(Fonte: "Affari&Finanza")
L’indice, che misura ogni anno la capacità di sviluppare, attirare e fidelizzare i talenti di 118 Paesi, è costruito dalla multinazionale di selezione del personale assieme ai centri di ricerca di Insead e Human Capital Leadership e ci vede per il 2017 al 40esimo scalino, lontani dai
Paesi europei di riferimento.
La Svizzera è al primo posto, Singapore al secondo, il Regno Unito, nonostante Brexit, si conferma al terzo. Danimarca, Finlandia, Norvegia, Olanda e Irlanda sono tutte posizionate nelle dodici nazioni di testa. La Germania è sul gradino 17, la Francia sul 24. La Spagna, simile per Pil e peso
della crisi economica subita, ci precede di cinque postazioni e meglio ancora ha fatto il
Portogallo (31). Dopo di noi la Grecia, ferma al 43esimo posto, e tutto sommato posizionata meno peggio di quanto la debacle dei conti pubblici avrebbe fatto pensare. Ma ci superano anche la Costa Rica (39) e le Barbados (36) che, almeno a quanto valutano le ricerche, sembrano dare qualche speranza in più ai giovani talenti. Quello che pesa sul cattivo risultato dell’Italia è soprattutto l’incapacità del Paese di costruire accanto alle aziende e alle risorse un ambiente favorevole alla crescita di entrambi, in grado di promuovere la concorrenza, l’innovazione e l’esercizio delle attività.
Bocciato il Paese nel suo complesso, non vanno meglio le singole città . Lo stesso indice applicato alle aree urbane vede, fra le prime cinquanta mete preferite da professionisti e risorse, solo tre centri italiani: Bologna al 26esimo posto, Milano (31) e Torino (35).
Dunque non abbiamo eccellenze riconosciute: essere un Paese attrattivo vuol dire mettere assieme aspetti legati alla qualità della vita, alla forza economica positiva e alla visione di lungo periodo.
Un mix che nelle città di dimensioni medie sembra più facile da realizzare: Bologna, Milano e Torino, sono lontane dal gruppetto di testa (Copenaghen, Zurigo ed Helsinki, ma vengono comunque prima di importanti piazze del business internazionale come Dubai (36) o Shanghai.
Nella scelta fatta dai talenti sul luogo dove stabilirsi premia la qualità della vita, ma soprattutto la vitalità del territorio. Bologna, per esempio, grazie anche al supporto di una università di grande tradizione, è un territorio fertile per la nascita delle startup. Milano e Torino attraggono più di altri centri grazie agli investimenti finalizzati alla crescita.
In realtà “piccolo è bello” per certi aspetti aiuta, ma non può più bastare in un Paese
che non solo non premia la ricerca ( la percentuale di Pil dedicata resta ancorata all’1,38%
contro la media Ue del 2%) ma non è nemmeno disposto a retribuire bene i talenti in cerca
di realizzazione.
Dietro quel quarantesimo posto che ci esclude dalla fascia alta dell’attrattività vi è infatti anche un problema di compensi. Le retribuzioni, si sa, sono più alte nei Paesi dove c’è crescita e in Italia la crescita rimane al di sotto di quella messa a segno da altri partner europei. Per cui, selezionare una città o un’azienda italiana in media non paga.
A stilare una graduatoria, sotto questo aspetto, è l’indagine elaborata ogni anno dalla
società di consulenza americana Willis Towers Watson (“Global 50 Remuneration Planning”). A guardare la retribuzione annuale lorda delle prime venti economie europee, i manager italiani di medio livello sono posizionati al 14esimo posto, che scende al 17esimo se le entrate non vengono lette in termini nominali, ma di potere d’acquisto. Costo della vita e tassazione fanno la differenza. Ecco quindi, spiega il rapporto della Willis Towers, perché di fatto i 70 mila euro lordi medi annui guadagnati in Italia da un manager di profilo medio, alla fine si riducono alla soglia reale dei 43 mila.
Anche qui in testa, ancora una volta, è la Svizzera: un quadro che lavora nella Confederazione elvetica intasca circa 160 mila euro l’anno, il doppio di un collega italiano di pari livello, un dirigente fresco d’incarico parte dagli 85 mila. Certo anche lì, tasse e costo della vita accorceranno poi le distanze, ma non significativamente. Al netto della competitività del sistema Paese e del sistema educativo e al di fuori dagli investimenti e dal livello della tecnologia applicata su cosa
può contare l’Italia per attrarre talenti dall’esterno? Qualità della vita e bellezza dei luoghi,
troppo poco per motivare una scelta.
ManagerItalia ha sondato il problema chiedendo ai dirigenti italiani che lavorano
all’estero se i loro colleghi sarebbero disposti a trasferirsi da noi. Fra quelli che hanno dato il loro assenso il 90% ha legato la scelta al desiderio, fra altri motivi, di vivere in uno dei più bei Paesi del mondo, solo il 12% ha visto nell’Italia buone possibilità di crescita professionale. Fra le critiche
mosse con maggior frequenza al sistema, la tendenza al declino economico (98%), e il mondo del lavoro che non premia il merito (43%).
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
L’indice, che misura ogni anno la capacità di sviluppare, attirare e fidelizzare i talenti di 118 Paesi, è costruito dalla multinazionale di selezione del personale assieme ai centri di ricerca di Insead e Human Capital Leadership e ci vede per il 2017 al 40esimo scalino, lontani dai
Paesi europei di riferimento.
La Svizzera è al primo posto, Singapore al secondo, il Regno Unito, nonostante Brexit, si conferma al terzo. Danimarca, Finlandia, Norvegia, Olanda e Irlanda sono tutte posizionate nelle dodici nazioni di testa. La Germania è sul gradino 17, la Francia sul 24. La Spagna, simile per Pil e peso
della crisi economica subita, ci precede di cinque postazioni e meglio ancora ha fatto il
Portogallo (31). Dopo di noi la Grecia, ferma al 43esimo posto, e tutto sommato posizionata meno peggio di quanto la debacle dei conti pubblici avrebbe fatto pensare. Ma ci superano anche la Costa Rica (39) e le Barbados (36) che, almeno a quanto valutano le ricerche, sembrano dare qualche speranza in più ai giovani talenti. Quello che pesa sul cattivo risultato dell’Italia è soprattutto l’incapacità del Paese di costruire accanto alle aziende e alle risorse un ambiente favorevole alla crescita di entrambi, in grado di promuovere la concorrenza, l’innovazione e l’esercizio delle attività.
Bocciato il Paese nel suo complesso, non vanno meglio le singole città . Lo stesso indice applicato alle aree urbane vede, fra le prime cinquanta mete preferite da professionisti e risorse, solo tre centri italiani: Bologna al 26esimo posto, Milano (31) e Torino (35).
Dunque non abbiamo eccellenze riconosciute: essere un Paese attrattivo vuol dire mettere assieme aspetti legati alla qualità della vita, alla forza economica positiva e alla visione di lungo periodo.
Un mix che nelle città di dimensioni medie sembra più facile da realizzare: Bologna, Milano e Torino, sono lontane dal gruppetto di testa (Copenaghen, Zurigo ed Helsinki, ma vengono comunque prima di importanti piazze del business internazionale come Dubai (36) o Shanghai.
Nella scelta fatta dai talenti sul luogo dove stabilirsi premia la qualità della vita, ma soprattutto la vitalità del territorio. Bologna, per esempio, grazie anche al supporto di una università di grande tradizione, è un territorio fertile per la nascita delle startup. Milano e Torino attraggono più di altri centri grazie agli investimenti finalizzati alla crescita.
In realtà “piccolo è bello” per certi aspetti aiuta, ma non può più bastare in un Paese
che non solo non premia la ricerca ( la percentuale di Pil dedicata resta ancorata all’1,38%
contro la media Ue del 2%) ma non è nemmeno disposto a retribuire bene i talenti in cerca
di realizzazione.
Dietro quel quarantesimo posto che ci esclude dalla fascia alta dell’attrattività vi è infatti anche un problema di compensi. Le retribuzioni, si sa, sono più alte nei Paesi dove c’è crescita e in Italia la crescita rimane al di sotto di quella messa a segno da altri partner europei. Per cui, selezionare una città o un’azienda italiana in media non paga.
A stilare una graduatoria, sotto questo aspetto, è l’indagine elaborata ogni anno dalla
società di consulenza americana Willis Towers Watson (“Global 50 Remuneration Planning”). A guardare la retribuzione annuale lorda delle prime venti economie europee, i manager italiani di medio livello sono posizionati al 14esimo posto, che scende al 17esimo se le entrate non vengono lette in termini nominali, ma di potere d’acquisto. Costo della vita e tassazione fanno la differenza. Ecco quindi, spiega il rapporto della Willis Towers, perché di fatto i 70 mila euro lordi medi annui guadagnati in Italia da un manager di profilo medio, alla fine si riducono alla soglia reale dei 43 mila.
Anche qui in testa, ancora una volta, è la Svizzera: un quadro che lavora nella Confederazione elvetica intasca circa 160 mila euro l’anno, il doppio di un collega italiano di pari livello, un dirigente fresco d’incarico parte dagli 85 mila. Certo anche lì, tasse e costo della vita accorceranno poi le distanze, ma non significativamente. Al netto della competitività del sistema Paese e del sistema educativo e al di fuori dagli investimenti e dal livello della tecnologia applicata su cosa
può contare l’Italia per attrarre talenti dall’esterno? Qualità della vita e bellezza dei luoghi,
troppo poco per motivare una scelta.
ManagerItalia ha sondato il problema chiedendo ai dirigenti italiani che lavorano
all’estero se i loro colleghi sarebbero disposti a trasferirsi da noi. Fra quelli che hanno dato il loro assenso il 90% ha legato la scelta al desiderio, fra altri motivi, di vivere in uno dei più bei Paesi del mondo, solo il 12% ha visto nell’Italia buone possibilità di crescita professionale. Fra le critiche
mosse con maggior frequenza al sistema, la tendenza al declino economico (98%), e il mondo del lavoro che non premia il merito (43%).
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