(Fonte: "Affari&Finanza")
«I manager italiani hanno delle ottime qualità, molto apprezzate anche all’estero, ma hanno in genere un difetto congenito: fanno fatica a creare un team, sono troppo individualisti». Lamberto Biscarini è senior partner del Boston consulting Group (Bcg), una delle più grandi società di consulenza del mondo ed è responsabile Europa della divisione consumer. Quindi ha avuto e ha che fare con ogni genere di impresa consumer, dai beni di consumo, al retail, alla moda, al turismo. «Si tratta di uno dei settori più liberalizzati e competitivi», dice Biscarini.
Ingegner Biscarini, è questa della capacità di creare una squadra il difetto più grande del nostro middle management?
«È certo uno dei più rilevanti nel confronto con i manager stranieri. I nostri dirigenti sono spesso individualisti e quindi hanno uno stile di comando tendenzialmente accentratore. È un probabile effetto della cultura italiana.
Altrove, invece, la capacità di un manager si misura nella sua capacità di costruire un team che sappia lavorare con uno spirito di gruppo. Il che significa anche non aver paura di scegliere delle
persone molto in gamba. Ricordo che al mio primo impiego il capo il primo giorno mi disse che la cosa migliore che avrei potuto fare nella mia carriera era di assumere collaboratori migliori di me così come lui aveva fatto nella sua fino ad allora. Mi colpì molto».
Altri difetti?
«La scarsa esperienza internazionale. Nelle grandi aziende tedesche, francesi, inglese, c’è l’abitudine di far fare ai propri dirigenti un percorso di alcuni anni all’estero. In questi paesi, chi ha 35-40 anni ha già al proprio attivo vari anni fuori dal proprio paese».
Quali sono invece le migliori doti che lei riscontra nei manager del nostro paese?
«Tra le migliori caratteristiche c’è, più che altrove, uno spirito imprenditoriale. Il che significa
che questi uomini hanno il coraggio di prendere delle decisioni.
Sono inoltre pragmatici e flessibili, ovvero hanno la capacità di deviare dagli schemi senza farsi
troppi problemi. E queste sono qualità ben apprezzate all’estero».
Non c’è quindi un pregiudizio anti-italiano?
«Assolutamente no. L’italianità non è un problema, non ci sono pregiudizi. Soprattutto se sei
giovane e fai carriera all’estero non ci sono difficoltà. Il vero problema, in questo caso, è un altro».
Quale?
«È difficile farli tornare, questi giovani che dai 25 ai 30 vanno all’estero a fare i manager».
Perché?
«Ci sono due difficoltà: 1. Resta fra l’Italia e l’estero un gap retributivo. C’era già ai tempi di mio padre, e lui lavorava nell’industria; 2. La struttura produttiva italiana, fatta di piccole e medie imprese, dove le posizioni manageriali sono poche, non favorisce il ritorno».
Lei parla di giovani che vanno all’estero. Questo è ormai un fenomeno imponente: l’Italia deve preoccuparsi?
«No. La domanda deve andare dove c’è l’offerta. L’Europa viene spesso vista da una prospettiva
nazionalista ma la verità è che ormai esiste un mercato europeo.
Quindi è giusto che i giovani vadano dove ci sono prospettive. Negli Stati Uniti ci sono stati enormi
spostamenti da una parte all’altra del continente. E questo è stato benefico per l’economia Usa. Sarà così anche per l’Europa. Il problema non è l’uscita dei giovani ma, casomai, come rendere attraente il loro rientro».
Qualcuno dice che ci sono in Italia troppi laureati per il tipo di struttura imprenditoriale che abbiamo, basata sulle Pmi. Hanno ragione?
«Io penso che la cultura e la preparazione non siano mai troppe. Non credo che la struttura industriale italiana sia un limite per l’assorbimento dei laureati. Anche le piccole e medie imprese devono sempre di più competere in un ambiente internazionale dove servono persone con un bagaglio culturale elevato e una certa dose di savoir faire. La laurea è necessaria sebbene non sufficiente di per sé».
Quali sono le figure manageriali nuove che le imprese italiane fanno fatica a trovare?
«Soprattutto quelle legate alle nuove tecnologie, quindi agli analytics, al digital marketing, alla customer experience».
Se non si trovano, le imprese vanno a cercarle all’estero?
«Sì, di solito nel Nord Europa, in Gran Bretagna, in Francia».
Arrivano più dirigenti dall’estero in Italia?
«Se ne incontrano un po’ di più che in passato, ma non abbastanza. Occorrerebbe invece favorire questi arrivi perché aiuterebbero l’Italia a sprovincializzarsi».
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
«I manager italiani hanno delle ottime qualità, molto apprezzate anche all’estero, ma hanno in genere un difetto congenito: fanno fatica a creare un team, sono troppo individualisti». Lamberto Biscarini è senior partner del Boston consulting Group (Bcg), una delle più grandi società di consulenza del mondo ed è responsabile Europa della divisione consumer. Quindi ha avuto e ha che fare con ogni genere di impresa consumer, dai beni di consumo, al retail, alla moda, al turismo. «Si tratta di uno dei settori più liberalizzati e competitivi», dice Biscarini.
Ingegner Biscarini, è questa della capacità di creare una squadra il difetto più grande del nostro middle management?
«È certo uno dei più rilevanti nel confronto con i manager stranieri. I nostri dirigenti sono spesso individualisti e quindi hanno uno stile di comando tendenzialmente accentratore. È un probabile effetto della cultura italiana.
Altrove, invece, la capacità di un manager si misura nella sua capacità di costruire un team che sappia lavorare con uno spirito di gruppo. Il che significa anche non aver paura di scegliere delle
persone molto in gamba. Ricordo che al mio primo impiego il capo il primo giorno mi disse che la cosa migliore che avrei potuto fare nella mia carriera era di assumere collaboratori migliori di me così come lui aveva fatto nella sua fino ad allora. Mi colpì molto».
Altri difetti?
«La scarsa esperienza internazionale. Nelle grandi aziende tedesche, francesi, inglese, c’è l’abitudine di far fare ai propri dirigenti un percorso di alcuni anni all’estero. In questi paesi, chi ha 35-40 anni ha già al proprio attivo vari anni fuori dal proprio paese».
Quali sono invece le migliori doti che lei riscontra nei manager del nostro paese?
«Tra le migliori caratteristiche c’è, più che altrove, uno spirito imprenditoriale. Il che significa
che questi uomini hanno il coraggio di prendere delle decisioni.
Sono inoltre pragmatici e flessibili, ovvero hanno la capacità di deviare dagli schemi senza farsi
troppi problemi. E queste sono qualità ben apprezzate all’estero».
Non c’è quindi un pregiudizio anti-italiano?
«Assolutamente no. L’italianità non è un problema, non ci sono pregiudizi. Soprattutto se sei
giovane e fai carriera all’estero non ci sono difficoltà. Il vero problema, in questo caso, è un altro».
Quale?
«È difficile farli tornare, questi giovani che dai 25 ai 30 vanno all’estero a fare i manager».
Perché?
«Ci sono due difficoltà: 1. Resta fra l’Italia e l’estero un gap retributivo. C’era già ai tempi di mio padre, e lui lavorava nell’industria; 2. La struttura produttiva italiana, fatta di piccole e medie imprese, dove le posizioni manageriali sono poche, non favorisce il ritorno».
Lei parla di giovani che vanno all’estero. Questo è ormai un fenomeno imponente: l’Italia deve preoccuparsi?
«No. La domanda deve andare dove c’è l’offerta. L’Europa viene spesso vista da una prospettiva
nazionalista ma la verità è che ormai esiste un mercato europeo.
Quindi è giusto che i giovani vadano dove ci sono prospettive. Negli Stati Uniti ci sono stati enormi
spostamenti da una parte all’altra del continente. E questo è stato benefico per l’economia Usa. Sarà così anche per l’Europa. Il problema non è l’uscita dei giovani ma, casomai, come rendere attraente il loro rientro».
Qualcuno dice che ci sono in Italia troppi laureati per il tipo di struttura imprenditoriale che abbiamo, basata sulle Pmi. Hanno ragione?
«Io penso che la cultura e la preparazione non siano mai troppe. Non credo che la struttura industriale italiana sia un limite per l’assorbimento dei laureati. Anche le piccole e medie imprese devono sempre di più competere in un ambiente internazionale dove servono persone con un bagaglio culturale elevato e una certa dose di savoir faire. La laurea è necessaria sebbene non sufficiente di per sé».
Quali sono le figure manageriali nuove che le imprese italiane fanno fatica a trovare?
«Soprattutto quelle legate alle nuove tecnologie, quindi agli analytics, al digital marketing, alla customer experience».
Se non si trovano, le imprese vanno a cercarle all’estero?
«Sì, di solito nel Nord Europa, in Gran Bretagna, in Francia».
Arrivano più dirigenti dall’estero in Italia?
«Se ne incontrano un po’ di più che in passato, ma non abbastanza. Occorrerebbe invece favorire questi arrivi perché aiuterebbero l’Italia a sprovincializzarsi».
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