(Fonte: "L'Economia")
Lo smart working è una realtà ormai anche in Italia. Si stima riguardi 305 mila dipendenti, il 14% in più rispetto all’anno scorso, il 60% se ci si riferisce 2013, e che potenzialmente possa interessare 5 milioni di persone. Il freno al suo pieno sviluppo, oltre che dalla novità d’approccio che deve essere ancora assimilata, viene da una organizzazione del lavoro ancorata a vecchie logiche. L’adozione
di un modello meno legato alla presenza fisica potrebbe incrementare la produttività di ogni lavoratore del 15%, che a livello Paese corrisponderebbe a 13,7 miliardi di euro di benefici. Accanto a ciò è interessante aggiungere che una sola giornata alla settimana da remoto permetterebbe di risparmiare ogni anno 40 ore a testa per gli spostamenti portando con sé, oltre a una migliore qualità della vita, una riduzione di emissioni di 135 chilogrammi di anidride carbonica all’anno.
Sono questi i dati che emergono dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, tanto che in un passaggio del report si precisa in modo netto che,«considerando l’entità dei benefit a livello imprese,lavoratori e società ci si rende conto di come queste siano troppo importanti per potersi permettere di non sviluppare immediatamente un piano di intervento in grado di migliorare, accompagnare e incentivare un fenomeno che può dare slancio e utilità al Paese…». A oggi
sono però poche le realtà che ripensano i modelli di organizzazione del lavoro estendendo a tutti i lavoratori flessibilità autonomia e responsabilizzazione. Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio commenta: «Il rischio è di fermarsi al semplice lavoro a distanza e di considerarlo una sorta di “moda” limitata solo ad alcune categorie di lavoratori limitandone così i benefici. Paradossalmente lo smart working potrebbe essere proprio quello strumento che permetterebbe alle aziende di aggiornare il vecchio modello organizzativo sviluppando una cultura dell’orientamento
ai risultati e della fiducia favorendo l’empowerment dei collaboratori».
Ma c è un altro aspetto a cui prestare attenzione: lo smart working può diventare una leva di attrattività aziendale. A parità di posizione ricoperta solo l’1% degli smart workers è insoddisfatto sul lavoro contro il 17% di chi opera tradizionalmente; il 50% è molto contento di come può organizzare la sua attività rispetto al 22% di chi non lavora agilmente; il 34% ha un buon
rapporto con i colleghi e il capo contro il 16% di chi è soggetto a tempi e luoghi
rigidi. «Ricerche recenti hanno segnalano il fatto — commenta Corso — che
lo smart working diventa uno dei principali elementi di valore percepito utile sia in termini di selezione sia di retention per una ampia fascia di popolazione». Veniamo ora ai dati sull’applicazione rispetto ai contesti. Lo smart working riguarda oggi il 36% delle grandi imprese. Queste hanno sviluppato progetti strutturati intervenendo su almeno due leve: flessibilità di luogo, di orari, di ripensamento spazi, cultura orientata ai risultati, dotazione tecnologica. Solo in nove casi
su cento però l’introduzione del lavoro agile ha generato un ripensamento generale dell’organizzazione: sviluppo di nuovi strumenti e competenze digitali, modelli manageriali basati su autonomia e responsabilizzazione sui risultati.
Cresce l’interesse anche da parte delle pmi che sviluppano flessibilità nel 22% dei casi, nel 7% con iniziative strutturate anche se il 40% si dichiara non idoneo. È il caso soprattutto delle aziende del manifatturiero, delle costruzioni e del commercio. Prospettive interessanti sulla flessibilità arrivano per il mondo della pubblica amministrazione grazie alla riforma Madia, e se oggi i lavoratori agili sono presenti solo nel 5% degli enti, nel giro di tre anni dovrebbero essere coinvolti il 10%
dei dipendenti. Infine, una nota critica viene da Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio. «La capacità di utilizzo delle tecnologie tra i lavoratori è inadeguata. Oltreché sull’introduzione
degli strumenti digitali è fondamentale agire sullo sviluppo delle competenze. Come la capacità di ripensare prodotti, processi e attività lavorative utilizzando nuovi strumenti e canali digitali oltre che la capacità di collaborare in team virtuali, esercitando una nuova leadership»
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Lo smart working è una realtà ormai anche in Italia. Si stima riguardi 305 mila dipendenti, il 14% in più rispetto all’anno scorso, il 60% se ci si riferisce 2013, e che potenzialmente possa interessare 5 milioni di persone. Il freno al suo pieno sviluppo, oltre che dalla novità d’approccio che deve essere ancora assimilata, viene da una organizzazione del lavoro ancorata a vecchie logiche. L’adozione
di un modello meno legato alla presenza fisica potrebbe incrementare la produttività di ogni lavoratore del 15%, che a livello Paese corrisponderebbe a 13,7 miliardi di euro di benefici. Accanto a ciò è interessante aggiungere che una sola giornata alla settimana da remoto permetterebbe di risparmiare ogni anno 40 ore a testa per gli spostamenti portando con sé, oltre a una migliore qualità della vita, una riduzione di emissioni di 135 chilogrammi di anidride carbonica all’anno.
Sono questi i dati che emergono dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, tanto che in un passaggio del report si precisa in modo netto che,«considerando l’entità dei benefit a livello imprese,lavoratori e società ci si rende conto di come queste siano troppo importanti per potersi permettere di non sviluppare immediatamente un piano di intervento in grado di migliorare, accompagnare e incentivare un fenomeno che può dare slancio e utilità al Paese…». A oggi
sono però poche le realtà che ripensano i modelli di organizzazione del lavoro estendendo a tutti i lavoratori flessibilità autonomia e responsabilizzazione. Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio commenta: «Il rischio è di fermarsi al semplice lavoro a distanza e di considerarlo una sorta di “moda” limitata solo ad alcune categorie di lavoratori limitandone così i benefici. Paradossalmente lo smart working potrebbe essere proprio quello strumento che permetterebbe alle aziende di aggiornare il vecchio modello organizzativo sviluppando una cultura dell’orientamento
ai risultati e della fiducia favorendo l’empowerment dei collaboratori».
Ma c è un altro aspetto a cui prestare attenzione: lo smart working può diventare una leva di attrattività aziendale. A parità di posizione ricoperta solo l’1% degli smart workers è insoddisfatto sul lavoro contro il 17% di chi opera tradizionalmente; il 50% è molto contento di come può organizzare la sua attività rispetto al 22% di chi non lavora agilmente; il 34% ha un buon
rapporto con i colleghi e il capo contro il 16% di chi è soggetto a tempi e luoghi
rigidi. «Ricerche recenti hanno segnalano il fatto — commenta Corso — che
lo smart working diventa uno dei principali elementi di valore percepito utile sia in termini di selezione sia di retention per una ampia fascia di popolazione». Veniamo ora ai dati sull’applicazione rispetto ai contesti. Lo smart working riguarda oggi il 36% delle grandi imprese. Queste hanno sviluppato progetti strutturati intervenendo su almeno due leve: flessibilità di luogo, di orari, di ripensamento spazi, cultura orientata ai risultati, dotazione tecnologica. Solo in nove casi
su cento però l’introduzione del lavoro agile ha generato un ripensamento generale dell’organizzazione: sviluppo di nuovi strumenti e competenze digitali, modelli manageriali basati su autonomia e responsabilizzazione sui risultati.
Cresce l’interesse anche da parte delle pmi che sviluppano flessibilità nel 22% dei casi, nel 7% con iniziative strutturate anche se il 40% si dichiara non idoneo. È il caso soprattutto delle aziende del manifatturiero, delle costruzioni e del commercio. Prospettive interessanti sulla flessibilità arrivano per il mondo della pubblica amministrazione grazie alla riforma Madia, e se oggi i lavoratori agili sono presenti solo nel 5% degli enti, nel giro di tre anni dovrebbero essere coinvolti il 10%
dei dipendenti. Infine, una nota critica viene da Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio. «La capacità di utilizzo delle tecnologie tra i lavoratori è inadeguata. Oltreché sull’introduzione
degli strumenti digitali è fondamentale agire sullo sviluppo delle competenze. Come la capacità di ripensare prodotti, processi e attività lavorative utilizzando nuovi strumenti e canali digitali oltre che la capacità di collaborare in team virtuali, esercitando una nuova leadership»
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