(Fonte: "Il Sole 24 Ore")
Qual è dunque la differenza fra ieri e oggi? Essenzialmente la speranza di condizioni migliori per il domani, la ragionevole aspettativa, di ieri, che diventando molto bravi nel proprio campo con impegno e sacrifici, un futuro migliore potesse essere costruito. Ecco, è questa speranza che da qualche anno non c’è più, come anche la fiducia nel sistema e nella sua governance, che è stata, anche per colpa nostra, distrutta.
Non mi sembra utile e originale discutere ancora le cause che hanno portato a questa situazione. È forse di qualche interesse, invece, ipotizzare qualche soluzione, ammesso che alla mia generazione, in parte responsabile della situazione attuale, si possano riconoscere l’onestà intellettuale e il senso etico indispensabili per avanzare proposte.
Alcune proposte
La prima proposta è quella di passare dalla valutazione ex ante alla valutazione ex post. Mi pare che la ricerca di regole sempre più rigide per governare a monte le assunzioni si sia dimostrata fallimentare. Perché non ipotizzare, allora, maggiore libertà di scelta da parte dei responsabili dei gruppi di ricerca, coadiuvati da esperti di livello internazionale, nella selezione dei collaboratori dei diversi livelli e verificare poi, con rigore, se le scelte operate abbiano portato a un miglioramento delle performance del gruppo, laboratorio o istituzione?
La ricerca esasperata del “migliore” in assoluto è un esercizio sterile e fuorviante, se non si
definisce, a monte e di volta in volta, qual è il contesto e quali i parametri di valutazione. Migliori si è rispetto a bisogni, visioni, e progetti specifici. Auspico che, a fronte di obiettivi e parametri dichiarati ex ante, la scelta del candidato più meritevole venga lasciata ai responsabili dei gruppi in cui i candidati si propongono. Dopo un congruo periodo di tempo, i risultati di quelle scelte potranno essere valutati rigorosamente, penalizzando anche con severità i peggioramenti non giustificati e premiando i miglioramenti. Peggioramenti e miglioramenti vanno intesi, ancora una volta, rispetto
ad attese e obiettivi esplicitati ex ante.
Il concetto di “congruo periodo di tempo” mi sembra fondamentale: le Università dovrebbero avere lo scopo primario di aiutare a costruire il futuro del Paese, sia formando le nuove generazioni di cittadini, sia proponendo nuove strade di sviluppo. Nel Paese che è stato la culla della cultura classica e del Rinascimento questa formazione dovrebbe essere ampia, varia, multiculturale e flessibile, e non invece piegarsi solo ai dettami del successo immediato, il cosiddetto “shortermismo”, caratteristici della politica non lungimirante e di parte del mondo industriale.
Un approccio multidisciplinare, dunque, la costante ricerca di un linguaggio comune e una cultura del diverso che arricchisce e non spaventa, accompagnati da una ferma volontà di non accontentarsi di risposte semplici e immediate. Tutto ciò può essere perseguito solo attraverso nuove commistioni e ibridazioni tra il ragionamento logico-deduttivo e l’intuizione, tra la capacità di visione e l’approccio pragmatico, tra la misurazione del ponderabile e modellizzabile e lo studio dell’imponderabile e non modellizzabile, in cui gli incroci e le contaminazioni tra ricerca di base e ricerca applicata e tra scienze “dure” e “humanities”siano continuamente ricercati e incoraggiati.
Solo così sarà possibile formare specialisti che siano al contempo cittadini, artefici consapevoli del proprio destino, capaci di dare contributi preziosi alle comunità cui, con diversi ruoli, appartengono, di risolvere problemi complessi e di gestire la qualità della propria vita in una società in cui il soddisfacimento dei bisogni primari dovrà essere garantito per tutti.
Da un altro punto di vista, i compiti delle Università generaliste da un lato e delle Scuole Universitarie a Statuto Speciale dall’altro devono essere definiti e integrati in un progetto razionale, basato su due capisaldi. Il primo è quello della formazione disciplinare e della ricerca applicata guidata dal bisogno di trovare soluzioni efficaci a problemi immediati. Il secondo, fors’anche più importante, è quello della formazione, anche multidisciplinare, a porre nuove domande, a guardare trasversalmente i problemi e a immaginare nuovi scenari per il futuro di medio e lungo termine, cioè della cosiddetta ricerca curiosity driven. Anche in questo contesto le Scuole Universitarie a Statuto Speciale possono svolgere al meglio il loro compito di laboratori del futuro e di vocazione all’eccellenza, recuperando così anche il loro scopo istituzionale di formare le nuove classi dirigenti del Paese.
Ovviamente nessun serio miglioramento degli standard anche infrastrutturali può essere a costo zero; soprattutto, la gestione di formazione e ricerca deve essere flessibile e consentire di premiare anche economicamente le eccellenze. Dunque fiducia, flessibilità e controllo ex post.
La valutazione
Il tema della valutazione richiede attenzione, energia e un’attitudine critica e auto-critica. La
valutazione di grandi istituzioni e dei loro valori medi (che, ricordo, è il compito principale
dell’Anvur e della Vqr) non deve essere mai confuso con la valutazione dei singoli e dell’eccellenza. I metodi statistici e quantitativi, che possono essere utili nel primo caso, diventano aberrazioni nel secondo. In ogni caso va poi riconosciuto lo stesso principio evocato qui sopra a proposito della scelta dei candidati migliori: ogni disciplina va valutata iuxta propria principia. Una distinzione molto grossolana, per esempio, riguarda la differenza tra i cosiddetti settori bibliometrici e quelli non bibliometrici. Il tentativo maldestro di estendere ai secondi le tecniche e le caratteristiche dei primi mi sembra destinato a sicuro insuccesso. Non si vuol certo proporre di sostituire la valutazione con l’autoreferenzialità (come pure è avvenuto in passato) ma, piuttosto, di esercitare la
valutazione consapevoli che si tratta di un compito complesso che necessita di aggiustamenti
e flessibilità, senza fondamentalismi che propongano risposte automatiche, semplici e generali. È ben noto che i sistemi complessi non obbediscono a regole semplici se non, talvolta, per un numero di casi molto elevato e di variabili relativamente limitato. L’esatto contrario della valutazione dell’eccellenza dei singoli.
Nel mondo attuale, in costante e velocissimo cambiamento, il principale compito affidato alle persone della mia generazione è, credo, quello di creare le condizioni per le nuove generazioni di formarsi in maniera autonoma e flessibile, acquisendo una preparazione ampia e una mentalità aperta, che le renda capaci di affrontare problemi complessi in maniera innovativa, priva di compromessi e di pregiudizi. C’è dunque bisogno di un nuovo paradigma: un “nuovo rinascimento” capace di integrare il numero sempre crescente di risultati specialistici in una visione ampia e flessibile.
Anche se le nuove tecnologie e metodologie (robotica, big data, ecc.) possono svolgere un ruolo importante in questo contesto, non saranno certo loro a risolvere i complessi problemi sociali, economici, ambientali, scientifici e culturali che ci si parano dinanzi né tantomeno a delineare gli scenari filosofici e socio-politici del nostro futuro: a mio avviso questo ruolo sarà svolto non da chi accumulerà semplicemente più nozioni o tecnologie, ma di chi, sulla base di studi approfonditi, saprà immaginarlo con maggior forza e capacità di visione. Dunque il ruolo dell’Università è quello di formare i nuovi cittadini e le nuove classi dirigenti, promuovendo nuovi modi di immaginare e rapportarsi alle realtà presenti e future.
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Qual è dunque la differenza fra ieri e oggi? Essenzialmente la speranza di condizioni migliori per il domani, la ragionevole aspettativa, di ieri, che diventando molto bravi nel proprio campo con impegno e sacrifici, un futuro migliore potesse essere costruito. Ecco, è questa speranza che da qualche anno non c’è più, come anche la fiducia nel sistema e nella sua governance, che è stata, anche per colpa nostra, distrutta.
Non mi sembra utile e originale discutere ancora le cause che hanno portato a questa situazione. È forse di qualche interesse, invece, ipotizzare qualche soluzione, ammesso che alla mia generazione, in parte responsabile della situazione attuale, si possano riconoscere l’onestà intellettuale e il senso etico indispensabili per avanzare proposte.
Alcune proposte
La prima proposta è quella di passare dalla valutazione ex ante alla valutazione ex post. Mi pare che la ricerca di regole sempre più rigide per governare a monte le assunzioni si sia dimostrata fallimentare. Perché non ipotizzare, allora, maggiore libertà di scelta da parte dei responsabili dei gruppi di ricerca, coadiuvati da esperti di livello internazionale, nella selezione dei collaboratori dei diversi livelli e verificare poi, con rigore, se le scelte operate abbiano portato a un miglioramento delle performance del gruppo, laboratorio o istituzione?
La ricerca esasperata del “migliore” in assoluto è un esercizio sterile e fuorviante, se non si
definisce, a monte e di volta in volta, qual è il contesto e quali i parametri di valutazione. Migliori si è rispetto a bisogni, visioni, e progetti specifici. Auspico che, a fronte di obiettivi e parametri dichiarati ex ante, la scelta del candidato più meritevole venga lasciata ai responsabili dei gruppi in cui i candidati si propongono. Dopo un congruo periodo di tempo, i risultati di quelle scelte potranno essere valutati rigorosamente, penalizzando anche con severità i peggioramenti non giustificati e premiando i miglioramenti. Peggioramenti e miglioramenti vanno intesi, ancora una volta, rispetto
ad attese e obiettivi esplicitati ex ante.
Il concetto di “congruo periodo di tempo” mi sembra fondamentale: le Università dovrebbero avere lo scopo primario di aiutare a costruire il futuro del Paese, sia formando le nuove generazioni di cittadini, sia proponendo nuove strade di sviluppo. Nel Paese che è stato la culla della cultura classica e del Rinascimento questa formazione dovrebbe essere ampia, varia, multiculturale e flessibile, e non invece piegarsi solo ai dettami del successo immediato, il cosiddetto “shortermismo”, caratteristici della politica non lungimirante e di parte del mondo industriale.
Un approccio multidisciplinare, dunque, la costante ricerca di un linguaggio comune e una cultura del diverso che arricchisce e non spaventa, accompagnati da una ferma volontà di non accontentarsi di risposte semplici e immediate. Tutto ciò può essere perseguito solo attraverso nuove commistioni e ibridazioni tra il ragionamento logico-deduttivo e l’intuizione, tra la capacità di visione e l’approccio pragmatico, tra la misurazione del ponderabile e modellizzabile e lo studio dell’imponderabile e non modellizzabile, in cui gli incroci e le contaminazioni tra ricerca di base e ricerca applicata e tra scienze “dure” e “humanities”siano continuamente ricercati e incoraggiati.
Solo così sarà possibile formare specialisti che siano al contempo cittadini, artefici consapevoli del proprio destino, capaci di dare contributi preziosi alle comunità cui, con diversi ruoli, appartengono, di risolvere problemi complessi e di gestire la qualità della propria vita in una società in cui il soddisfacimento dei bisogni primari dovrà essere garantito per tutti.
Da un altro punto di vista, i compiti delle Università generaliste da un lato e delle Scuole Universitarie a Statuto Speciale dall’altro devono essere definiti e integrati in un progetto razionale, basato su due capisaldi. Il primo è quello della formazione disciplinare e della ricerca applicata guidata dal bisogno di trovare soluzioni efficaci a problemi immediati. Il secondo, fors’anche più importante, è quello della formazione, anche multidisciplinare, a porre nuove domande, a guardare trasversalmente i problemi e a immaginare nuovi scenari per il futuro di medio e lungo termine, cioè della cosiddetta ricerca curiosity driven. Anche in questo contesto le Scuole Universitarie a Statuto Speciale possono svolgere al meglio il loro compito di laboratori del futuro e di vocazione all’eccellenza, recuperando così anche il loro scopo istituzionale di formare le nuove classi dirigenti del Paese.
Ovviamente nessun serio miglioramento degli standard anche infrastrutturali può essere a costo zero; soprattutto, la gestione di formazione e ricerca deve essere flessibile e consentire di premiare anche economicamente le eccellenze. Dunque fiducia, flessibilità e controllo ex post.
La valutazione
Il tema della valutazione richiede attenzione, energia e un’attitudine critica e auto-critica. La
valutazione di grandi istituzioni e dei loro valori medi (che, ricordo, è il compito principale
dell’Anvur e della Vqr) non deve essere mai confuso con la valutazione dei singoli e dell’eccellenza. I metodi statistici e quantitativi, che possono essere utili nel primo caso, diventano aberrazioni nel secondo. In ogni caso va poi riconosciuto lo stesso principio evocato qui sopra a proposito della scelta dei candidati migliori: ogni disciplina va valutata iuxta propria principia. Una distinzione molto grossolana, per esempio, riguarda la differenza tra i cosiddetti settori bibliometrici e quelli non bibliometrici. Il tentativo maldestro di estendere ai secondi le tecniche e le caratteristiche dei primi mi sembra destinato a sicuro insuccesso. Non si vuol certo proporre di sostituire la valutazione con l’autoreferenzialità (come pure è avvenuto in passato) ma, piuttosto, di esercitare la
valutazione consapevoli che si tratta di un compito complesso che necessita di aggiustamenti
e flessibilità, senza fondamentalismi che propongano risposte automatiche, semplici e generali. È ben noto che i sistemi complessi non obbediscono a regole semplici se non, talvolta, per un numero di casi molto elevato e di variabili relativamente limitato. L’esatto contrario della valutazione dell’eccellenza dei singoli.
Nel mondo attuale, in costante e velocissimo cambiamento, il principale compito affidato alle persone della mia generazione è, credo, quello di creare le condizioni per le nuove generazioni di formarsi in maniera autonoma e flessibile, acquisendo una preparazione ampia e una mentalità aperta, che le renda capaci di affrontare problemi complessi in maniera innovativa, priva di compromessi e di pregiudizi. C’è dunque bisogno di un nuovo paradigma: un “nuovo rinascimento” capace di integrare il numero sempre crescente di risultati specialistici in una visione ampia e flessibile.
Anche se le nuove tecnologie e metodologie (robotica, big data, ecc.) possono svolgere un ruolo importante in questo contesto, non saranno certo loro a risolvere i complessi problemi sociali, economici, ambientali, scientifici e culturali che ci si parano dinanzi né tantomeno a delineare gli scenari filosofici e socio-politici del nostro futuro: a mio avviso questo ruolo sarà svolto non da chi accumulerà semplicemente più nozioni o tecnologie, ma di chi, sulla base di studi approfonditi, saprà immaginarlo con maggior forza e capacità di visione. Dunque il ruolo dell’Università è quello di formare i nuovi cittadini e le nuove classi dirigenti, promuovendo nuovi modi di immaginare e rapportarsi alle realtà presenti e future.
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