(Fonte: "Affari&Finanza")
Il welfare aziendale migliora il clima nelle imprese. Il 47,7% dei lavoratori, segnala il report Censis-Eudaimon, è favorevole al welfare aziendale perché è convinto che migliori il clima in azienda e il 16,8% perché fa aumentare la produttività dei lavoratori. Quest’ultima non è certo una questione trascurabile per un Paese come il nostro che nelle ultime due decadi ha registrato un tasso di crescita della produttività marginale, con il risultato che le nostre aziende hanno perso sensibilmente competitività nello scacchiere dei mercati internazionali. Non è un caso se molte direzioni del personale mettono in campo iniziative ad hoc — da percorsi di formazioni a sessioni di team building — proprio con l’obiettivo di migliorare la soddisfazione dei dipendenti. Del resto, nell’era dell’economia della conoscenza, sono proprio le persone a fare la differenza, prima ancora delle tecnologie, in molti casi divenute di dominio comune.
L’effetto positivo sul clima aziendale è la ragione segnalata prevalentemente dai lavoratori che si dicono favorevoli, ma ancora una volta è più forte il consenso tra dirigenti e occupati con alti redditi rispetto a operai e lavoratori che percepiscono redditi più bassi.
Il welfare aziendale piace ma è ancora sconosciuto a troppi
Chi lo conosce, e non sono ancora molti, lo apprezza. Il welfare aziendale si fa strada anche in Italia, complici da una parte la progressiva riduzione dei servizi offerti dalla mano pubblica e dall’altro gli incentivi fiscali garantiti dal legislatore. Il tutto innestato in uno scenario di crescita lenta dopo la lunga stagione della recessione.
A fare luce sul settore è il primo rapporto targato Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon (società attiva nel settore) e con il contributo di Credem, Edison e Michelin. Quanto al livello di conoscenza piena dei lavoratori, relativamente alle misure
che rientrano in questo ambito, ammonta al 17,9%. Il 58,5% ha una conoscenza generica e il 23,6% non sa di cosa si tratta.
Tra coloro che esprimono una padronanza completa dell’argomento, il 58,7% ritiene che misure come polizze sanitarie, ore di permessi per assistere i genitori e sostegno allo studio dei figli offerti dal datore siano addirittura meglio degli aumenti retributivi di pari valore.
Mentre il 23,5% è contrario e il 17,8% non ha una opinione in merito. L’apprezzamento è sopra la media tra i dirigenti, i laureati e gli occupati con redditi elevati, mentre è su livelli inferiori tra operai e lavoratori con stipendi bassi.
Un risultato sorprendente se si considera che i benefici fiscali guardano soprattutto a chi non percepisce redditi elevati. Infatti, a partire dal 2016 è prevista un’imposta forfettaria al 10% sui premi di produzione fino a 2mila euro per i lavoratori con reddito sotto i 50mila euro lordi annui. Con l’aggiunta che, se si sceglie di convertire il premio in elementi di retribuzione non monetari, la
tassazione è zero. La Legge di Bilancio 2017 ha poi allargato il raggio d’azione, stabilendo
l’esenzione fiscale per i premi versati dal datore per finanziare terapie di lungo corso e malattie gravi dei dipendenti. E al contempo ha stabilito che queste spese non concorrono ai limiti di deducibilità per le spese sanitarie e i versamenti alla pensione integrativa.
In aggiunta, da quest’anno se l’azienda rimborsa il biglietto o l’abbonamento ai mezzi pubblici che il dipendente prende per raggiungere il posto di lavoro, la somma non concorre a formare il reddito di quest’ultimo.
Tornando all’accoglienza tiepida da parte di chi non percepisce stipendi elevati, la chiave di lettura potrebbe essere legata alla fame di reddito: negli ultimi anni gli stipendi sono rimasti sostanzialmente fermi e anche chi ha un contratto di lavoro da dipendente e una famiglia da mantenere sempre più spesso fatica ad arrivare a fine mese. Oltre al fatto che il livello di conoscenza del welfare aziendale è più basso tra chi guadagna meno e ha un livello di scolarità inferiore. Cosa che spinge gli autori della ricerca a sottolineare l’importanza di una più approfondita comunicazione da parte delle istituzioni e delle aziende affinché i potenziali beneficiari possano farsi un’idea delle opportunità in gioco.
Il rapporto Censis-Eudaimon contiene anche un capitolo di prospettiva. Se il welfare aziendale si diffonderà nella Penisola, con un’adesione a tappeto nel settore privato, potrà arrivare a valere 21 miliardi di euro all’anno. Difficile comunque che si possa raggiungere un valore quanto meno vicino al potenziale, alla luce di un sistema imprenditoriale che nel nostro Paese è dominato dalle aziende di piccole e piccolissime dimensioni. Infatti, la messa a punto di interventi di questo tipo richiede una struttura addetta alla gestione delle risorse umane che raramente è presente nelle realtà di minori dimensioni.
Le prestazioni di welfare aziendale maggiormente desiderate dai lavoratori riguardano l’ambito sanitario (si è espresso in questa direzione il 53,8% degli intervistati), davanti alla previdenza integrativa (33,3%), all’ambito dei buoni pasto e della mensa aziendale (31,5%). Seguono il costo del trasporto da casa al lavoro (23,9%), i buoni acquisto e convenzioni con negozi si fermano 21,3%, l’asilo nido, i centri vacanze, i rimborsi per le spese scolastiche dei figli chiudono con il 20,5%.
Tutto bene, dunque? Su questo fronte qualche resistenza arriva dal fronte sindacale, non tanto le rappresentanze aziendali, quanto le organizzazioni nazionali. Qualcuno legge questa posizione alla luce della perdita di potere dei sindacati in sede di rinnovo dei contratti collettivi. I rappresentanti dei lavoratori rispondono a questa osservazione ricordando che si considerano positive tutte le iniziative che portano benefici ai lavoratori, anche quando non si tratta di interventi di natura monetaria, ma è fondamentale che il welfare aziendale risulti aggiuntivo e non sostitutivo di quello pubblico.
Altrimenti, se lo Stato riduce il suo raggio d’azione e contemporaneamente impiega un capitolo di spesa per consentire la tassazione forfettaria, rischiano di crescere le criticità a svantaggio di chi lavora in aziende che non adottano queste misure. Torna così la necessità di favorire una diffusione su larga scala del welfare aziendale, in modo da accrescere il più possibile la platea
di beneficiari.
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Il welfare aziendale migliora il clima nelle imprese. Il 47,7% dei lavoratori, segnala il report Censis-Eudaimon, è favorevole al welfare aziendale perché è convinto che migliori il clima in azienda e il 16,8% perché fa aumentare la produttività dei lavoratori. Quest’ultima non è certo una questione trascurabile per un Paese come il nostro che nelle ultime due decadi ha registrato un tasso di crescita della produttività marginale, con il risultato che le nostre aziende hanno perso sensibilmente competitività nello scacchiere dei mercati internazionali. Non è un caso se molte direzioni del personale mettono in campo iniziative ad hoc — da percorsi di formazioni a sessioni di team building — proprio con l’obiettivo di migliorare la soddisfazione dei dipendenti. Del resto, nell’era dell’economia della conoscenza, sono proprio le persone a fare la differenza, prima ancora delle tecnologie, in molti casi divenute di dominio comune.
L’effetto positivo sul clima aziendale è la ragione segnalata prevalentemente dai lavoratori che si dicono favorevoli, ma ancora una volta è più forte il consenso tra dirigenti e occupati con alti redditi rispetto a operai e lavoratori che percepiscono redditi più bassi.
Il welfare aziendale piace ma è ancora sconosciuto a troppi
Chi lo conosce, e non sono ancora molti, lo apprezza. Il welfare aziendale si fa strada anche in Italia, complici da una parte la progressiva riduzione dei servizi offerti dalla mano pubblica e dall’altro gli incentivi fiscali garantiti dal legislatore. Il tutto innestato in uno scenario di crescita lenta dopo la lunga stagione della recessione.
A fare luce sul settore è il primo rapporto targato Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon (società attiva nel settore) e con il contributo di Credem, Edison e Michelin. Quanto al livello di conoscenza piena dei lavoratori, relativamente alle misure
che rientrano in questo ambito, ammonta al 17,9%. Il 58,5% ha una conoscenza generica e il 23,6% non sa di cosa si tratta.
Tra coloro che esprimono una padronanza completa dell’argomento, il 58,7% ritiene che misure come polizze sanitarie, ore di permessi per assistere i genitori e sostegno allo studio dei figli offerti dal datore siano addirittura meglio degli aumenti retributivi di pari valore.
Mentre il 23,5% è contrario e il 17,8% non ha una opinione in merito. L’apprezzamento è sopra la media tra i dirigenti, i laureati e gli occupati con redditi elevati, mentre è su livelli inferiori tra operai e lavoratori con stipendi bassi.
Un risultato sorprendente se si considera che i benefici fiscali guardano soprattutto a chi non percepisce redditi elevati. Infatti, a partire dal 2016 è prevista un’imposta forfettaria al 10% sui premi di produzione fino a 2mila euro per i lavoratori con reddito sotto i 50mila euro lordi annui. Con l’aggiunta che, se si sceglie di convertire il premio in elementi di retribuzione non monetari, la
tassazione è zero. La Legge di Bilancio 2017 ha poi allargato il raggio d’azione, stabilendo
l’esenzione fiscale per i premi versati dal datore per finanziare terapie di lungo corso e malattie gravi dei dipendenti. E al contempo ha stabilito che queste spese non concorrono ai limiti di deducibilità per le spese sanitarie e i versamenti alla pensione integrativa.
In aggiunta, da quest’anno se l’azienda rimborsa il biglietto o l’abbonamento ai mezzi pubblici che il dipendente prende per raggiungere il posto di lavoro, la somma non concorre a formare il reddito di quest’ultimo.
Tornando all’accoglienza tiepida da parte di chi non percepisce stipendi elevati, la chiave di lettura potrebbe essere legata alla fame di reddito: negli ultimi anni gli stipendi sono rimasti sostanzialmente fermi e anche chi ha un contratto di lavoro da dipendente e una famiglia da mantenere sempre più spesso fatica ad arrivare a fine mese. Oltre al fatto che il livello di conoscenza del welfare aziendale è più basso tra chi guadagna meno e ha un livello di scolarità inferiore. Cosa che spinge gli autori della ricerca a sottolineare l’importanza di una più approfondita comunicazione da parte delle istituzioni e delle aziende affinché i potenziali beneficiari possano farsi un’idea delle opportunità in gioco.
Il rapporto Censis-Eudaimon contiene anche un capitolo di prospettiva. Se il welfare aziendale si diffonderà nella Penisola, con un’adesione a tappeto nel settore privato, potrà arrivare a valere 21 miliardi di euro all’anno. Difficile comunque che si possa raggiungere un valore quanto meno vicino al potenziale, alla luce di un sistema imprenditoriale che nel nostro Paese è dominato dalle aziende di piccole e piccolissime dimensioni. Infatti, la messa a punto di interventi di questo tipo richiede una struttura addetta alla gestione delle risorse umane che raramente è presente nelle realtà di minori dimensioni.
Le prestazioni di welfare aziendale maggiormente desiderate dai lavoratori riguardano l’ambito sanitario (si è espresso in questa direzione il 53,8% degli intervistati), davanti alla previdenza integrativa (33,3%), all’ambito dei buoni pasto e della mensa aziendale (31,5%). Seguono il costo del trasporto da casa al lavoro (23,9%), i buoni acquisto e convenzioni con negozi si fermano 21,3%, l’asilo nido, i centri vacanze, i rimborsi per le spese scolastiche dei figli chiudono con il 20,5%.
Tutto bene, dunque? Su questo fronte qualche resistenza arriva dal fronte sindacale, non tanto le rappresentanze aziendali, quanto le organizzazioni nazionali. Qualcuno legge questa posizione alla luce della perdita di potere dei sindacati in sede di rinnovo dei contratti collettivi. I rappresentanti dei lavoratori rispondono a questa osservazione ricordando che si considerano positive tutte le iniziative che portano benefici ai lavoratori, anche quando non si tratta di interventi di natura monetaria, ma è fondamentale che il welfare aziendale risulti aggiuntivo e non sostitutivo di quello pubblico.
Altrimenti, se lo Stato riduce il suo raggio d’azione e contemporaneamente impiega un capitolo di spesa per consentire la tassazione forfettaria, rischiano di crescere le criticità a svantaggio di chi lavora in aziende che non adottano queste misure. Torna così la necessità di favorire una diffusione su larga scala del welfare aziendale, in modo da accrescere il più possibile la platea
di beneficiari.
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