(Fonte: "Il Sole 24 Ore")
La pubblicazione lo scorso marzo, ad opera del ministero dell’Ambiente, della Strategia nazionale
per lo sviluppo sostenibile e la presentazione della stessa alle Nazioni Unite a luglio sono buone notizie. L’idea forza del corposo documento è la presa d’atto (finalmente!) dell’urgenza di affrontare e risolvere il trilemma politico che fino ad ora ha bloccato ogni seria discussione intorno al grande tema dello sviluppo sostenibile. Si tendeva a pensare, infatti, che non fosse possibile avviare il Paese
lungo un sentiero dove crescita economica, tutela ambientale, inclusione sociale fossero congiuntamente perseguibili. Due soli di questi tre obiettivi – si riteneva – si sarebbero tutt’al più potuti conseguire. Ebbene, la novità, non da poco, del Documento in questione è quella di riconoscere esplicitamente che così non è, perché con una strategia adeguata è possibile tenere in armonia i tre obiettivi. Il che è quanto già raccomandava l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, per dare risposta al “grido del pianeta” – per usare le parole di papa Francesco – che è diventato altrettanto forte di quello dei poveri e degli “scartati”.
Come fare per riuscire nell’impresa? Il Documento avanza una strategia che fa riferimento a cinque “P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership.
Partnership tra enti pubblici (in primis, il governo), mondo della business community ed Enti di terzo settore (Ets), come ora, dopo la recente pubblicazione del codice del terzo settore (2 agosto 2017), vengono denominate le organizzazioni della società civile (oltre trecentomila in Italia). Non è per caso che nei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite si parli molto di più che non in passato del ruolo e dell’azione della società civile organizzata. In buona sostanza, il senso della partnership è quello di dare concreta applicazione al principio di sussidiarietà circolare, articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, mercato, comunità. Giova non confondere quella circolare
con le sussidiarietà orizzontale e verticale. Mentre con queste due ultime si ha una cessione di quote di sovranità dallo Stato agli altri due soggetti del triangolo sociale, con la sussidiarietà circolare si realizza una condivisionedi quote di sovranità.
“Non faccia lo Stato ciò che meglio possono fare gli enti inferiori e i soggetti della società civile”, è lo slogan della sussidiarietà orizzontale (e di quella verticale); “Faccia lo Stato assieme alle imprese e agli Ets” è invece lo slogan della sussidiarietà circolare (gli italiani mai dovrebbero dimenticare che la nozione circolare di sussidiarietà venne elaborata e messa in pratica, dapprima in Toscana, all’epoca dell’Umanesimo civile nel XV secolo).
Perché – sorge spontanea la domanda – la partnership, cioè la progettualità organizzativa partecipata, è fattore di decisiva rilevanza ai fini della risoluzione del trilemma di cui sopra? Una prima ragione chiama in causa la conoscenza. Come noto, questa è di due tipi: codificata l’una, tacita l’altra. Ora, mentre per acquisire e diffondere la prima è sufficiente servirsi dei codici (o protocolli) in cui essa è incorporata, la conoscenza tacita si trasmette solo per via di prossimità in modo relazionale.
Se dunque nella Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile non vengono coinvolte tutte le classi di stakeholders per una carenza di partecipazione ai processi decisionali, è evidente che verrà a determinarsi una scarsità di tacit knowledge, con le conseguenze che si possono immaginare (si consideri che nelle condizioni odierne è la conoscenza tacita a fare aggio su quella codificata). Come spesso si legge, si dirà poi che i magri risultati conseguiti sul fronte dello sviluppo sostenibile sono da attribuirsi alla carenza di risorse o all’elefantiasi burocratica, ignorando la vera causa: la non volontà di siglare patti o stipulare alleanze tra enti pubblici, imprese, Ets. Per fare cosa? Primo, per fissare le regole del gioco, in particolare per definire le priorità degli interventi: quando le regole vengono fissate prescindendo dalle capacità effettive delle persone chiamate ad applicarle quasi mai i risultati sono soddisfacenti. Secondo, per decidere in merito ai modi di gestione dei progetti stabiliti.
Una seconda ragione che dice dell’importanza della partnership deriva dal fatto che in tutte le situazioni di interdipendenza, come sono quelle che concernono lo sviluppo sostenibile, sorge il problema del coordinamento delle decisioni prese dai vari attori. Come le scienze dell’organizzazione insegnano da tempo, il coordinamento richiede, per essere efficace, quella forma di comunanza che è propria delle azioni cooperative: ci si considera l’un l’altro come agenti internazionali e liberi di agire e, pertanto, capaci di accordarsi per un fine condiviso e di impegnarsi reciprocamente, rifiutando di porre in atto comportamenti opportunistici.
Quando un’azione, alla quale concorrono diverse azioni individuali, è comune occorre dare vita ad un’organizzazione speciale basata sull’autogoverno, che limiti il più possibile il principio di autorità a vantaggio del principio di ragionevolezza. L’istanza partecipativa non può dunque essere declinata dalle istituzioni come mera consultazione o concertazione di tipo “neo-corporativo”, e neppure come semplice informazione ai cittadini in forme top-down, tanto spesso attivate per giustificare decisioni già prese. Queste forme di coinvolgimento delle imprese e degli Ets – purtroppo ancora troppo praticate nel nostro Paese – ben poco hanno a che vedere con l’autentica partnership di cui parla il Documento.
In definitiva, è urgente che nel nostro Paese possa aprirsi una nuova stagione di dibattito pubblico in cui si chiarisca, una volta per tutte, che partnership non significa né consociativismo per conservare posizioni di rendita parassitaria, né assemblearismo, sul modello praticato dai movimenti sociali negli ultimi decenni; un modello quest’ultimo che, mentre non assicura una reale democraticità, si rivela inefficace come forma ordinaria di governo. Piuttosto, la partnership è l’unica via pervia per
accrescere il tasso di civilizzazione della nostra società. Quella della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile può costituire un’occasione preziosa e irripetibile a tale riguardo.
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
La pubblicazione lo scorso marzo, ad opera del ministero dell’Ambiente, della Strategia nazionale
per lo sviluppo sostenibile e la presentazione della stessa alle Nazioni Unite a luglio sono buone notizie. L’idea forza del corposo documento è la presa d’atto (finalmente!) dell’urgenza di affrontare e risolvere il trilemma politico che fino ad ora ha bloccato ogni seria discussione intorno al grande tema dello sviluppo sostenibile. Si tendeva a pensare, infatti, che non fosse possibile avviare il Paese
lungo un sentiero dove crescita economica, tutela ambientale, inclusione sociale fossero congiuntamente perseguibili. Due soli di questi tre obiettivi – si riteneva – si sarebbero tutt’al più potuti conseguire. Ebbene, la novità, non da poco, del Documento in questione è quella di riconoscere esplicitamente che così non è, perché con una strategia adeguata è possibile tenere in armonia i tre obiettivi. Il che è quanto già raccomandava l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, per dare risposta al “grido del pianeta” – per usare le parole di papa Francesco – che è diventato altrettanto forte di quello dei poveri e degli “scartati”.
Come fare per riuscire nell’impresa? Il Documento avanza una strategia che fa riferimento a cinque “P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership.
Partnership tra enti pubblici (in primis, il governo), mondo della business community ed Enti di terzo settore (Ets), come ora, dopo la recente pubblicazione del codice del terzo settore (2 agosto 2017), vengono denominate le organizzazioni della società civile (oltre trecentomila in Italia). Non è per caso che nei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite si parli molto di più che non in passato del ruolo e dell’azione della società civile organizzata. In buona sostanza, il senso della partnership è quello di dare concreta applicazione al principio di sussidiarietà circolare, articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, mercato, comunità. Giova non confondere quella circolare
con le sussidiarietà orizzontale e verticale. Mentre con queste due ultime si ha una cessione di quote di sovranità dallo Stato agli altri due soggetti del triangolo sociale, con la sussidiarietà circolare si realizza una condivisionedi quote di sovranità.
“Non faccia lo Stato ciò che meglio possono fare gli enti inferiori e i soggetti della società civile”, è lo slogan della sussidiarietà orizzontale (e di quella verticale); “Faccia lo Stato assieme alle imprese e agli Ets” è invece lo slogan della sussidiarietà circolare (gli italiani mai dovrebbero dimenticare che la nozione circolare di sussidiarietà venne elaborata e messa in pratica, dapprima in Toscana, all’epoca dell’Umanesimo civile nel XV secolo).
Perché – sorge spontanea la domanda – la partnership, cioè la progettualità organizzativa partecipata, è fattore di decisiva rilevanza ai fini della risoluzione del trilemma di cui sopra? Una prima ragione chiama in causa la conoscenza. Come noto, questa è di due tipi: codificata l’una, tacita l’altra. Ora, mentre per acquisire e diffondere la prima è sufficiente servirsi dei codici (o protocolli) in cui essa è incorporata, la conoscenza tacita si trasmette solo per via di prossimità in modo relazionale.
Se dunque nella Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile non vengono coinvolte tutte le classi di stakeholders per una carenza di partecipazione ai processi decisionali, è evidente che verrà a determinarsi una scarsità di tacit knowledge, con le conseguenze che si possono immaginare (si consideri che nelle condizioni odierne è la conoscenza tacita a fare aggio su quella codificata). Come spesso si legge, si dirà poi che i magri risultati conseguiti sul fronte dello sviluppo sostenibile sono da attribuirsi alla carenza di risorse o all’elefantiasi burocratica, ignorando la vera causa: la non volontà di siglare patti o stipulare alleanze tra enti pubblici, imprese, Ets. Per fare cosa? Primo, per fissare le regole del gioco, in particolare per definire le priorità degli interventi: quando le regole vengono fissate prescindendo dalle capacità effettive delle persone chiamate ad applicarle quasi mai i risultati sono soddisfacenti. Secondo, per decidere in merito ai modi di gestione dei progetti stabiliti.
Una seconda ragione che dice dell’importanza della partnership deriva dal fatto che in tutte le situazioni di interdipendenza, come sono quelle che concernono lo sviluppo sostenibile, sorge il problema del coordinamento delle decisioni prese dai vari attori. Come le scienze dell’organizzazione insegnano da tempo, il coordinamento richiede, per essere efficace, quella forma di comunanza che è propria delle azioni cooperative: ci si considera l’un l’altro come agenti internazionali e liberi di agire e, pertanto, capaci di accordarsi per un fine condiviso e di impegnarsi reciprocamente, rifiutando di porre in atto comportamenti opportunistici.
Quando un’azione, alla quale concorrono diverse azioni individuali, è comune occorre dare vita ad un’organizzazione speciale basata sull’autogoverno, che limiti il più possibile il principio di autorità a vantaggio del principio di ragionevolezza. L’istanza partecipativa non può dunque essere declinata dalle istituzioni come mera consultazione o concertazione di tipo “neo-corporativo”, e neppure come semplice informazione ai cittadini in forme top-down, tanto spesso attivate per giustificare decisioni già prese. Queste forme di coinvolgimento delle imprese e degli Ets – purtroppo ancora troppo praticate nel nostro Paese – ben poco hanno a che vedere con l’autentica partnership di cui parla il Documento.
In definitiva, è urgente che nel nostro Paese possa aprirsi una nuova stagione di dibattito pubblico in cui si chiarisca, una volta per tutte, che partnership non significa né consociativismo per conservare posizioni di rendita parassitaria, né assemblearismo, sul modello praticato dai movimenti sociali negli ultimi decenni; un modello quest’ultimo che, mentre non assicura una reale democraticità, si rivela inefficace come forma ordinaria di governo. Piuttosto, la partnership è l’unica via pervia per
accrescere il tasso di civilizzazione della nostra società. Quella della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile può costituire un’occasione preziosa e irripetibile a tale riguardo.
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