venerdì 3 novembre 2017

Ai tempi dei robot aumenta il valore del capitale umano

(Fonte: "Affari&Finanza")

Gli effetti diretti e collaterali dell’automazione industriale sul mondo del lavoro sono ancora tutti da scoprire. Le previsioni del futuro, tanto complicate quanto appassionanti, aiutano ad accendere di volta in volta il dibattito sul rapporto che lega l’evoluzione tecnologica delle imprese e il futuro
dell’occupazione, anche se non di rado  si  finisce a  discutere banalmente di più o meno lavoro, senza sviscerare a dovere tutti gli aspetti di una partita aperta a qualsiasi risultato finale. Un approccio problematico perché il paradigma dell’industria 4.0 è una di quelle declinazioni  dell’economia  digitale  che mettono in dubbio la sostenibilità degli attuali modelli occupazionali
e formativi.


La quarta rivoluzione industriale, ripetono continuamente esperti e ricercatori, si rivelerà e si sta già rivelando molto più rapida delle precedenti. La capacità di essere al passo con i tempi della trasformazione digitale è dunque una qualità decisiva, che il dibattito pubblico limita tuttavia  troppo  spesso  all’ambito strettamente  tecnologico.  L’introduzione  di  robot,  sensori  e  software nelle fabbriche è fondamentale per guadagnare efficienza, velocità e competitività, ma attenzione a
perdere di vista la partita del capitale umano. Una fabbrica connessa senza lavoratori digitali non ha futuro. A meno che non si voglia credere davvero a scenari fantascientifici di un lavoro destinato ad essere appannaggio  esclusivo  dei  robot, accompagnato da chissà quale sistema di welfare e reddito garantito per tutti.


La corsa agli investimenti attivata dal piano nazionale italiano per l’industria 4.0 ha purtroppo lasciato per strada e penalizzato mediaticamente l’ambito delle competenze  digitali.  Un’assenza  diventata evidente con il primo tagliando del piano Calenda, che ha spinto il Governo ad affidare al Miur e al ministero del Lavoro le chiavi della regia di quella che potremmo definire una fase due. A loro spetta ora l’arduo  compito  di  coinvolgere aziende, enti di categoria, scuole, università e centri di ricerca lungo la via italiana al lavoro 4.0. Capire assieme dove, come e quando indirizzare la formazione delle nuove generazioni e di quelle già in attività maggiormente esposte al rischio
di scomparsa o profonda trasformazione. Una sfida che non ammette errori.
I sindacati, le associazioni e le università  appaiono  comunque consapevoli di questo punto di svolta. Dalle loro audizioni per l’indagine della commissione Lavoro del Senato  sull’impatto  professionale dell’industry 4.0, è emerso un forte accento sulla necessità di immaginare un sistema  di educazione e formazione che “eviti il rischio di marginalizzazione dal mercato dovuto al divario tra velocità del cambiamento e velocità dell’apprendimento”. È necessario, sottolinea il documento finale, “orientare il sistema educativo non tanto verso i contingenti fabbisogni delle imprese, quanto verso la continua impiegabilità in un mercato del lavoro caratterizzato da mutazioni veloci e
imprevedibili”. I nodi da sciogliere sono  molti,  dalla  valorizzazione della formazione tecnica al ripensamento dei percorsi triennali, passando per il rapporto scuola-impresa. Ma il tempo a disposizione è poco. E più si aspetta, più si riducono i margini di manovra.


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