("Corriere Innovazione")
La ricetta per far decollare l’open innovation in Italia? L’abbiamo chiesta a chi il concetto l’ha ideato «quando ancora, se cercavi quei due termini su Google, comparivano solo duecento pagine e nessuna ne dava una definizione. Oggi cercando open innovation, Google estrae dal cappello
oltre 40 milioni di pagine».
Era il 2003 quando Henry Chesbrough, economista e docente alla University of California di Berkeley, pubblicò il primo saggio sul tema: Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology.
Ma cosa si prova a coniare un concetto da zero?
«Nulla di che — aggiunge —:l’open innovation esisteva già. Diverse società cercavano già all’esterno strumenti, competenze e soluzioni tecnologiche. Era solo arrivato il momento di definire e studiare il modello».
Qual è la sua definizione di «open innovation»?
«È un paradigma che afferma che le imprese possono e devono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche».
Insomma, un’idea di collaborazione all’interno di un mercato...
«Certo, la collaborazione delle imprese con altre aziende, centri di ricerca, università, start up».
Il concetto di «open innovation» è ormai diffuso e conosciuto, ma molti Paesi, tra cui l’Italia, sono
ancora indietro. Come incentivare le aziende a percorrerla?
«Costruendo relazioni tra impresa e università, come accade in Silicon Valley: da noi i professori devono lavorare un giorno alla settimana nelle aziende. Questo porta vantaggi a entrambe le parti: alle aziende, che possono attingere innovazione dalle facoltà e alle università, che hanno una visione chiara dei bisogni del mercato e possono così finanziare progetti di ricerca. Ma i governi qui giocano un ruolo fondamentale».
Quale?
«Dovrebbero supportare gli incarichi temporanei dei docenti nelle società e incoraggiare gli studenti
di master e Phd ad andare all’estero con borse di studio. Il governo cinese, per esempio, manda un anno a Berkeley i suoi migliori studenti e poi li fa tornare in Cina per riportare la conoscenza. Bisognerebbe poi favorire gli inviti internazionali nelle università, scambi di informazioni, studi e competenze.
Tekes, l’ente per l’innovazione della Finlandia, ha organizzato una conferenza a Berkeley e ha mandato 30 persone per condividere la conoscenza. Sono iniziativ e che non costano molto ma portano contatti e sviluppo. Ci vuole maggiore supporto pubblico, le aziende si stanno già muovendo, anche in Italia».
A chi si riferisce?
«Il Garwood center for corporate innovation, che dirigo, sta studiando il caso di Enel, un’azienda da
prendere come modello. Ma già nel 2006, a una conferenza sugli open business model che tenni a Firenze, società come Loccioni e Finmeccanica (oggi Leonardo, ndr)raccontarono esperienze di open innovation già avviate».
Il 90% delle realtà imprenditoriali italiane è costituito da piccole e medie imprese: è possibile
applicarel’innovazione aperta anche in questo ambito?
«Certo, funziona in qualsiasi tipo di economia. Al Garwood, per esempio, la stiamo sperimentando
su un villaggio rurale indiano di 8 mila abitanti. Alcune aziende vi hanno fatto piccoli investimenti
(per un totale di 5 milioni di dollari, ndr) per portare la rete e innovare produzioni agricole e tessili. Stiamo già vedendo i primi risultati: con la connessione e la conoscenza l’economia sta rapidamente crescendo».
Quali sono le nuove frontiere dell’«open innovation»?
«Sono due i maggiori cambiamenti in atto. I professionisti si stanno sempre più organizzando in network per collaborare tra loro e con le aziende. Le imprese, invece, si applicano sempre di più per
raggiungere risultati di sostenibilità e anche in questo caso a vincere è la collaborazione»
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
La ricetta per far decollare l’open innovation in Italia? L’abbiamo chiesta a chi il concetto l’ha ideato «quando ancora, se cercavi quei due termini su Google, comparivano solo duecento pagine e nessuna ne dava una definizione. Oggi cercando open innovation, Google estrae dal cappello
oltre 40 milioni di pagine».
Era il 2003 quando Henry Chesbrough, economista e docente alla University of California di Berkeley, pubblicò il primo saggio sul tema: Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology.
Ma cosa si prova a coniare un concetto da zero?
«Nulla di che — aggiunge —:l’open innovation esisteva già. Diverse società cercavano già all’esterno strumenti, competenze e soluzioni tecnologiche. Era solo arrivato il momento di definire e studiare il modello».
Qual è la sua definizione di «open innovation»?
«È un paradigma che afferma che le imprese possono e devono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche».
Insomma, un’idea di collaborazione all’interno di un mercato...
«Certo, la collaborazione delle imprese con altre aziende, centri di ricerca, università, start up».
Il concetto di «open innovation» è ormai diffuso e conosciuto, ma molti Paesi, tra cui l’Italia, sono
ancora indietro. Come incentivare le aziende a percorrerla?
«Costruendo relazioni tra impresa e università, come accade in Silicon Valley: da noi i professori devono lavorare un giorno alla settimana nelle aziende. Questo porta vantaggi a entrambe le parti: alle aziende, che possono attingere innovazione dalle facoltà e alle università, che hanno una visione chiara dei bisogni del mercato e possono così finanziare progetti di ricerca. Ma i governi qui giocano un ruolo fondamentale».
Quale?
«Dovrebbero supportare gli incarichi temporanei dei docenti nelle società e incoraggiare gli studenti
di master e Phd ad andare all’estero con borse di studio. Il governo cinese, per esempio, manda un anno a Berkeley i suoi migliori studenti e poi li fa tornare in Cina per riportare la conoscenza. Bisognerebbe poi favorire gli inviti internazionali nelle università, scambi di informazioni, studi e competenze.
Tekes, l’ente per l’innovazione della Finlandia, ha organizzato una conferenza a Berkeley e ha mandato 30 persone per condividere la conoscenza. Sono iniziativ e che non costano molto ma portano contatti e sviluppo. Ci vuole maggiore supporto pubblico, le aziende si stanno già muovendo, anche in Italia».
A chi si riferisce?
«Il Garwood center for corporate innovation, che dirigo, sta studiando il caso di Enel, un’azienda da
prendere come modello. Ma già nel 2006, a una conferenza sugli open business model che tenni a Firenze, società come Loccioni e Finmeccanica (oggi Leonardo, ndr)raccontarono esperienze di open innovation già avviate».
Il 90% delle realtà imprenditoriali italiane è costituito da piccole e medie imprese: è possibile
applicarel’innovazione aperta anche in questo ambito?
«Certo, funziona in qualsiasi tipo di economia. Al Garwood, per esempio, la stiamo sperimentando
su un villaggio rurale indiano di 8 mila abitanti. Alcune aziende vi hanno fatto piccoli investimenti
(per un totale di 5 milioni di dollari, ndr) per portare la rete e innovare produzioni agricole e tessili. Stiamo già vedendo i primi risultati: con la connessione e la conoscenza l’economia sta rapidamente crescendo».
Quali sono le nuove frontiere dell’«open innovation»?
«Sono due i maggiori cambiamenti in atto. I professionisti si stanno sempre più organizzando in network per collaborare tra loro e con le aziende. Le imprese, invece, si applicano sempre di più per
raggiungere risultati di sostenibilità e anche in questo caso a vincere è la collaborazione»
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