(Fonte: "Il Corriere della Sera Economia")
Il tasso di imprenditorialità nel nostroPaese rappresenta da sempre un grande fattore di generazione e redistribuzione della ricchezza. La solidità della nostra economia risiede essenzialmente in un modello socio-economico basato ancora oggi sulla figura dell’imprenditore che con la sua energia, visione e determinazione crea ricchezza. L’imprenditorialità, riesce spesso anche a compensare gli «svantaggi di sistema» come l’elevata fiscalità, le inefficienze della pubblica amministrazione, la mancanza di infrastrutture, i ritardi della giustizia. Nelle aziende imprenditoriali italiane storicamente il «fare» ha sempre contato di più del «pianificare». Un dinamismo che ha sempre implicato una certa disaffezione per forme di governance più strutturate.
Eppure questa vitalità, negli ultimi anni è stata messa a dura prova da globalizzazione e da innovazione tecnologica pervasiva.
Questi fenomeni rappresentano una grande sfida soprattutto per quel nucleo di medie imprese con ricavi che superano la soglia dei 100-200 milioni di euro, sempre più consistente anche da un
punto di vista quantitativo, che si trovano spesso ad un bivio «esistenziale»: provare a crescere anche dimensionalmente ed a imporsi sui mercati globali oppure prendere in considerazione il passaggio di mano ad altri investitori (spesso esteri) o a imprese concorrenti.
Competenze...
In questa fase, per molte di queste imprese il vero salto di qualità passa anche dall’adozione di modelli organizzativi e competenze manageriali che sembrano più adatte a gestire la complessità dello scenario attuale. Però imitando tout court modelli culturali anglosassoni si rischiano spesso reazioni di rigetto. Occorre piuttosto elaborare delle sintesi originali, valorizzando i nostri punti di forza ma aprendosi contemporaneamente anche ad apporti di nuove professionalità.
In questa prospettiva nel tessuto delle medie imprese italiane serve un robusto innesto di competenze manageriali soprattutto nella gestione delle relazione a valle con i mercati. Ma servono figure in grado di inserirsi con capacità di ascolto all’interno del particolarissimo humus culturale della media impresa italiana, rispettando il ruolo e la personalità dell’imprenditore. Manager che propongano obiettivi intermedi e risultati misurabili. In grado di avviare percorsi di cambiamento combinando efficienza ed efficacia. Abilitando la trasformazione delle architetture organizzative senza svilire il Dna originale dell’impresa. Favorendo processi di collaborazione interfunzionali e lo sviluppo di partnership con soggetti esterni (università, centri di ricerca, etc.). Soprattutto, non si tratta più solo di fornire solo un supporto di competenza tecnica su uno specifico ambito ma di essere dei veri e propri business partner per l’imprenditore, suggerendo contributi di idee e strategie per lo sviluppo a 360 gradi. Basti pensare a responsabili dell’Ict (Cio) e/o ai responsabili della finanza aziendale (Cfo) solo per citare alcuni ruoli. Non possono più limitarsi alla gestione delle infrastrutture informative e al reporting. Devono fornire spunti operativi anche accompagnando le imprese verso nuovi modelli di business più «data driven».
... e pragmatismo
I manager devono quindi immergersi nella cultura imprenditoriale e diventare essi stessi degli imprenditori: propositivi, portatori di nuove idee e non solo di sofisticati modelli di compliance formale. In questa prospettiva forse si può immaginare un italian way manageriale, fatto di pragmatismo e di un approccio magari meno strutturato ma comunque focalizzato sul risultato finale. In ogni caso bisogna evitare il clash culturale e la conflittualità con la proprietà che troppo spesso caratterizza l’inserimento di nuovi manager nelle aziende, soprattutto nelle medie. Con la
conseguenza che gli imprenditori si rifugiano su un middle management fedele, ma non sempre all’altezza della sfida del momento.
I modelli
Uno dei temi caldi per gli imprenditori è come attrarre queste figure di eccellenza. Un modo può essere quello di puntare su elementi valoriali come la qualità dell’ambiente di lavoro e la
stabilità professionale, che la media impresa italiana può offrire. Alcune delle aziende italiane che sono cresciute di più nell’ultimo decennio come Campari, Brembo, Amplifon, Coesia, Zambon, Granarolo, Salini-Impregilo, solo per citare alcuni nomi noti, sono esempi virtuosi di questa capacità di attrarre manager di qualità che hanno poi impresso una decisa accelerazione alla crescita aziendale. La strada da seguire è quella della contaminazione e dell’osmosi reciproca: manager che assorbono lo spirito del fondatore, reinterpretando in chiave imprenditoriale metodologie ed approcci con imprenditori/azionisti che si affidano ai manager liberandosi dall’ossessione del controllo.
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
Il tasso di imprenditorialità nel nostroPaese rappresenta da sempre un grande fattore di generazione e redistribuzione della ricchezza. La solidità della nostra economia risiede essenzialmente in un modello socio-economico basato ancora oggi sulla figura dell’imprenditore che con la sua energia, visione e determinazione crea ricchezza. L’imprenditorialità, riesce spesso anche a compensare gli «svantaggi di sistema» come l’elevata fiscalità, le inefficienze della pubblica amministrazione, la mancanza di infrastrutture, i ritardi della giustizia. Nelle aziende imprenditoriali italiane storicamente il «fare» ha sempre contato di più del «pianificare». Un dinamismo che ha sempre implicato una certa disaffezione per forme di governance più strutturate.
Eppure questa vitalità, negli ultimi anni è stata messa a dura prova da globalizzazione e da innovazione tecnologica pervasiva.
Questi fenomeni rappresentano una grande sfida soprattutto per quel nucleo di medie imprese con ricavi che superano la soglia dei 100-200 milioni di euro, sempre più consistente anche da un
punto di vista quantitativo, che si trovano spesso ad un bivio «esistenziale»: provare a crescere anche dimensionalmente ed a imporsi sui mercati globali oppure prendere in considerazione il passaggio di mano ad altri investitori (spesso esteri) o a imprese concorrenti.
Competenze...
In questa fase, per molte di queste imprese il vero salto di qualità passa anche dall’adozione di modelli organizzativi e competenze manageriali che sembrano più adatte a gestire la complessità dello scenario attuale. Però imitando tout court modelli culturali anglosassoni si rischiano spesso reazioni di rigetto. Occorre piuttosto elaborare delle sintesi originali, valorizzando i nostri punti di forza ma aprendosi contemporaneamente anche ad apporti di nuove professionalità.
In questa prospettiva nel tessuto delle medie imprese italiane serve un robusto innesto di competenze manageriali soprattutto nella gestione delle relazione a valle con i mercati. Ma servono figure in grado di inserirsi con capacità di ascolto all’interno del particolarissimo humus culturale della media impresa italiana, rispettando il ruolo e la personalità dell’imprenditore. Manager che propongano obiettivi intermedi e risultati misurabili. In grado di avviare percorsi di cambiamento combinando efficienza ed efficacia. Abilitando la trasformazione delle architetture organizzative senza svilire il Dna originale dell’impresa. Favorendo processi di collaborazione interfunzionali e lo sviluppo di partnership con soggetti esterni (università, centri di ricerca, etc.). Soprattutto, non si tratta più solo di fornire solo un supporto di competenza tecnica su uno specifico ambito ma di essere dei veri e propri business partner per l’imprenditore, suggerendo contributi di idee e strategie per lo sviluppo a 360 gradi. Basti pensare a responsabili dell’Ict (Cio) e/o ai responsabili della finanza aziendale (Cfo) solo per citare alcuni ruoli. Non possono più limitarsi alla gestione delle infrastrutture informative e al reporting. Devono fornire spunti operativi anche accompagnando le imprese verso nuovi modelli di business più «data driven».
... e pragmatismo
I manager devono quindi immergersi nella cultura imprenditoriale e diventare essi stessi degli imprenditori: propositivi, portatori di nuove idee e non solo di sofisticati modelli di compliance formale. In questa prospettiva forse si può immaginare un italian way manageriale, fatto di pragmatismo e di un approccio magari meno strutturato ma comunque focalizzato sul risultato finale. In ogni caso bisogna evitare il clash culturale e la conflittualità con la proprietà che troppo spesso caratterizza l’inserimento di nuovi manager nelle aziende, soprattutto nelle medie. Con la
conseguenza che gli imprenditori si rifugiano su un middle management fedele, ma non sempre all’altezza della sfida del momento.
I modelli
Uno dei temi caldi per gli imprenditori è come attrarre queste figure di eccellenza. Un modo può essere quello di puntare su elementi valoriali come la qualità dell’ambiente di lavoro e la
stabilità professionale, che la media impresa italiana può offrire. Alcune delle aziende italiane che sono cresciute di più nell’ultimo decennio come Campari, Brembo, Amplifon, Coesia, Zambon, Granarolo, Salini-Impregilo, solo per citare alcuni nomi noti, sono esempi virtuosi di questa capacità di attrarre manager di qualità che hanno poi impresso una decisa accelerazione alla crescita aziendale. La strada da seguire è quella della contaminazione e dell’osmosi reciproca: manager che assorbono lo spirito del fondatore, reinterpretando in chiave imprenditoriale metodologie ed approcci con imprenditori/azionisti che si affidano ai manager liberandosi dall’ossessione del controllo.
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
Nessun commento:
Posta un commento