(Fonte: "Il Sole 24 Ore")
C’è un piccolo esercito - ancora invisibile – di lavoratori che scambia prestazioni professionali sulle piattaforme digitali. È la spallata finale della sharing economy alle agenzie di intermediazione?
Presto per dirlo. Certo è che il settore del recruiting sta vivendo una vera e propria rivoluzione.
Freelance, traduttori, informatici e creativi, ma anche artigiani ormai lavorano anche così: serve il
nuovo logo aziendale, una traduzione al volo, la verifica di una pagina di bilancio? Basta aprire un sito specializzato, inviare la richiesta, fissare il compenso e attendere che qualcuno nella folla dei lavoratori (da cui crowd work) risponda.
In alcuni casi (...) si apre una vera e propria asta: solo il progetto migliore viene premiato e si aggiudica la ricompensa. Chi ci guadagna? Tutti: chi vince la competizione e di conseguenza la somma messa in palio; il committente che in modo rapido ottiene il lavoro richiesto; e infine il sito, che mette a disposizione la piattaforma di scambio, cui va solitamente una fee.
(...)
Numeri che inquadrino questa fetta di lavoro digitale (...) ancora non ci sono; tracce se ne scovano in una recente ricerca (fine 2017) compilata dagli accademici dell’Università dello Hertfordshire, in collaborazione con la Federazione per gli studi progressivi europei (Feps), Uni Europa e Ipsos Mori, racconta che il 22% della forza lavoro attiva in Italia ha riferito di avere svolto un lavoro di massa. Le stime hanno rilevato che 5,68 milioni di persone su sette paesi europei mappati potrebbero
guadagnare oltre la metà del loro reddito sulle piattaforme: oltre un milione di persone nel Regno Unito e in Germania e oltre due milioni di persone in Italia.
Si tratta di dati sovrastimati, secondo Antonio Aloisi ricercatore di Diritto del lavoro alla Bocconi,
che però raccontano di quanto il fenomeno stia prendendo piede anche in Italia assumendo il profilo quasi di un nuovo comparto.
«Le piattaforme che scambiano attività di concetto attirano principalmente due profili di lavoratori:
il lavoratore autonomo puro che si apre così a un mercato globale con infinite possibilità ma anche una tipologia di lavoratore più debole, magari espulso dal mercato, costretto a lavorare da remoto. Il terreno è ancora inesplorato. E, ammesso che ci siano rischi, bisogna attrezzarsi per governarli».
Potenzialità enormi dunque per questo segmento del lavoro digitale, «la cui forza – continua
Aloisi – si fonda sulla parcellizzazione: si affidano a una “folla” micro parti di un grande progetto,
una sorta di esternalizzazione globale, per poi tirare le fila laddove ha sede la mente».
Con le piattaforme cade il vincolo geografico, aggiunge Ivana Pais, professore associato di sociologia alla Cattolica di Milano, e i contesti economicamente più deprivati, dove anche il costo della vita è basso, possono guadagnare dal lavoro remoto. «Intravedo un rischio, quello cioè dello strapotere della piattaforma – aggiunge – in grado di distruggere con algoritmi sempre più sofisticati la reputazione dei lavoratori, scaricando i rischi su persone esposte al mercato senza alcuna tutela». Tuttavia il lavoro all’asta, secondo la sociologa, funziona perché «è praticato da professionisti che non ne fanno la loro prima attività. La retribuzione infatti non è la leva motivante. Vediamo impegnate nelle aste le comunità di creativi o quelle scientifiche che vivono la gara anche come sfida intellettuale».
(...)
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
C’è un piccolo esercito - ancora invisibile – di lavoratori che scambia prestazioni professionali sulle piattaforme digitali. È la spallata finale della sharing economy alle agenzie di intermediazione?
Presto per dirlo. Certo è che il settore del recruiting sta vivendo una vera e propria rivoluzione.
Freelance, traduttori, informatici e creativi, ma anche artigiani ormai lavorano anche così: serve il
nuovo logo aziendale, una traduzione al volo, la verifica di una pagina di bilancio? Basta aprire un sito specializzato, inviare la richiesta, fissare il compenso e attendere che qualcuno nella folla dei lavoratori (da cui crowd work) risponda.
In alcuni casi (...) si apre una vera e propria asta: solo il progetto migliore viene premiato e si aggiudica la ricompensa. Chi ci guadagna? Tutti: chi vince la competizione e di conseguenza la somma messa in palio; il committente che in modo rapido ottiene il lavoro richiesto; e infine il sito, che mette a disposizione la piattaforma di scambio, cui va solitamente una fee.
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Numeri che inquadrino questa fetta di lavoro digitale (...) ancora non ci sono; tracce se ne scovano in una recente ricerca (fine 2017) compilata dagli accademici dell’Università dello Hertfordshire, in collaborazione con la Federazione per gli studi progressivi europei (Feps), Uni Europa e Ipsos Mori, racconta che il 22% della forza lavoro attiva in Italia ha riferito di avere svolto un lavoro di massa. Le stime hanno rilevato che 5,68 milioni di persone su sette paesi europei mappati potrebbero
guadagnare oltre la metà del loro reddito sulle piattaforme: oltre un milione di persone nel Regno Unito e in Germania e oltre due milioni di persone in Italia.
Si tratta di dati sovrastimati, secondo Antonio Aloisi ricercatore di Diritto del lavoro alla Bocconi,
che però raccontano di quanto il fenomeno stia prendendo piede anche in Italia assumendo il profilo quasi di un nuovo comparto.
«Le piattaforme che scambiano attività di concetto attirano principalmente due profili di lavoratori:
il lavoratore autonomo puro che si apre così a un mercato globale con infinite possibilità ma anche una tipologia di lavoratore più debole, magari espulso dal mercato, costretto a lavorare da remoto. Il terreno è ancora inesplorato. E, ammesso che ci siano rischi, bisogna attrezzarsi per governarli».
Potenzialità enormi dunque per questo segmento del lavoro digitale, «la cui forza – continua
Aloisi – si fonda sulla parcellizzazione: si affidano a una “folla” micro parti di un grande progetto,
una sorta di esternalizzazione globale, per poi tirare le fila laddove ha sede la mente».
Con le piattaforme cade il vincolo geografico, aggiunge Ivana Pais, professore associato di sociologia alla Cattolica di Milano, e i contesti economicamente più deprivati, dove anche il costo della vita è basso, possono guadagnare dal lavoro remoto. «Intravedo un rischio, quello cioè dello strapotere della piattaforma – aggiunge – in grado di distruggere con algoritmi sempre più sofisticati la reputazione dei lavoratori, scaricando i rischi su persone esposte al mercato senza alcuna tutela». Tuttavia il lavoro all’asta, secondo la sociologa, funziona perché «è praticato da professionisti che non ne fanno la loro prima attività. La retribuzione infatti non è la leva motivante. Vediamo impegnate nelle aste le comunità di creativi o quelle scientifiche che vivono la gara anche come sfida intellettuale».
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