martedì 30 aprile 2019

5 consigli per evitare il burnout

Ad un certo punto della propria carriera in molti si trovano a fare i conti con uno stress da lavoro che rischia di sfociare in quello che in psicologia viene definito «burnout», un concetto più articolato di crollo. Ce ne parla: "L'Economia".

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lunedì 29 aprile 2019

Leadership ed empatia

Torniamo sull'argomento della leadership parlando di un altro aspetto che risulta importantissimo per chiunque voglia intraprendere questo cammino e diventare un bravo leader: l'empatia.
Anche in questo caso l'articolo è in inglese e questo è il traduttore di Google che potete utilizzare per comprendere il testo.

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venerdì 26 aprile 2019

Il tema centrale della leadership

Cosa rende una persona un vero leader? Qual è la caratteristica che le permette di farsi seguire dalle persone?
Su LinkedIn ho trovato questa riflessione molto interessante. E' in inglese ma potete coglierne facilmente il significato anche se non conoscete la lingua usando il traduttore di Google.

Cosa ne pensate?

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mercoledì 24 aprile 2019

Un manager per rendere felici i lavoratori

Vi ricordate quando molto tempo fa abbiamo parlato più volte del manager della felicità? Ecco, ci ritorniamo su oggi con un articolo de: "Il Corriere della Sera".

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martedì 23 aprile 2019

Qualche consiglio per lavorare meglio

Volete provare a lavorare meglio? Eccovi qualche consiglio che, forse vi sarà utile.

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venerdì 19 aprile 2019

Il metodo Star e i colloqui di lavoro

Conoscete il metodo Star? Potrebbe esservi utile durante i colloqui per cercare un nuovo lavoro.

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giovedì 18 aprile 2019

La gestione del tempo spiegata in maniera semplice

La gestione del tempo spiegata in modo che si possa capire facilmente.

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mercoledì 17 aprile 2019

Come diventare Ceo: 10 consigli (più 1) per costruirsi una carriera di successo

"L'Economia" ci racconta come si fa ad arrivare ai vertici dell'azienda per la quale si lavora. C'è qualcuno interessato? ;) 

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martedì 16 aprile 2019

L'identikit dei capi

(Fonte: "L'Economia")

Chi tra i più senior non ha mai ricevuto dai più giovani una domanda sulle modalità con cui impostare il percorso di carriera? E  ognuno ha dato una risposta soggettiva, sulla base della propria sensibilità, dividendosi tra rallentisti e accelerazionisti. I primi con la convinzione che sia meglio accelerare lo sviluppo professionale non troppo speditamente e che sia utile ogni tanto riprendere fiato e respirare un po'. I secondi convinti che i tracciati debbano procedere in gran velocità, per non rimanere impigliati nel conformismo della tradizione. Ma allora come si arriva davvero ai vertici delle aziende? Esistono delle esperienze che possano fare da buone pratiche? Quali sono gli ingredienti per raggiungere nel modo più adeguato la posizione di amministratore delegato?

Uno studio appena ultimato della Sda Bocconi illustra il percorso per raggiungfere la vetta. 
(...)
La ricerca voleva far emergere quali tratti comuni caratterizzano le carriere dei ceo italiani, comparando i dati emergenti con quanto avviene all’estero. Dei 540 personaggi sono state recuperate informazioni demografiche (genere, età), formazione (studi universitari e post universitari) e gli ultimi tre ruoli precedenti quello attuale. Ecco di seguito le più interessanti sorprese:
  • 1) L’età media dei ceo del nostro Paese è di 48 anni, praticamente in linea con quella degli analoghi colleghi americani e europei, che è di 50 anni circa.
  • 2) Le donne sono una netta minoranza (solo il 6%), come d’altra parte nel resto del mondo (molte altre indagini falsificano la leggenda che vede il genere femminile più rappresentato nelle nazioni nordiche e anglosassoni rispetto alle nazioni mediterranee).
  • 3) Gli studi universitari sono prevalentemente in economia e ingegneria e molto poco rappresentate sono invece le facoltà di informatica e di computer science, che invece sono assai diffuse nei track record manageriali in America e in Asia. Ovviamente l’educazione universitaria è più diffusa nelle aziende grandi e medio grandi, meno nelle piccole dimensioni.
  • 4) La presenza dei diplomi Mba è ancora abbastanza scarso nel nostro Paese, ma risulta in crescita nelle medie e piccole imprese, dove i ceo sono più giovani. I più anziani hanno conseguito l’Mba all’estero (in prevalenza negli Stati Uniti), mentre i manager sotto i quarant’anni lo hanno fatto per lo più in Italia o in Europa, grazie anche alla crescita recente del numero e della qualità delle business school nel nostro continente.
  • 5) Il tempo medio per raggiungere il ruolo di ceo dalla laurea è di 23 anni nelle aziende grandissime e di 13,8 anni nelle aziende più piccole. Ciò significa che chi diventa ceo di un’azienda piccola ci mette meno tempo, anche se poi sconta di rimanere imprigionato nella rete delle minori dimensioni. Nelle aziende più grandi ci si mette più tempo, ma vi è più possibilità di spostarsi successivamente da azienda a azienda e da settore a settore.
  • 6) Le aziende maggiori prendono meno rischi e tendono ad assumere nel ruolo di amministratore delegato persone che hanno già acquisito tale posizione nell’esperienza precedente, mentre le piccole sono più propense a rischiare assumendo un ceo di prima nomina. Per tutto ciò le aziende più piccole risultano interessanti trampolini di lancio intermedio per progredire verso il top.
  • 7) La permanenza nello stesso settore industriale è un’altra variabile degna di nota: nelle imprese grandi e grandissime si richiede una esperienza continuativa nel settore, mentre invece nelle dimensioni minori si verificano spesso cambi di industria nei livelli apicali.
  • 8) L’esperienza precedente in società di consulenza strategica viene valutata un acceleratore di carriera per un quarto dei ceo analizzati.
  • 9) Le filiere professionali più apprezzate sono nell’ordine commerciale, finanza e operations, a differenza di Usa e Asia dove prevalgono invece percorsi di strategia e high tech.
  • 10) Avere un curriculum internazionale (esposizione alla globalizzazione o permanenza all’estero) è un fattore determinante per tutti i profili esaminati. Ciò caratterizza in modo marcato i ceo italiani, come quelli europei, contrariamente ai ceo statunitensi dove solo 1 su 4 ha lavorato cross border.
  • 11) Un tema spesso in discussione è quanto un manager debba rimanere nello stesso ruolo. C’e’ chi sostiene che non bisogna rimanere troppo poco (l’eccessiva mobilità non paga e dà percezione esterna di eccessivo rampantismo e di superficialità), ma c’è anche chi considera demotivante starci troppo (l’abitudine deprime l’achievement e il senso di sfida). Nel campione esaminato si vede che in media le persone sono rimaste nella stessa posizione da 2,5 a 5 anni. Gli high flyers sono più presenti nelle aziende di grandissime dimensioni, dove spesso il turnover politico circostante preme per un avvicendamento anche del top management aziendale.
In sintesi questi dati riflettono i gusti che gli odierni azionisti esprimono nei confronti dei loro cinquantenni capi azienda: stabilità; competenza nel settore; perseveranza nello sforzo; esperienza nelle funzioni di linea e di finanza.
Sarebbe curioso interrogarsi quanto questi ingredienti vadano a genio agli attuali manager 30-35enni, che saranno alla testa delle organizzazioni tra 10 anni. Infatti, dalla sensazione che molti hanno su tale più giovane generazione, risulterebbe un disallineamento rispetto alle precedenti attitudini: essi non credono troppo nella stabilità e vanno invece alla ricerca di mobilità sia aziendale che settoriale; sono avvezzi alla despecializzazione e al general management fin da subito; lavorano molto sulla componente soft (change management, strategia, dinamiche organizzative) e considerano le competenze hard come qualcosa di necessario ma non cruciale per il successo. C’è tempo nei prossimi dieci anni per una loro folgorazione sulla via del vertice organizzativo, con conseguente riorientamento del loro profilo oppure magari una simile ricerca nel 2030 vedrà una fotografia del ceo totalmente diversa?

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lunedì 15 aprile 2019

Lavoratori contenti e motivati? Ecco perché le società li cercano

(Fonte: "Il Fatto Quotidiano")

Supporre che i lavoratori felici siano migliori e più produttivi è un mantra universalmente riconosciuto nei circoli aziendali e di affari.
Nessuno si è sorpreso quando, all’ultimo Forum economico mondiale a Davos, il CEO di Alibaba Jack Ma ha suggerito che le persone ideali da assumere non sono necessariamente quelle più
qualificate bensì quelle più “positive”, “sempre ottimiste” e “che non si lamentano" . Dal Forum è emerso chiaramente che la felicità sul posto di lavoro è ormai un obiettivo primario per le aziende e che la teoria per cui i dipendenti felici sarebbero la chiave del successo è considerata quasi come una verità auto-evidente. Ma è proprio così?


L’assunto secondo cui i dipendenti felici sono più produttivi e, in generale, migliori, è tutto da dimostrare: la storica ossessione per l’individuazione di una correlazione diretta tra felicità e
rendimento non ha ancora portato a risultati certi e, anzi, il rapporto tra queste variabili è piuttosto debole.
Certo, l’enfasi su positività e ottimismo si sposa bene con la tendenza delle aziende a neutralizzare il malcontento e a proibire l’espressione della negatività, ma sostenere che la positività sia sempre
proficua e vantaggiosa è quantomeno fuorviante. Secondo alcune ricerche, un’atmosfera positiva può
incentivare gli individui a intraprendere attività impegnative, ma anche indurli a essere meno perseveranti di fronte alle difficoltà, a fare scelte meno accurate e a correre rischi inutili. In certe situazioni, poi, gli atteggiamenti positivi possono incrementare il disinteresse emotivo e disincentivare la cura e la solidarietà verso gli altri. È stato anche dimostrato che, pur favorendo l’empatia soggettiva, la positività è spesso associata a un calo dell’empatia oggettiva nella prassi e a
un aumento degli errori di giudizio o degli stereotipi nella spiegazione dei comportamenti propri e altrui.


L’ottimismo certamente accresce la motivazione personale, pregustando i futuri risultati, ma aumenta anche il rischio di depressione quando tali aspettative non sono soddisfatte o si devono fronteggiare eventi avversi e inaspettati. I lavoratori felici, benché più propensi a farsi coinvolgere nella cultura aziendale, sarebbero inoltre più suscettibili di sviluppare una fragilità emotiva arrivando a dipendere psicologicamente dal riconoscimento e dalle rassicurazioni da parte di superiori e colleghi, sentendosi abbandonati e delusi qualora non ricevano le risposte emotive attese.
Nonostante quindi non sia provato che la felicità sul luogo di lavoro è associata ai benefici che esperti e aziende dichiarano, in tutto il mondo le società investono capitali crescenti in servizi
di consulenza, seminari motivazionali, corsi di consapevolezza e una vasta gamma di professionisti dello sviluppo personale ed esperti di felicità. Perché?
Anzitutto,  si ritiene che i dipendenti più felici siano non solo più produttivi ma anche meno costosi. Visto che la felicità è stata associata a una migliore salute fisica e mentale (ma non è un dato certo), le aziende sono disposte a tutto pur di ridurre le spese legate all’offerta di servizi sanitari e accesso alle cure mediche, così come quelle legate ai congedi per malattia e all’assenteismo: Gallup stima che ogni anno i dipendenti malati costino alle imprese americane 153 miliardi di dollari. Poiché, inoltre, una maggiore felicità è solitamente connessa a livelli più alti di dedizione nel lavoro, le società cercano di tagliare i costi del turnover del personale, inclusi quelli di compensazione e reclutamento  – che secondo Gallup, negli Usa si aggirano tra i 438 mila e i 4 milioni di dollari
all’anno per una ditta con 100 impiegati.
Un secondo motivo, più basilare, che spiega perché le compagnie sono interessate alla felicità sul luogo di lavoro è che quest’ultima si è rivelata un’utile strategia per il controllo dei lavoratori e la
loro sottomissione alla cultura aziendale. È stata molto utile, ad esempio, per scaricare le responsabilità verso il basso, rendendo i dipendenti maggiormente imputabili per i propri successi e fallimenti come per quelli dell’azienda. Si è dimostrata anche comoda per poter esigere più impegno e rendimento, spesso in cambio di ricompense minori; per minimizzare l’importanza delle condizioni oggettive di lavoro, inclusi i salari, in rapporto alla soddisfazione; per incentivare i dipendenti a identificarsi con i valori dell’organizzazione e a conformarsi volontariamente alle regole aziendali. Cosa ancor più importante, la felicità sul luogo di lavoro ha contribuito a rendere l’autosfruttamento più tollerabile e persino accettabile: dai lavoratori, oggi, ci si aspetta non solo che si adattino con flessibilità alle richieste ed esigenze delle aziende, in continua evoluzione; che gestiscano da soli situazioni difficili e carichi crescenti di lavoro; e che assumano un ruolo più attivo, creativo e autocritico nell’adempimento dei loro compiti. Ci si aspetta persino che amino ciò che fanno e lo considerino non una necessità, bensì una fonte di piacere e realizzazione personale.


La promozione  della felicità in ufficio, insomma, sembra aver giovato soprattutto alle aziende, il che non significa che queste non si prendano cura dei propri dipendenti, ma dimostra come sia
un'ingenuità ritenere che i meccanismi di controllo siano spariti dalla sfera organizzativa: sono stati semplicemente interiorizzati. Attenzione quindi: se di primo acchito l’idea di rendere i lavoratori più felici può sembrare uno scenario vincente per tutti, società e dipendenti, in realtà forse non sono questi ultimi i veri beneficiari della promozione della felicità.


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venerdì 12 aprile 2019

Che lavoro fare nella vita? Quattro consigli (veri) per scegliere una professione

Qual è la strada migliore da percorrere per scegliere il lavoro giusto? L'"Economia" ci propone la bussola orientativa di John Stuart Mill utile per realizzare al meglio un proprio progetto di lavoro e di vita.

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giovedì 11 aprile 2019

10 regole per un CV perfetto

Ennesimo suggerimento su come muoversi per avere il curriculum perfetto. Il vostro lo è?

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mercoledì 10 aprile 2019

Chiediamoci se gli italiani siano felici al lavoro

Gli italiani sono felici per ciò che riguarda il loro lavoro? Ce ne parla "Business People".

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martedì 9 aprile 2019

Cinquantenni vogliono lavorare fino a 65 anni

I cinquantenni vorrebbero lavorare fino ai 65 anni ma le aziende sembrano pensarla diversamente...

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lunedì 8 aprile 2019

Domande impossibili ai colloqui

Eccovi una raccolta di "domande impossibili" che sono state formulate durante alcuni colloqui di lavoro. Avreste saputo rispondere?

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venerdì 5 aprile 2019

Donne attive nella ricerca di lavoro

Ultimamente le donne sono più attive degli uomini nella ricerca di un nuovo lavoro. Ce ne parla  "Business People".

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giovedì 4 aprile 2019

lavanderia, yoga, ecco il nuovo welfare aziendale

Continuiamo a parlare di welfare aziendale visto che va così di moda. Eccovi qualche aggiornamento su cosa fanno le aziende e su come questo modo di fare aumenti la produttività.

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mercoledì 3 aprile 2019

Aspettative dei clienti e brand

Non sempre chi dovrebbe intuire le aspettative della clientela è così abile nel comprenderle davvero. Ce lo racconta "Business People".

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martedì 2 aprile 2019

Preparatevi a cambiare lavoro

Jerry Kaplan, pioniere dell’It ed esperto di intelligenza artificiale ci dà qualche consiglio per affrontare al meglio l'introduzione della robotica negli ambienti di lavoro e per capire per tempo se la nostra professione verrà toccata da questa rivoluzione epocale oppure no.

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lunedì 1 aprile 2019

Creare un legame forte quando si lavora lontano


Come si fa a creare un legame forte con i collaboratori che lavorano lontano dal luogo di lavoro? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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