(Fonte: "Affari & Finanza")
Non è tanto una questione di costi, quanto di qualità della ricerca e di oggettività della selezione. Da settimane sulle riviste internazionali e sui canali dei social network dedicati alle risorse umane è aperto il dibattito sulla capacità degli algoritmi di sostituire l’attività tradizionalmente svolta dagli head hunter. Perché se i software sono da tempo ampiamente utilizzati nella selezione di profili impiegatizi, la situazione è ben diversa nel campo dell’executive search, date la delicatezza delle
mansioni da svolgere e le potenziali ricadute sul business aziendali.
“Do we still need head hunters?”, cioè Abbiamo ancora bisogno di cacciatori di teste? Si chiede su LinkedIn Daren Yoong, oggi relationship manager del social network, con un lungo
passato come head hunter. Partendo da una ricerca dell’Università di Harvard sulla disruption nel mercato della ricerca e selezione, l’esperto fa alcune annotazioni: molte aziende del settore sono specializzate su particolari funzioni o settori e inoltre il cacciatore di teste è un mestiere fatto di relazioni e di scambi di favori che rinsaldano relazioni, un approccio che rischia di annacquare la qualità del risultato.
Riflessioni in parte condivise da Pasquale Natella, amministratore delegato di Exs, società di executive selection di Gi Group. «Un algoritmo costruito su basi scientifiche rende la valutazione da
soggettiva (tratto caratteristico del lavoro dell’uomo) a oggettiva e consistente nel tempo, vale a dire con una capacità di apprendimento degli errori molto più rapida di quelli umani». In questo senso
si esprime anche una ricerca condotta dall’Università di Cambridge, che evidenzia come nella valutazione delle competenze soft anche un selezionatore esperto porti con sé una serie di potenziali trappole di valutazione, dettate dalle esperienze pregresse e delle convinzioni personali. L’algoritmo può aiutare a rende oggettiva la valutazione, ma per farlo è necessario anche che sia testato su un campione rappresentativo per la sua validazione. «Altrimenti - ricorda Natella - rischia solo di rendere le valutazioni omogenee».
Se un algoritmo soddisfa questi criteri, migliora la qualità e velocizza le attività, quindi riduce il tempo impiegato dal professionista e riduce i costi a carico dell’azienda. Anche se il budget di spesa non può essere il principale metro di valutazione. Del resto, le società che hanno budget contenuti, già da tempo puntano sul fai da te anche nella ricerca dei profili manageriali, confidando sull’ampia
disponibilità di informazioni presenti oggi sul Web. Ma assumendosi il rischio di una scelta non accurata.Gabriele Ghini, managing director di Transearch, diffida dell’uso estensivo dei software. «Se Zara può utilizzare processi standard e fortemente automatizzati, lo stesso non può funzionare quando si tratta di capi di haute couture. Lo stesso vale quando si confronta la selezione di middle management con l’executive search». Un parallelismo richiamato per rimarcare come nel secondo
ambito la professionalità ‘umana’ sia ancora in grado di fare la differenza. «Lavorando con soluzioni automatizzate si rischia di far emergere come ‘fenomeni’ persone brave solamente a valorizzarsi nello scrivere il proprio cv e non per le loro reali competenze. Abbiamo tutti sotto
gli occhi i danni causati da amministratori delegati non all’altezza. Affidare la selezione di questa tipologia di persone a un algoritmo rischia di provocare conseguenze economicamente devastanti».
Francesca Contardi, managing director di EasyHunters, ha una posizione intermedia. Riconosce l’importanza del filone di business noto come hr tech (2,4 miliardi di investimenti nel 2016) e ritiene che l’automazione abbia vantaggi innegabili, a cominciare «dalla velocità e facilità di estrarre e razionalizzare i dati». Il riferimento è in particolare agli algoritmi che, attraverso la ricerca semantica, permettono di razionalizzare i database di curriculum ed estrarre le informazioni necessarie da ogni candidato in modo automatico, anche quando non compaiono le parole chiave classiche. Anche se ricorda che la capacità di interpretare i dati resta decisiva.
Anche Stefano Giorgetti, amministratore delegato di Kelly Services Italia, vede nei software uno strumento di supporto al lavoro degli head hunter, ma vede limiti evidenti nella misura in cui non possono sostituire la sensibilità del professionista, «che conserva un valore insopprimibile nella selezione dei manager».
Piuttosto scettico si mostra Pierpaolo Dalzocchio, partner di Mid Up, che riconosce alla tecnologia un ruolo di supporto al lavoro dell’head hunting, ma sottolinea come per la ricerca di professionalità elevate sia fondamentale «la ricerca diretta in aziende target, spesso definite e concordate con il committente, e su persone talvolta ignote all’informatica e non necessariamente alla ricerca di un nuovo lavoro».
In definitiva si va profilando uno scenario in cui tendono a calare gli spazi di mercato per chi si occupa di executive search e anche i guadagni medi, ma con la professione che continuerà in ogni caso a esistere. A fare la differenza sarà la capacità di assicurare al tempo stesso la padronanza dei
nuovi strumenti offerti dalla tecnologia e l’abilità nel confidential search, quel delicato lavoro di individuare e contattare persone della concorrenza che richiede esperienza, sensibilità e un’ampia rete di contatti.
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
Non è tanto una questione di costi, quanto di qualità della ricerca e di oggettività della selezione. Da settimane sulle riviste internazionali e sui canali dei social network dedicati alle risorse umane è aperto il dibattito sulla capacità degli algoritmi di sostituire l’attività tradizionalmente svolta dagli head hunter. Perché se i software sono da tempo ampiamente utilizzati nella selezione di profili impiegatizi, la situazione è ben diversa nel campo dell’executive search, date la delicatezza delle
mansioni da svolgere e le potenziali ricadute sul business aziendali.
“Do we still need head hunters?”, cioè Abbiamo ancora bisogno di cacciatori di teste? Si chiede su LinkedIn Daren Yoong, oggi relationship manager del social network, con un lungo
passato come head hunter. Partendo da una ricerca dell’Università di Harvard sulla disruption nel mercato della ricerca e selezione, l’esperto fa alcune annotazioni: molte aziende del settore sono specializzate su particolari funzioni o settori e inoltre il cacciatore di teste è un mestiere fatto di relazioni e di scambi di favori che rinsaldano relazioni, un approccio che rischia di annacquare la qualità del risultato.
Riflessioni in parte condivise da Pasquale Natella, amministratore delegato di Exs, società di executive selection di Gi Group. «Un algoritmo costruito su basi scientifiche rende la valutazione da
soggettiva (tratto caratteristico del lavoro dell’uomo) a oggettiva e consistente nel tempo, vale a dire con una capacità di apprendimento degli errori molto più rapida di quelli umani». In questo senso
si esprime anche una ricerca condotta dall’Università di Cambridge, che evidenzia come nella valutazione delle competenze soft anche un selezionatore esperto porti con sé una serie di potenziali trappole di valutazione, dettate dalle esperienze pregresse e delle convinzioni personali. L’algoritmo può aiutare a rende oggettiva la valutazione, ma per farlo è necessario anche che sia testato su un campione rappresentativo per la sua validazione. «Altrimenti - ricorda Natella - rischia solo di rendere le valutazioni omogenee».
Se un algoritmo soddisfa questi criteri, migliora la qualità e velocizza le attività, quindi riduce il tempo impiegato dal professionista e riduce i costi a carico dell’azienda. Anche se il budget di spesa non può essere il principale metro di valutazione. Del resto, le società che hanno budget contenuti, già da tempo puntano sul fai da te anche nella ricerca dei profili manageriali, confidando sull’ampia
disponibilità di informazioni presenti oggi sul Web. Ma assumendosi il rischio di una scelta non accurata.Gabriele Ghini, managing director di Transearch, diffida dell’uso estensivo dei software. «Se Zara può utilizzare processi standard e fortemente automatizzati, lo stesso non può funzionare quando si tratta di capi di haute couture. Lo stesso vale quando si confronta la selezione di middle management con l’executive search». Un parallelismo richiamato per rimarcare come nel secondo
ambito la professionalità ‘umana’ sia ancora in grado di fare la differenza. «Lavorando con soluzioni automatizzate si rischia di far emergere come ‘fenomeni’ persone brave solamente a valorizzarsi nello scrivere il proprio cv e non per le loro reali competenze. Abbiamo tutti sotto
gli occhi i danni causati da amministratori delegati non all’altezza. Affidare la selezione di questa tipologia di persone a un algoritmo rischia di provocare conseguenze economicamente devastanti».
Francesca Contardi, managing director di EasyHunters, ha una posizione intermedia. Riconosce l’importanza del filone di business noto come hr tech (2,4 miliardi di investimenti nel 2016) e ritiene che l’automazione abbia vantaggi innegabili, a cominciare «dalla velocità e facilità di estrarre e razionalizzare i dati». Il riferimento è in particolare agli algoritmi che, attraverso la ricerca semantica, permettono di razionalizzare i database di curriculum ed estrarre le informazioni necessarie da ogni candidato in modo automatico, anche quando non compaiono le parole chiave classiche. Anche se ricorda che la capacità di interpretare i dati resta decisiva.
Anche Stefano Giorgetti, amministratore delegato di Kelly Services Italia, vede nei software uno strumento di supporto al lavoro degli head hunter, ma vede limiti evidenti nella misura in cui non possono sostituire la sensibilità del professionista, «che conserva un valore insopprimibile nella selezione dei manager».
Piuttosto scettico si mostra Pierpaolo Dalzocchio, partner di Mid Up, che riconosce alla tecnologia un ruolo di supporto al lavoro dell’head hunting, ma sottolinea come per la ricerca di professionalità elevate sia fondamentale «la ricerca diretta in aziende target, spesso definite e concordate con il committente, e su persone talvolta ignote all’informatica e non necessariamente alla ricerca di un nuovo lavoro».
In definitiva si va profilando uno scenario in cui tendono a calare gli spazi di mercato per chi si occupa di executive search e anche i guadagni medi, ma con la professione che continuerà in ogni caso a esistere. A fare la differenza sarà la capacità di assicurare al tempo stesso la padronanza dei
nuovi strumenti offerti dalla tecnologia e l’abilità nel confidential search, quel delicato lavoro di individuare e contattare persone della concorrenza che richiede esperienza, sensibilità e un’ampia rete di contatti.
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