(Fonte: "Affari&Finanza")
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L’hi-tech brucia posti e ciò alimenta previsioni
catastrofiche ma si stanno anche prendendo misure adatte a gestire una
complessa fase di transizione. La Daimler su alcune linee produttive
riduce le macchine e rimette gli uomini
Hal
lo ammette, “ho paura”. È un sentimento umano, privilegio dei computer
più sofisticati. Comincia a cantare, “giro giro tondo”. Sempre più
lentamente, finché si spegne. E Frank torna padrone dell’astronave. È
una delle scene più inquietanti di “2001 Odissea nello spazio”.
L’astronauta che vince sulla macchina che lo voleva uccidere è la
catarsi tipica di uno sterminato filone letterario e cinematografico.
Il
film di Stanley Kubrick assorbiva nel 1968, nel periodo cruciale
dell’uomo sulla luna e della sfida nello spazio tra Usa e Urss,
l’angoscia atavica del fantascientifico darwinismo postindustriale. La
paura della rivolta delle macchine e della sostituzione degli esseri
umani attraverso l’intelligenza artificiale. Sconfiggendo HAL, Frank
ristabiliva la famosa prima legge della robotica del grande scrittore di
fantascienza Isaac Asimov: “Un robot non può recar danno a un essere
umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un
essere umano riceva danno”.
Oggi quella legge sembra di nuovo in
pericolo.
A rischio uno su due
Gli
studiosi più pessimisti dicono che negli Stati Uniti, nei prossimi
vent’anni, un posto di lavoro su due sarà spazzato via dalle macchine.
La sfida dei robot all’uomo è tornata più attuale che mai. Non c’è
bisogno di spingersi sul terreno di chi teme che in futuro i computer
possano prendere il controllo degli esseri umani come nel capolavoro di
Kubrick; e tra loro figurano non aspiranti stregoni ma il fondatore di
Microsoft, Bill Gates, e il fisico Stephen Hawking, secondo il quale
siamo alla vigilia “di un evento che potrebbe essere il più importante
nella storia umana ma anche l’ultimo, se non impariamo ad evitarne i
rischi”. Ma vale la pena analizzare uno dei fenomeni più studiati negli
ultimi anni, quello dell’impatto dei robot sull’occupazione.
Innumerevoli
ricerche, ormai, calcolano il possibile tasso di sostituzione dei
lavoratori attraverso le macchine, cercano di stimare la perdita di
posti di lavoro nel vecchio e nel nuovo mondo a causa del progresso
tecnologico. Ed è un discorso che ha moltissimo più a che fare con il
tema deflagrato durante la Grande crisi, quello del declino della classe
media e delle diseguaglianze, di quanto non si pensi.
A
metà gennaio, all’ultimo Forum economico mondiale di Davos, c’era anche
il consigliere economico di Donald Trump, Anthony Scaramucci. E mentre
sulle Alpi svizzere rimbalzavano notizie confuse di top manager che si
affannavano a promettere di spostare le fabbriche in America e creare
posti di lavori nel Paese che ha annunciato una feroce crociata contro
la globalizzazione, un moderatore gli ha fatto la domanda più azzeccata.
Uffici de-umanizzati
“Scusi”,
ha chiesto a Scaramucci, “voi vi occupate del lavoro delocalizzato in
altri Paesi, ma cosa farà Donald Trump con i milioni di posti di lavoro
che spariranno nei prossimi anni in America per la digitalizzazione?”.
Imbarazzato silenzio.
Lo spettro
delle fabbriche e degli uffici de-umanizzati è antico anche
nell’economia più potente del mondo. Nel 1940, nel discorso dello Stato
dell’Unione, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt disse che
la disoccupazione ancora alle stelle - dopo il decennio della Grande
Depressione - era dovuta al fatto che “riusciamo a creare posti di
lavoro più lentamente di quanti l’innovazione ne faccia sparire”. Nei
decenni successivi, le paure di Roosevelt e le previsioni apocalittiche
dei più pessimisti non si sono mai avverate.
L’economia
è cambiata, l’industria e la finanza hanno continuato a garantire
milioni di posti di lavoro, e anche oggi, nel mezzo di una nuova
rivoluzione, quella tecnologica, non tutti concordano con una delle
stime più citate.
Due studiosi di
Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, hanno calcolato che nei
prossimi due decenni, il 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbe
essere spazzato via dai robot. E anche chi non concorda con questa
devastante previsione, ammette che ormai nessuno è al riparo dalla
digitalizzazione. Quella di pensare che il lavoro in fabbrica sia più a
rischio che quello alla scrivania è una pia illusione. Nell’elenco dei
mestieri che sono minacciati dall’automazione ce ne sono di
“insospettabili”: il farmacista, l’avvocato, il giornalista, il baby
sitter, il chirurgo, il soldato. Nessuno è al riparo.
Quanto
ai numeri complessivi, Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn
hanno curato uno studio per l’Ocse in cui arrivano a conclusioni molto
diverse da quelle dei colleghi di Oxford. Appena il 9% dei posti nei 21
Paesi più industrializzati al mondo sarebbe a rischio, con un picco del
12% in Austria e il record negativo in Corea (7%). L’Italia sarebbe
nella media: poco sotto il 10%. Ma l’aspetto interessante è che il loro
dato rispecchia una riflessione condivisibile: “il lavoro include sempre
una serie di compiti che sono difficili da automatizzare tutti”.
Inoltre i cambiamenti tecnologici “creano anche nuovi lavori, perché
nascono nuovi prodotti e servizi e perché le aziende diventano più
competitive e creano nuove tecnologie”.
Il caso tedesco
Un
esempio viene dalla Germania, che è fra i cinque Paesi che assorbono la
stragrande maggioranza, ossia il 70%, dei robot industriali al mondo
(gli altri sono la Cina, il Giappone, gli Usa e la Corea). La prima
economia europea è esemplare anche perché è trainata dall’industria
dell’automobile, che è anche quella che ha comprato il maggior numero di
macchine, al livello globale, tra il 2010 e il 2014, e ad un ritmo di
crescita da capogiro: in media +27% all’anno. Ma alla Daimler, negli
ultimi anni, il prevalere del modello Toyota, dell’automobile “on
demand”, ha costretto i manager ad un ripensamento. Le ordinazioni che
arrivano al colosso dell’automobile, sono le più bizzarre: Swarowski sui
fari o rifiniture speciali in oro o chissà. Così, nel tratto finale
della catena di montaggio delle Mercedes i robot sono stati sostituiti
degli operai. Per venire incontro alle richieste dei singoli clienti ci
vuole la mano dell’uomo. I robot non sono abbastanza flessibili.
Intelligenti, si potrebbe quasi dire.
La Grande Ristrutturazione
L’economia,
insomma, cambia e non imbocca mai una direzione sola. Nell’Ottocento
l’agricoltura dava lavoro all’80% degli americani; oggi è il 2%. Ed è
una rivoluzione che non ha provocato né pesti né carestìe, ma un mondo
nuovo. Però Eric Brynjolfson e Andrew McAfee, autori di “La nuova
rivoluzione delle macchine” (Feltrinelli), uno dei maggiori best seller
degli ultimi anni su come le tecnologie stanno ridisegnando il mondo,
avvertono: “la radice del nostro problema è che non siamo in una Grande
Recessione o una Grande Stagnazione, ma nella prima fase di una Grande
Ristrutturazione. Le tecnologie corrono e molti dei nostri lavori e
delle nostre organizzazioni restano indietro”. Per loro è “urgente” che
se ne discuta e che gli uomini “riconquistino la guida della corsa”.
Uno
dei problemi principali posto dalla scomparsa del lavoro è quello poco
discusso delle ripercussioni sociali. Richard Freeman, economista di
Harvard, parla del rischio di un “feudalesimo dell’età delle macchine”.
La robotizzazione, afferma non senza un’eco marxiana, “rischia di
dividere le società tra i proprietari dei robot da una parte e i
lavoratori dall’altra”.
Insomma,
“il maggiore rischio non è un futuro senza lavoro, bensì un futuro in
cui i salari saranno in calo o stagnanti (perché le macchine si
prenderanno la quota maggiore di lavori ad alta produttività) e la fetta
di guadagno che andrà ai proprietari, aumenterà”. La robotizzazione
rischia dunque di aumentare ulteriormente le diseguaglianze. E questo è
un problema centrale, che bisogna cominciare a porsi sin d’ora.(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
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