(Fonte: "la Repubblica")
Un po' come la nazionale di calcio, gli studenti italiani naufragano sullka capacità di fare squadra. E perdono ai modniali di problem solving collettivo. L'indagine Ocse-Pisa, oltre a valutare le competenze dei 15enni in lettura, matematica e scienze, ha misurato la loro capacità di risolvere insieme problemi quotidiani. Ne usciamo male: siamo sotto la media Ocse, trentesimi su 51 Paesi. Svetta Singapore, seguito da Giappone, Hong Kong e Corea del Sud. Con 478 punti ( la media è 500) siamo dietro anche al Nord Europa, a Francia e Spagna. Ultima è la Tunisia a 382.
I nostri studenti al secondo anno delle superiori — 3.500 coinvolti nel rapporto — apprezzano la collaborazione a parole, ma faticano a metterla in pratica. Fortissimi nel risolvere i problemi da soli, al punto da risultare sopra la media nell’indagine 2012, crollano nel gioco di squadra: il 35% non raggiunge il livello minimo stabilito dall’Ocse, solo il 4,2% si colloca al livello avanzato. Il motivo? «La nostra scuola trascura questa competenza, importante nella vita e per quel che sarà chiesto nel mondo del lavoro. In altri Paesi la didattica è più basata sul lavoro di gruppo», osserva Laura Palmerio, responsabile Invalsi delle indagini internazionali. Le ragazze vanno meglio dei maschi ( 489 punti contro 466). E il Paese è spaccato in due: il Nordest traina con 516, il Sud e le Isole si fermano a 454. Ancora una volta, una scuola a due velocità.
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Un po' come la nazionale di calcio, gli studenti italiani naufragano sullka capacità di fare squadra. E perdono ai modniali di problem solving collettivo. L'indagine Ocse-Pisa, oltre a valutare le competenze dei 15enni in lettura, matematica e scienze, ha misurato la loro capacità di risolvere insieme problemi quotidiani. Ne usciamo male: siamo sotto la media Ocse, trentesimi su 51 Paesi. Svetta Singapore, seguito da Giappone, Hong Kong e Corea del Sud. Con 478 punti ( la media è 500) siamo dietro anche al Nord Europa, a Francia e Spagna. Ultima è la Tunisia a 382.
I nostri studenti al secondo anno delle superiori — 3.500 coinvolti nel rapporto — apprezzano la collaborazione a parole, ma faticano a metterla in pratica. Fortissimi nel risolvere i problemi da soli, al punto da risultare sopra la media nell’indagine 2012, crollano nel gioco di squadra: il 35% non raggiunge il livello minimo stabilito dall’Ocse, solo il 4,2% si colloca al livello avanzato. Il motivo? «La nostra scuola trascura questa competenza, importante nella vita e per quel che sarà chiesto nel mondo del lavoro. In altri Paesi la didattica è più basata sul lavoro di gruppo», osserva Laura Palmerio, responsabile Invalsi delle indagini internazionali. Le ragazze vanno meglio dei maschi ( 489 punti contro 466). E il Paese è spaccato in due: il Nordest traina con 516, il Sud e le Isole si fermano a 454. Ancora una volta, una scuola a due velocità.
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C’è un fraintendimento tra il lavorare in gruppo e lo stare bene in gruppo.
Non
serve andare in pizzeria insieme, ci sono gruppi che lavorano bene
senza rapporti amicali. Più che stare bene con gli
altri, è necessario lavorare insieme in modo efficiente e per farlo
serve prima di ogni altra cosa la condivisione del senso di
responsabilità. Ciascuno deve avere chiaro che il suo primo compito è
eseguire ciò che gli è stato chiesto, nel miglior modo possibile.
Poi, che si tratti di una classe a scuola, di una squadra, o
un’azienda, c’è il momento in cui ci si deve saper prendere una maggiore
responsabilità, come il giocatore che deve tirare se si trova libero
nella posizione migliore per tirare. Così, al contrario,
si deve accettare di lasciare spazio al compagno che è in condizioni
migliori, il che implica riconoscere che in quel momento c’è qualcuno
migliore di te. Chi conosce il valore del lavoro di gruppo sa accettare
le oservazioni positive nello stesso modo in
cui accetta le critiche.
Tutto
questo a noi italiani non viene facilissimo, non sono un sociologo e
non so spiegarne le ragioni, però mi sembra che
a tutti i livelli, dalla politica al vivere quotidiano, il concetto di
responsabilità non sia il nostro punto forte.
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Spesso nei ragazzi manca la capacità di lavorare
collettivamente su un progetto concreto. In generale vengono spronati
poco a scuola in questo senso, anche se le cose stanno lentamente
cambiando. (...) La chiave smbra che sia mettere le persone attorno a un progetto da realizzare. Può essere un robot programmabile, un videogame.
Siamo in una società connessa e oggi le aziende richiedono il saper lavorare con gli altri.
Insomma, a scuola forse dovrebbero insegnare che il compito in classe non solo va passato ma va soprattutto migliorato da
chi lo ha ricevuto.
Questi
risultati derivano da un impianto didattico metodologico del nostro
sistema educativo improntato su una scuola ottocentesca
e superata, che non prevede di sviluppare le capacità di lavorare in
gruppo. Mi riferisco soprattutto a quelle che chiamiamo, con un termine
inglese, soft skills e che sono la competenza di lavorare in gruppo,
sintetizzare i lavori di un gruppo, parlare in
pubblico, esporre le proprie idee in forma di dibattito. Non si tratta
di intervenire sul cosa fare a scuola ma su come farlo, su come è
possibile rendere più coinvolgente un certo argomento, come coinvolgere
gli alunni, come dare attuazione all’enorme creatività
dei nostri ragazzi. E intervenendo sul come, si interverrà sul cosa si
apprende. Ci sono già molte scuole che sperimentano modelli innovativi
ed è importante sostenerle per farle divenire sistema. Tutto questo non
può essere lasciato al caso, richiede un percorso
di formazione e un processo di profonda conoscenza di quello che si
intende fare, perché le improvvisazioni non pagano e possono portare a
risultati tutt’altro che postivi. I dirigenti scolastici dovrebbero
perciò favorire e assistere i docenti più dinamici,
che già attuano le sperimentazioni per sviluppare competenze
trasversali nei nostri alunni.
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