(Fonte: "Il Corriere Economia")
Gli ultimi dati dell’indagine Excelsior, realizzata da Unioncamere in collaborazione con Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ci dicono che per il mese di aprile le aziende italiane hanno programmato 425 mila entrate di nuovi dipendenti, di cui un terzo rivolte ai giovani con meno di trent’anni. È un fabbisogno di forza lavoro che in circa il 20% dei casi, a detta delle imprese, è difficile da trovare. Nel segmento giovanile questo rischio di mancato incontro tra domanda e offerta sale al 30%. Il settore più esposto al «mismatch» è quello delle nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni, cioè quello più strettamente legato a Industria 4.0.
La situazione è paradossale. Da una parte si cerca di favorire e accelerare la digitalizzazione del sistema produttivo, con un ambizioso piano ad hoc finalizzato a proiettare le aziende verso la quarta rivoluzione industriale, dall’altra mancano le competenze necessarie per dare linfa vitale a quel piano. Per superare questo paradosso l’ultima legge di bilancio ha introdotto un’agevolazione fiscale volta a sostenere le imprese che fanno formazione sulle professioni di Industria 4.0.
L’iniziativa è lodevole, ma non basta.
In Italia su 100 persone in cerca di lavoro solo 8 fanno formazione professionale, contro le 11 della Francia e le 24 della Germania. È il riflesso di una spesa per la formazione professionale che in Italia, in percentuale sul Pil, è inferiore a quella dei principali partner europei.
Tale scarto risulta più marcato se rapportiamo le risorse al numero complessivo dei partecipanti alle attività di formazione: 3.500 euro per partecipante in Italia, contro i 6.200 della Germania e i 15.000 della Francia.
I bassi costi per partecipante segnalano un altro nodo: il deficit qualitativo dell’offerta formativa nel nostro Paese, schiacciata su competenze di base e su professioni tradizionali, poco specializzate, scarsamente innovative.
In Italia la formazione professionale viene svolta attraverso canali distinti. C’è il canale autofinanziato da imprese e lavoratori dei Fondi interprofessionali, che vanno a sostenere la formazione continua, rivolta agli occupati. Parliamo di circa 500 milioni di euro l’anno.
Un sistema più attento alle nuove competenze, che andrebbe potenziato e liberato da molte pastoie burocratiche. Ma anche dal peso della formazione obbligatoria. La tematica che coinvolge il maggior numero di lavoratori è ancora oggi «salute e sicurezza sul lavoro».
C’è il canale della Iefp, l’istruzione e formazione professionale, rivolto ai giovani e gestito dalle Regioni. Gode di finanziamenti sia nazionali sia comunitari, in particolare grazie al Fondo sociale europeo. Nel 2015 l’ammontare è stato di 700 milioni di euro. Qui si trovano splendide realtà innovative ma anche molte situazioni in cui permane un forte scollamento con le nuove tecnologie. Basti osservare che la quota maggiore di iscritti riguarda la figura professionale dell’operatore della ristorazione.
L’allargamento della forbice tra innovazione e conservazione si manifesta con più nettezza se andiamo a vedere le differenze territoriali. Nella Provincia autonoma di Trento la percentuale di iscritti a corsi per cameriere è il 18% sul totale, in Sicilia è quasi il 40%, in Campania il 57% per cento.
Qualche anno fa, nel 2015, fecero scalpore le parole del presidente della Sezione giurisdizionale siciliana della Corte dei Conti. Il magistrato indicò la formazione professionale come un settore a finalità «parassistenziale», cioè rivolto non tanto ad accrescere le competenze e l’occupabilità dei lavoratori quanto a finanziare gli enti di formazione.
In Sicilia nel 2007-13 il Fondo sociale europeo e il cofinanziamento nazionale hanno messo a disposizione 2,1 miliardi di euro, destinati in parte considerevole alla formazione professionale. Non è dato sapere quali siano stati gli effetti di questo fiume di denaro sul piano della innovazione del tessuto produttivo dell’isola. Per il periodo 2014-20, l’Europa ha ridotto i fondi alla Sicilia a 820 milioni di euro.
Nonostante le minori risorse, a fine 2017 l’impegnato era il 13% e lo speso il 3%. Nello stesso periodo a Trento l’impegnato era il 44% e lo speso il 23%.
Non possiamo quindi adagiarci sullo stimolo che arriva da Industria 4.0. Occorre uno sforzo perché la formazione sia finalizzata a rinnovare le competenze professionali e sia valutata per i suoi effetti sul mercato del lavoro. Occorre ricostruire l’intera filiera della formazione tecnico-professionale, raccordandola alla domanda delle imprese e assicurando l’immediata conoscibilità dei fabbisogni formativi espressi in ogni parte del territorio del Paese.
Occorre un monitoraggio puntuale e omogeneo, che consenta di verificare l’impatto della formazione sulla crescita quantitativa e qualitativa del lavoro e di indirizzare la spesa dove serve davvero. Si è discusso fin troppo del lavoro che cambia, molto poco di come spendere i soldi per la formazione, condizione necessaria per farlo cambiare in meglio.
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Gli ultimi dati dell’indagine Excelsior, realizzata da Unioncamere in collaborazione con Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ci dicono che per il mese di aprile le aziende italiane hanno programmato 425 mila entrate di nuovi dipendenti, di cui un terzo rivolte ai giovani con meno di trent’anni. È un fabbisogno di forza lavoro che in circa il 20% dei casi, a detta delle imprese, è difficile da trovare. Nel segmento giovanile questo rischio di mancato incontro tra domanda e offerta sale al 30%. Il settore più esposto al «mismatch» è quello delle nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni, cioè quello più strettamente legato a Industria 4.0.
La situazione è paradossale. Da una parte si cerca di favorire e accelerare la digitalizzazione del sistema produttivo, con un ambizioso piano ad hoc finalizzato a proiettare le aziende verso la quarta rivoluzione industriale, dall’altra mancano le competenze necessarie per dare linfa vitale a quel piano. Per superare questo paradosso l’ultima legge di bilancio ha introdotto un’agevolazione fiscale volta a sostenere le imprese che fanno formazione sulle professioni di Industria 4.0.
L’iniziativa è lodevole, ma non basta.
In Italia su 100 persone in cerca di lavoro solo 8 fanno formazione professionale, contro le 11 della Francia e le 24 della Germania. È il riflesso di una spesa per la formazione professionale che in Italia, in percentuale sul Pil, è inferiore a quella dei principali partner europei.
Tale scarto risulta più marcato se rapportiamo le risorse al numero complessivo dei partecipanti alle attività di formazione: 3.500 euro per partecipante in Italia, contro i 6.200 della Germania e i 15.000 della Francia.
I bassi costi per partecipante segnalano un altro nodo: il deficit qualitativo dell’offerta formativa nel nostro Paese, schiacciata su competenze di base e su professioni tradizionali, poco specializzate, scarsamente innovative.
In Italia la formazione professionale viene svolta attraverso canali distinti. C’è il canale autofinanziato da imprese e lavoratori dei Fondi interprofessionali, che vanno a sostenere la formazione continua, rivolta agli occupati. Parliamo di circa 500 milioni di euro l’anno.
Un sistema più attento alle nuove competenze, che andrebbe potenziato e liberato da molte pastoie burocratiche. Ma anche dal peso della formazione obbligatoria. La tematica che coinvolge il maggior numero di lavoratori è ancora oggi «salute e sicurezza sul lavoro».
C’è il canale della Iefp, l’istruzione e formazione professionale, rivolto ai giovani e gestito dalle Regioni. Gode di finanziamenti sia nazionali sia comunitari, in particolare grazie al Fondo sociale europeo. Nel 2015 l’ammontare è stato di 700 milioni di euro. Qui si trovano splendide realtà innovative ma anche molte situazioni in cui permane un forte scollamento con le nuove tecnologie. Basti osservare che la quota maggiore di iscritti riguarda la figura professionale dell’operatore della ristorazione.
L’allargamento della forbice tra innovazione e conservazione si manifesta con più nettezza se andiamo a vedere le differenze territoriali. Nella Provincia autonoma di Trento la percentuale di iscritti a corsi per cameriere è il 18% sul totale, in Sicilia è quasi il 40%, in Campania il 57% per cento.
Qualche anno fa, nel 2015, fecero scalpore le parole del presidente della Sezione giurisdizionale siciliana della Corte dei Conti. Il magistrato indicò la formazione professionale come un settore a finalità «parassistenziale», cioè rivolto non tanto ad accrescere le competenze e l’occupabilità dei lavoratori quanto a finanziare gli enti di formazione.
In Sicilia nel 2007-13 il Fondo sociale europeo e il cofinanziamento nazionale hanno messo a disposizione 2,1 miliardi di euro, destinati in parte considerevole alla formazione professionale. Non è dato sapere quali siano stati gli effetti di questo fiume di denaro sul piano della innovazione del tessuto produttivo dell’isola. Per il periodo 2014-20, l’Europa ha ridotto i fondi alla Sicilia a 820 milioni di euro.
Nonostante le minori risorse, a fine 2017 l’impegnato era il 13% e lo speso il 3%. Nello stesso periodo a Trento l’impegnato era il 44% e lo speso il 23%.
Non possiamo quindi adagiarci sullo stimolo che arriva da Industria 4.0. Occorre uno sforzo perché la formazione sia finalizzata a rinnovare le competenze professionali e sia valutata per i suoi effetti sul mercato del lavoro. Occorre ricostruire l’intera filiera della formazione tecnico-professionale, raccordandola alla domanda delle imprese e assicurando l’immediata conoscibilità dei fabbisogni formativi espressi in ogni parte del territorio del Paese.
Occorre un monitoraggio puntuale e omogeneo, che consenta di verificare l’impatto della formazione sulla crescita quantitativa e qualitativa del lavoro e di indirizzare la spesa dove serve davvero. Si è discusso fin troppo del lavoro che cambia, molto poco di come spendere i soldi per la formazione, condizione necessaria per farlo cambiare in meglio.
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