(Fonte: "Il Corriere della Sera")
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Laurearsi conviene
Presentarsi sul mercato del lavoro con un
titolo in tasca conviene. Ancora, sempre: ci sono maggiori probabilità
di trovare lavoro, più velocemente e si guadagna di più («il 40% più di
chi è diplomato», ha commentato il presidente del Consorzio, Ivano
Dionigi). Però una laurea non assicura il posto fisso. E forse neanche
il «posto dei sogni». L’ultimo rapporto su «Profilo e condizione
occupazionale dei laureati» che il Consorzio Interuniversitario
AlmaLaurea ha presentato a Torino - alla presenza di Gaetano
Manfredi, rettore dell’Università Federico II di Napoli e di Gianmaria
Ajani, rettore dell’ateneo torinese - in occasione del Convegno
«Mutamenti strutturali, laureati e posti di lavoro», unisce a qualche
considerazione positiva sull’andamento delle immatricolazioni,
conclusioni sconfortanti per quanto riguarda gli sbocchi occupazionali.
Se infatti migliorano i tassi di occupazione misurati a un anno e a
cinque anni dalla laurea, sono anche in aumento i contratti «non
standard», mentre diminuisce il lavoro a tempo indeterminato. Le
retribuzioni restano sostanzialmente al palo: un anno dopo, 1.107 euro
per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali
biennali. «Ci sono più immatricolazioni e più occupazione, ma resta un
forte divario tra Nord e Sud del Paese ed è forte il problema delle
retribuzioni, tra le più basse dei Paesi Ocse», ha sottolineato
Manfredi. E il livello di «efficacia» del titolo, cioè la soddisfazione
per gli studi fatti «migliora, ma il dato resta basso per oltre la metà
dei laureati», dice Dionigi. Il voto oscilla tra il 7,3 degli avvocati e
l’8,3 dei dentisti.
L’università archivia la crisi
I due Rapporti - Profilo dei laureati e
Condizione occupazionale - hanno preso in esame rispettivamente 276mila
laureati di 74 università, nel 2017 (157mila di primo livello, 81mila
magistrali biennali e 36mila magistrali a ciclo unico) e 630mila
laureati di primo e secondo livello degli anni 2016, 2014 e 2012
contattati, rispettivamente, a uno, tre e cinque anni dal conseguimento
del titolo. Per quanto riguarda le immatricolazioni, una conferma: gli
atenei italiani stanno per mettersi alle spalle la crisi che ha visto
una contrazione del 14,1% dal 2003/04 al 2016/17: 50mila iscritti in
meno. Il Paese fatica quindi ad abbandonare il penultimo posto in Europa
per numero di laureati, ma inizia a risalire la china: dal 2014 si
registra una ripresa, che ha toccato il picco più alto nel 2016/17:
+7,7% di iscritti rispetto al 2013/14.
Studenti con la valigia
Ragazzi che «migrano» seguendo il corridoio
che va dal Sud Italia al Centro-Nord: uno su quattro, dal Sud Italia,
opta per atenei a latitudini più settentrionali. Mentre la quasi
totalità degli studenti del Nord rimane nella medesima area geografica.
Magari cambiando provincia: una «mobilità limitata» che riguarda quasi
metà delle matricole. La continua la migrazione dal Sud al Nord, secondo
Dionigi potrebbe essere definita «un bene», se non fosse che «non c’è
movimento inverso verso il Sud». A spostarsi - dice il rapporto - sono
più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più
elevato: il 36,1% di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha
almeno un genitore laureato, contro il 28,3% di chi è rimasto nella
medesima ripartizione geografica. Analoghe tendenze si rilevano
analizzando il percorso scolastico precedente: chi ha cambiato
ripartizione geografica per motivi di studio (o ha conseguito il diploma
all’estero) aveva ottenuto un voto medio di diploma 83,0/100 contro
80,8/100 di chi è rimasto nella medesima ripartizione geografica. A
spostarsi sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background
socio-culturale più elevato: il 36,1% di chi ha compiuto migrazioni di
lungo raggio ha almeno un genitore laureato. Poco propensi ad andare
all’estero per studiare, gli studenti italiani sono più inclini a
cercare lavoro fuori dai confini una volta conseguito il titolo. Facile
indovinare le ragioni: più opportunità e retribuzioni migliori. Nel
dettaglio, la disponibilità a lavorare in un altro Stato europeo è
dichiarata dal 48,4% dei laureati (era il 49,8% nel 2016 e il 38,5% nel
2007); il 33,7% è addirittura pronto a trasferirsi in un altro
continente. Si rileva una diffusa disponibilità ad effettuare trasferte
anche frequenti (27,3%), ma anche a trasferire la propria residenza
(50,8%). Solo il 2,8% non è disponibile a trasferte.
Pochi stranieri in Italia
Lo studio evidenzia una delle lacune del
nostro sistema: la bassa percentuale di studenti internazionali rispetto
a quelli italiani: il 3,5% (in tutto 9.532 laureati, nel 2017, negli
atenei che aderiscono al consorzio AlmaLaurea), con una punta del 4,6%
nei corsi magistrali biennali e con valori attorno al 3% tra i laureati
di primo livello (3,1%) e fra i magistrali a ciclo unico (2,5%). Una
quota molto modesta, cresciuta di un soffio negli ultimi dieci anni
(erano il 2,6% nel 2007). La maggior parte dei laureati stranieri
(57,1%) è arrivata in Italia dopo il diploma di scuola secondaria
superiore. Cresce però la quota di giovani stranieri che provengono da
famiglie già residenti in Italia. Per quanto riguarda la provenienza, il
52,1% dei laureati esteri proviene dall’Europa: il 12,9% è cittadino
albanese e l’11,2% rumeno. Il 24,3% proviene dall’Asia e dall’Oceania.
Nel dettaglio: il 9,2% dalla Cina (quota che è cresciuta notevolmente
negli ultimi anni: era il 2,9% nel 2009) e il 3,3% dall’Iran. Il 14,3%
proviene dal continente africano (specie dal Camerun, 4,4% e dai Paesi
del Maghreb, 3,8%) e un 9,4% dalle Americhe (in particolare dal Perù,
1,8%). I flussi di stranieri si indirizzano soprattutto verso specifici
ambiti disciplinari: linguistico, architettura, economico-statistico,
politico-sociale e ingegneria. All’opposto, in due gruppi disciplinari
(educazione fisica e psicologico) i laureati esteri sono meno del 2% del
totale. Secondo i dati Ocse, l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi
OCSE per attrattività del sistema universitario di secondo e terzo
livello: su cento studenti «mobili», 2,6 scelgono l’Italia. Il nostro
Paese è preceduto da Stati Uniti (26,3%), Regno Unito (15,0%), Francia
(10,5%), Germania (9,8%), Australia (8,3%), Giappone (2,9%) e Canada
(2,7%).
Il ruolo della famiglia
L’università italiana non funziona da
ascensore sociale: fra i laureati, infatti, si rileva una
sovra-rappresentazione dei giovani provenienti da ambienti familiari
favoriti dal punto di vista socio-culturale. I laureati con almeno un
genitore in possesso di un titolo universitario sono il 29,5%. E il
contesto culturale e sociale della famiglia influisce anche sulla scelta
del corso di laurea, con prevalenza di corsi di laurea magistrale a
ciclo unico tra i laureati provenienti da famiglie con livelli di
istruzione più elevati. Per quanto riguarda il background formativo dei
laureati del 2017, si registra una prevalenza dei diplomi liceali
(67,2%) e in particolare del diploma scientifico (43,9%) e classico
(16,3%), seguono con il 19,0% il diploma tecnico e il diploma
pedagogico-sociale (8,1%); residuale risulta l’incidenza dei diplomi
professionali (1,8%), dell’istruzione artistica (1,6%) e dei titoli
esteri (2,2%).
La carriera
L’età media alla laurea per il complesso
dei laureati del 2017 è pari a 26 anni (in calo rispetto alla situazione
pre-riforma). Migliora la regolarità negli studi: se nel 2007
concludeva gli studi in corso il 37,9% dei laureati, nel 2017 la
percentuale raggiunge il 51,1%. Dimezzati i fuoricorso (9,8%) rispetto a
dieci anni fa. Il voto medio di laurea è sostanzialmente immutato negli
ultimi anni ed è pari a 102,7 su 110.
Il tirocinio aiuta
L’11,1% dei laureati del 2017 ha fatto
esperienze di studio all’estero (era il 7,9% nel 2007). Programmi
Erasmus e altre esperienze riconosciute dal corso di studi, stage,
tirocini curricolari, lavoretti tra un esame e l’altro, oltre a
rappresentare esperienze positive (è il giudizio del 69,5%), aumentano
le chance di trovare lavoro. «Nello specifico - si legge nel rapporto -
le esperienze di studio all’estero con programmi europei aumentano le
chance occupazionali del 14,0%, i tirocini del 20,6% e aver lavorato
occasionalmente durante gli studi del 53%. Inoltre, trascorrere un
periodo di studio all’estero o svolgere un tirocinio curriculare, a
parità di condizioni, non solo non comporta ritardi nella conclusione
del percorso universitario, ma influenza positivamente la probabilità di
ottenere elevate votazioni alla laurea».
Contratti atipici
Le note più negative sono contenute nel
rapporto sulla Condizione occupazionale dei laureati: migliorano ancora i
tassi di occupazione sia un anno che a cinque anni dalla laurea (+2,9%
per i laureati di primo livello e +3,1% per i biennali). Non si è però
ancora colmata la contrazione tra il 2008 e il 2013 (-17,1% per i primi;
-10,8% per i secondi). Resta al palo la retribuzione: una volta trovato
lavoro, il salario mensile a un anno è, in media, 1.107 euro per i
laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali
biennali. A cinque anni, il tasso di occupazione è dell’87,8% tra i
laureati di primo livello e dell’87,3% tra i magistrali. Sono però in
aumento i contratti «non standard» o a tempo determinato (+8,1 punti per
i laureati di primo livello e +7,1 per quelli magistrali biennali),
mentre cala il lavoro a tempo indeterminato (rispettivamente, -12,4 e
-0,4 punti percentuali). Aumentano i giovani che si «inventano» un
lavoro autonomo, dopo una laurea di primo livello (+2,3 punti),
diminuiscono gli «autonomi» dopo il biennio magistrale (-1,7%). A cinque
anni dalla laurea, la retribuzione mensile netta è sostanzialmente
invariata rispetto allo scorso anno: 1.359 euro per i laureati di primo
livello e di 1.428 euro per i laureati magistrali biennali.
Contenti a metà
Luci e ombre anche sulla soddisfazione per
quello che si è studiato: se l’88% dei ragazzi si dice «complessivamente
soddisfatto» dell’esperienza universitaria, ci sono significativi
intervalli che differenziano gli atenei e le carriere. Solo il 69,1% dei
laureati, per esempio, sceglierebbe nuovamente lo stesso corso e lo
stesso ateneo. Solo la metà dei laureati occupati a un anno ritiene che
il loro titolo sia «molto efficace o efficace», ossia svolge
effettivamente una di quelle professioni previste dal corso di laurea.
Un giudizio che, complessivamente, sembrerebbe giocare a favore di un
intervento sui percorsi formativi da parte del nuovo esecutivo.
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