(Fonte: "Il Fatto")
Vive negli Usa da 50 anni, nella Silicon Valley, e ha innescato la rivoluzione tecnologica con le sue invenzioni: il primo circuito integrato a tecnologia Mos con porta al silicio, il primo microprocessore, il touch-pad. E il touch-screen, l’interfaccia più usata su tutti gli smartphone. Federico Faggin, il più eminente fisico italiano, celebrato nella Hall of Fame accanto a Enrico
Fermi e premiato dal presidente Obama con la National Medal of Technology, si sente però ancora italiano e ha tuttora una casa a Vicenza, la sua città natale. L’Economia lo ha incontrato a Genova in occasione della conferenza al Festival della Scienza, per rispondere alla questione centrale: «I robot del futuro: intelligenti e in grado di provare emozioni?» Non ci crede Faggin, è convinto che
le differenze tra l’uomo e le macchine siano incolmabili.
L’intelligenza artificiale dunque non ci sostituirà?
«Macché, è già in ritardo di parecchi decenni sulle promesse fatte. Alla fine degli anni ’50 Marvin Minsky e altri sostenevano che avremmo avuto nel giro di 30-40 anni macchine più intelligenti dell’uomo. Non è ancora successo».
Può risolvere solo problemi specifici?
«È così. Per battere il campione di Go occorre spendere milioni per realizzare un computer capace solo di giocare a Go. Se si chiede allo stesso computer di giocare a dama, non sa neanche da dove cominciare».
Eppure la capacità delle macchine di auto-apprendere è aumentata moltissimo, grazie alle reti neurali di cui lei è stato un pioniere...
«Le reti neurali sono state la soluzione che trent’anni fa quelli che lavorano nell’intelligenza artificiale avevano scartato, perché non credevano nell’autoapprendimento.
Oggi gli algoritmi che permettono il Deep Learning non sono molto diversi da quelli che usavamo negli anni ’80 alla Synaptics.
Ho fondato la società per creare chip capaci di imparare da soli, usando le reti neurali.
Poi mi ha raggiunto Carver Mead che ideava circuiti neuromorfici per la parte sensoriale. E nel giro di alcuni anni siamo riusciti a fare un chip per il riconoscimento dei caratteri che aveva dentro due reti neurali e un sensore di immagini. Abbiamo realizzato dei prodotti, ma non siamo riusciti a creare un’architettura generale che potesse essere applicata a qualsiasi problema di apprendimento.
E ancora nessuno l’ha fatto».
Dove sono allora i progressi?
«Nel calcolo parallelo che permette di fare centinaia di miliardi di operazioni al secondo, per risolvere problemi specifici in tempo reale. È migliorato anche il training delle reti neurali. Ma occorrono moltissimi esempi perché il computer arrivi a fare le giuste correlazioni: solo con un apprendimento supervisionato dall’uomo le reti neurali arrivano ad imparare bene».
Vuol dire che non c’è ragionamento?
«No. Ci sono voluti decenni per insegnare alle macchine il riconoscimento delle immagini, così facile per l’uomo. Oggi ci dicono che fra altri trent’anni ci saranno macchine capaci di acquisire l’esperienza e la consapevolezza umana. Io sostengo che non sarà mai possibile con un computer classico. Come minimo ci vorrà un computer quantico. Ma non sono nemmeno sicuro che si arriverà ad avere robot consapevoli con un computer quantico».
Perché?
«La coscienza è qualcosa che le macchine non hanno. Non parlo di morale, ma della consapevolezza necessaria per avere coscienza, per poter fare scelte giuste».
Da vent’anni si dedica allo studio scientifico della coscienza e per questo ha creato la sua Fondazione. Cosa ha scoperto?
« Verso la fine degli anni ’90 ho cominciato a studiare come poter fare un computer consapevole. Ma ho capito che era impossibile.
Sono convinto che la consapevolezza sia una proprietà fondamentale della natura, poiché le macchine hanno solo segnali elettrici».
Può spiegare con un esempio?
«Prendiamo una rosa: posso aver insegnato a un robot a riconoscere le molecole della rosa che finiscono sui suoi ricettori, creano segnali elettrici che vanno a finire in reti neurali, le quali hanno imparato che una certa combinazione di molecole corrisponde al profumo di una rosa. Alla fine il naso artificiale mi dice: rosa. Ma non ha mai sentito il profumo della rosa. Anche noi abbiamo
reti neurali nel nostro cervello, ma i segnali elettrici vengono trasformati in profumo. La rosa la conosciamo dai sensi: l’immagine visiva, la sensazione del profumo, il tatto. E questo genera emozioni, associazioni, ricordi. La rosa per noi è un’esperienza. Chi sostiene che si possono fare robot consapevoli non capisce la differenza che c'è tra segnali elettrici e sensazioni, emozioni, sentimenti. I computer non potranno mai avere coscienza perché manca questo passaggio fondamentale che è proprio degli esseri viventi. E non si può trasferire alle macchine. Un mucchio di bit, organizzati come si vuole, non è cosciente».
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
Vive negli Usa da 50 anni, nella Silicon Valley, e ha innescato la rivoluzione tecnologica con le sue invenzioni: il primo circuito integrato a tecnologia Mos con porta al silicio, il primo microprocessore, il touch-pad. E il touch-screen, l’interfaccia più usata su tutti gli smartphone. Federico Faggin, il più eminente fisico italiano, celebrato nella Hall of Fame accanto a Enrico
Fermi e premiato dal presidente Obama con la National Medal of Technology, si sente però ancora italiano e ha tuttora una casa a Vicenza, la sua città natale. L’Economia lo ha incontrato a Genova in occasione della conferenza al Festival della Scienza, per rispondere alla questione centrale: «I robot del futuro: intelligenti e in grado di provare emozioni?» Non ci crede Faggin, è convinto che
le differenze tra l’uomo e le macchine siano incolmabili.
L’intelligenza artificiale dunque non ci sostituirà?
«Macché, è già in ritardo di parecchi decenni sulle promesse fatte. Alla fine degli anni ’50 Marvin Minsky e altri sostenevano che avremmo avuto nel giro di 30-40 anni macchine più intelligenti dell’uomo. Non è ancora successo».
Può risolvere solo problemi specifici?
«È così. Per battere il campione di Go occorre spendere milioni per realizzare un computer capace solo di giocare a Go. Se si chiede allo stesso computer di giocare a dama, non sa neanche da dove cominciare».
Eppure la capacità delle macchine di auto-apprendere è aumentata moltissimo, grazie alle reti neurali di cui lei è stato un pioniere...
«Le reti neurali sono state la soluzione che trent’anni fa quelli che lavorano nell’intelligenza artificiale avevano scartato, perché non credevano nell’autoapprendimento.
Oggi gli algoritmi che permettono il Deep Learning non sono molto diversi da quelli che usavamo negli anni ’80 alla Synaptics.
Ho fondato la società per creare chip capaci di imparare da soli, usando le reti neurali.
Poi mi ha raggiunto Carver Mead che ideava circuiti neuromorfici per la parte sensoriale. E nel giro di alcuni anni siamo riusciti a fare un chip per il riconoscimento dei caratteri che aveva dentro due reti neurali e un sensore di immagini. Abbiamo realizzato dei prodotti, ma non siamo riusciti a creare un’architettura generale che potesse essere applicata a qualsiasi problema di apprendimento.
E ancora nessuno l’ha fatto».
Dove sono allora i progressi?
«Nel calcolo parallelo che permette di fare centinaia di miliardi di operazioni al secondo, per risolvere problemi specifici in tempo reale. È migliorato anche il training delle reti neurali. Ma occorrono moltissimi esempi perché il computer arrivi a fare le giuste correlazioni: solo con un apprendimento supervisionato dall’uomo le reti neurali arrivano ad imparare bene».
Vuol dire che non c’è ragionamento?
«No. Ci sono voluti decenni per insegnare alle macchine il riconoscimento delle immagini, così facile per l’uomo. Oggi ci dicono che fra altri trent’anni ci saranno macchine capaci di acquisire l’esperienza e la consapevolezza umana. Io sostengo che non sarà mai possibile con un computer classico. Come minimo ci vorrà un computer quantico. Ma non sono nemmeno sicuro che si arriverà ad avere robot consapevoli con un computer quantico».
Perché?
«La coscienza è qualcosa che le macchine non hanno. Non parlo di morale, ma della consapevolezza necessaria per avere coscienza, per poter fare scelte giuste».
Da vent’anni si dedica allo studio scientifico della coscienza e per questo ha creato la sua Fondazione. Cosa ha scoperto?
« Verso la fine degli anni ’90 ho cominciato a studiare come poter fare un computer consapevole. Ma ho capito che era impossibile.
Sono convinto che la consapevolezza sia una proprietà fondamentale della natura, poiché le macchine hanno solo segnali elettrici».
Può spiegare con un esempio?
«Prendiamo una rosa: posso aver insegnato a un robot a riconoscere le molecole della rosa che finiscono sui suoi ricettori, creano segnali elettrici che vanno a finire in reti neurali, le quali hanno imparato che una certa combinazione di molecole corrisponde al profumo di una rosa. Alla fine il naso artificiale mi dice: rosa. Ma non ha mai sentito il profumo della rosa. Anche noi abbiamo
reti neurali nel nostro cervello, ma i segnali elettrici vengono trasformati in profumo. La rosa la conosciamo dai sensi: l’immagine visiva, la sensazione del profumo, il tatto. E questo genera emozioni, associazioni, ricordi. La rosa per noi è un’esperienza. Chi sostiene che si possono fare robot consapevoli non capisce la differenza che c'è tra segnali elettrici e sensazioni, emozioni, sentimenti. I computer non potranno mai avere coscienza perché manca questo passaggio fondamentale che è proprio degli esseri viventi. E non si può trasferire alle macchine. Un mucchio di bit, organizzati come si vuole, non è cosciente».
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