(Fonte: "Corriere della Sera Economia")
Produttività. Gira e rigira, il problema sta tutto qui. La produttività dell’Italia non cresce. Anzi, per dirla tutta, addirittura scende: come ha spiegato l’Istat, nel 2016 la produttività dell’Italia è diminuita dello 0,4%. Complessivamente nel periodo 1995-2016 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%. Troppo poco. Come ci ricordano i risultati raggiunti nello stesso periodo dagli altri Paesi europei: più 1,5% in Germania, più 1,4% in Francia, più 1,5% nel Regno Unito. Al nostro passo , nelle retrovie, c’è soltanto la Spagna che comunque fa meglio di noi: più 0,5%.
Cosa non va? Che cosa si è inceppato, già alla fine degli Anni 90, nella macchina Italia? A questa domanda da un milione di dollari cerca risposta il rapporto del McKinsey global institute «Risolvere il puzzle della produttività: il ruolo della domanda e la promessa della digitalizzazione». Già dal titolo si capisce quale è il ricostituente che potrebbe farci ripartire di slancio: la digitalizzazione della produzione. Per McKinsey nelle economie sviluppate nei prossimi dieci anni la produttività ha un potenziale di crescita medio annuo del 2%, purché si sfrutti al massimo l’ abbrivio della digitalizzazione e si promuova la domanda.
La ricetta
Insomma, c’è un treno da prendere e il capostazione sta per fischiare la partenza. Per comprendere il
ragionamento di McKinsey, bisogna partire dai fondamentali scritti sui manuali di economia. E ricordare che la produttività del lavoro è il rapporto tra il valore aggiunto prodotto e le ore lavorate. In altre parole: la quantità di prodotto per ora lavorata. Viene da sé che, a parità di valore aggiunto, la diminuzione delle ore lavorate favorisce l’aumento della produttività. Bene: in Italia dal 2010 al 2016 le ore lavorate sono diminuite. Ma questo non è bastato a compensare una diminuzione ancora maggiore del prodotto.
Morale: il tasso di crescita della produttività che sfiorava il 2% medio annuo in Italia nel periodo 1985-2005 è sceso fino ad attestarsi a crescita zero nel quinquennio 2010-2016.
Come spiegano i bigini di economia, la produttività del lavoro è influenzata da diversi fattori. Il primo è la qualità del lavoro: se a una saldatrice lavora un maestro d’asilo invece di un tecnico specializzato è chiaro che a parità di tempo si produrrà di meno. Poi c’è l’intensità di capitale: se per svuotare una piscina ho a disposizione un secchio impiegherò più tempo dei concorrenti che possono contare su un’idrovora. Certo l’impresa deve però investire in mezzi di produzione appropriati. Bene: in Italia nel periodo 2010-2013 il tasso di crescita dell’intensità di capitale è diventato negativo — meno 0,2% mentre la qualità del lavoro è rimasta sostanzialmente stabile. Secondo McKinsey, da qui in avanti aumentare gli investimenti vuol dire spendere in digitalizzazione. Anche perché — spiega il rapporto — l’Europa opera in media al 12% del suo potenziale di digitalizzazione mentre gli Usa sono un po’ più avanti di noi: 18%.
«Se il potenziale di crescita della produttività nei prossimi anni è del 2%, il 60%, quindi più della metà, dipende dalla capacità di digitalizzare i processi produttivi — spiega Massimo Giordano, managing partner area Mediterraneo di McKinsey —. Bisogna uscire dalla sindrome del “già lo facciamo” oppure “questo va bene in Cina, da noi no”. L’Italia è ancora molto indietro nella digitalizzazione. Pensiamo al retail: le vendite online cubano solo il 3% contro il 14% nel Regno
Unito».
Settori chiave
Ma non sarà che gli animal spirits degli imprenditori si sono fatti addomesticare? «Non direi —risponde Giordano —. Sono tanti i casi di start up di successo anche da noi. È vero che negli ultimi anni abbiamo assistito a un enorme calo degli investimenti. Ma l’eco-sistema intorno alle imprese non ha aiutato. Inoltre va sempre ricordato che la media non rende giustizia a un gruppo di imprese italiane all’avanguardia, che fanno della produttività e della qualità la loro forza». Secondo Giordano oggi il Paese dovrebbe ripartire da questa agenda: «Digitalizzare il settore pubblico, aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo di prodotti eservizi innovativi, portare il digitale nelle pmi, investire in infrastrutture digitali, sfruttare l’enorme potenziale dei dati che abbiamo cominciato a raccogliere tramite tecniche di advanced analytics». Una parte interessante dello
studio sottolinea la necessità, per aumentare la produttività, di intervenire sulla domanda. Bassa domanda significa minore stimolo a investire. I salari inchiodati all’origine della stagnazione della domanda, poi, «deprimono l’esigenza di sostituire il lavoro con il capitale», spiega lo studio. Fondamentale sarebbe una politica industriale in grado di favorire lo sviluppo in settori ad alto valore aggiunto e alta produttività. «Il percorso della digitalizzazione è avanzato in finanza, nell’Ict, nei media e nei servizi professionali, mentre è ancora molto indietro in ambiti come education, salute, costruzioni», fa il punto Giordano. Dove bisognerebbe investire allora? «Nell’automotive con elettrificazione, connettività, mobilità condivisa. Nella digitalizzazione dei processi produttivi
della finanza. Nel commercio, spostando l’attenzione su e-commerce e analisi dei dati. Ma anche nel turismo per quanto riguarda offerta condivisa, agenzie viaggio online, intercettazione flussi da Paesi emergenti». Insomma, nessun settore è escluso. E stavolta il futuro è già qui.
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Produttività. Gira e rigira, il problema sta tutto qui. La produttività dell’Italia non cresce. Anzi, per dirla tutta, addirittura scende: come ha spiegato l’Istat, nel 2016 la produttività dell’Italia è diminuita dello 0,4%. Complessivamente nel periodo 1995-2016 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%. Troppo poco. Come ci ricordano i risultati raggiunti nello stesso periodo dagli altri Paesi europei: più 1,5% in Germania, più 1,4% in Francia, più 1,5% nel Regno Unito. Al nostro passo , nelle retrovie, c’è soltanto la Spagna che comunque fa meglio di noi: più 0,5%.
Cosa non va? Che cosa si è inceppato, già alla fine degli Anni 90, nella macchina Italia? A questa domanda da un milione di dollari cerca risposta il rapporto del McKinsey global institute «Risolvere il puzzle della produttività: il ruolo della domanda e la promessa della digitalizzazione». Già dal titolo si capisce quale è il ricostituente che potrebbe farci ripartire di slancio: la digitalizzazione della produzione. Per McKinsey nelle economie sviluppate nei prossimi dieci anni la produttività ha un potenziale di crescita medio annuo del 2%, purché si sfrutti al massimo l’ abbrivio della digitalizzazione e si promuova la domanda.
La ricetta
Insomma, c’è un treno da prendere e il capostazione sta per fischiare la partenza. Per comprendere il
ragionamento di McKinsey, bisogna partire dai fondamentali scritti sui manuali di economia. E ricordare che la produttività del lavoro è il rapporto tra il valore aggiunto prodotto e le ore lavorate. In altre parole: la quantità di prodotto per ora lavorata. Viene da sé che, a parità di valore aggiunto, la diminuzione delle ore lavorate favorisce l’aumento della produttività. Bene: in Italia dal 2010 al 2016 le ore lavorate sono diminuite. Ma questo non è bastato a compensare una diminuzione ancora maggiore del prodotto.
Morale: il tasso di crescita della produttività che sfiorava il 2% medio annuo in Italia nel periodo 1985-2005 è sceso fino ad attestarsi a crescita zero nel quinquennio 2010-2016.
Come spiegano i bigini di economia, la produttività del lavoro è influenzata da diversi fattori. Il primo è la qualità del lavoro: se a una saldatrice lavora un maestro d’asilo invece di un tecnico specializzato è chiaro che a parità di tempo si produrrà di meno. Poi c’è l’intensità di capitale: se per svuotare una piscina ho a disposizione un secchio impiegherò più tempo dei concorrenti che possono contare su un’idrovora. Certo l’impresa deve però investire in mezzi di produzione appropriati. Bene: in Italia nel periodo 2010-2013 il tasso di crescita dell’intensità di capitale è diventato negativo — meno 0,2% mentre la qualità del lavoro è rimasta sostanzialmente stabile. Secondo McKinsey, da qui in avanti aumentare gli investimenti vuol dire spendere in digitalizzazione. Anche perché — spiega il rapporto — l’Europa opera in media al 12% del suo potenziale di digitalizzazione mentre gli Usa sono un po’ più avanti di noi: 18%.
«Se il potenziale di crescita della produttività nei prossimi anni è del 2%, il 60%, quindi più della metà, dipende dalla capacità di digitalizzare i processi produttivi — spiega Massimo Giordano, managing partner area Mediterraneo di McKinsey —. Bisogna uscire dalla sindrome del “già lo facciamo” oppure “questo va bene in Cina, da noi no”. L’Italia è ancora molto indietro nella digitalizzazione. Pensiamo al retail: le vendite online cubano solo il 3% contro il 14% nel Regno
Unito».
Settori chiave
Ma non sarà che gli animal spirits degli imprenditori si sono fatti addomesticare? «Non direi —risponde Giordano —. Sono tanti i casi di start up di successo anche da noi. È vero che negli ultimi anni abbiamo assistito a un enorme calo degli investimenti. Ma l’eco-sistema intorno alle imprese non ha aiutato. Inoltre va sempre ricordato che la media non rende giustizia a un gruppo di imprese italiane all’avanguardia, che fanno della produttività e della qualità la loro forza». Secondo Giordano oggi il Paese dovrebbe ripartire da questa agenda: «Digitalizzare il settore pubblico, aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo di prodotti eservizi innovativi, portare il digitale nelle pmi, investire in infrastrutture digitali, sfruttare l’enorme potenziale dei dati che abbiamo cominciato a raccogliere tramite tecniche di advanced analytics». Una parte interessante dello
studio sottolinea la necessità, per aumentare la produttività, di intervenire sulla domanda. Bassa domanda significa minore stimolo a investire. I salari inchiodati all’origine della stagnazione della domanda, poi, «deprimono l’esigenza di sostituire il lavoro con il capitale», spiega lo studio. Fondamentale sarebbe una politica industriale in grado di favorire lo sviluppo in settori ad alto valore aggiunto e alta produttività. «Il percorso della digitalizzazione è avanzato in finanza, nell’Ict, nei media e nei servizi professionali, mentre è ancora molto indietro in ambiti come education, salute, costruzioni», fa il punto Giordano. Dove bisognerebbe investire allora? «Nell’automotive con elettrificazione, connettività, mobilità condivisa. Nella digitalizzazione dei processi produttivi
della finanza. Nel commercio, spostando l’attenzione su e-commerce e analisi dei dati. Ma anche nel turismo per quanto riguarda offerta condivisa, agenzie viaggio online, intercettazione flussi da Paesi emergenti». Insomma, nessun settore è escluso. E stavolta il futuro è già qui.
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