italia avesse un tasso di occupazione (la percentuale di popolazione con un lavoro sul totale) analogo a quello del resto dei Paesi d ell’eurozona, ci sarebbero 3,8 milioni di occupati in più.
In una prima fase, il calo delle ore lavorate si poteva spiegare con la scelta delle imprese di ricorrere
alla cassa integrazione per gestire i cali di domanda. Ma ora la cassa integrazione è tornata al livello del 2008, eppure continuano a mancare 1,8 milioni di ore lavorate. Questo si spiega in parte con il fatto che in dieci anni sono spariti 866.000 posti di lavoro a tempo indeterminato e c’è stata una ecatombe silenziosa anche di lavoratori indipendenti (-602 mila, il 10,2 per cento del totale del 2008).
Il vuoto lasciato è stato riempito soltanto in parte dalla carica dei tempi determinati: alla fine dei
primi nove mesi del 2018 ce n’erano 735.000 in più che nel 2008, il grosso dell’aumento si è registrato tra quelli di breve durata, sotto i sei mesi (+613.000). E poi ci sono i part time involontari: un milione e mezzo in più che nel 2008. Non soltanto un effetto collaterale della crisi che riduce tutele e opportunità, ma la spia di un mutamento strutturale (e preoccupante) dell’economia italiana,
spiega l’Istat: l’occupazione si sta spostando da settori dove dominavano i contratti a tempo indeterminato o comunque full time, come l’industria e le costruzioni, verso altri dove c’è una maggiore incidenza del tempo parziale: alberghi e ristorazione, servizi alle imprese, sanità e servizi alle famiglie.
A spiegare questo lavoro mancante c’è anche il blocco del turnover nella Pubblica amministrazione, che ha chiuso la strada alla più tipica delle occupazioni a tempo indeterminato. Ma c’è anche la debolezza del sistema delle imprese italiane nei settori più tecnologici che in altri Paesi trainano la crescita e offrono le opportunità più interessanti. Un dato riassume il problema: nel 2010 gli italiani con un dottorato di ricerca conseguito in un ateneo italiano che lavoravano all’estero erano il 14,7 per cento di quelli con un lavoro, nel 2018 la percentuale è salita al 18,8 per cento. E le generazioni più giovani risultano più propense alla mobilità, probabilmente anche perché di occasioni di sfruttare il loro titolo in Italia ce ne sono sempre di meno.
Se proprio si vuole vedere un segno positivo, nell’evoluzione del mercato del lavoro, si può notare
che nel 2018 le donne occupate sono mezzo milione in più che nel 2008 (+5,4 per cento), soprattutto
nel settore terziario. Da sempre gli economisti considerano una maggiore partecipazione femminile fondamentale per sfruttare il potenziale latente dell’economia italiana. Ma le mogli si sono messe
a lavorare soltanto perché i mariti non trovavano più nulla. Gli uomini occupati sono calati di
388.000 unità (-2,8 per cento), colpa del crollo di industria ed edilizia. Altro segnale drammatico:
la crisi ha spaccato ancora di più l'Italia. Il Centro-Nord ha 376.000 occupati in più che nel 2008, il Mezzogiorno 262 mila in meno. Il record degli occupati su base nazionale a 23,3 milioni su base nazionale, insomma, è ben magra soddisfazione
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