mercoledì 30 novembre 2016

Stipendi più alti solo per alcuni

Quali sono le categorie che hanno visto crescere lo stipendio? Ce lo racconta "Affari&Finanza".

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martedì 29 novembre 2016

Il telelavoro è il futuro?

Il telelavoro è il futuro? Leggiamo cosa ci racconta "Affari&Finanza".

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lunedì 28 novembre 2016

Orario flessibile: sogno o realtà?

Orari flessibili nelle aziende italiane? Ce ne parla "Affari&Finanza".

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venerdì 25 novembre 2016

Occupazione liquida

Occupazione liquida? Ce ne parla "Affari&Finanza".

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giovedì 24 novembre 2016

Formazione duale sul modello tedesco

"Il Sole 24 Ore" ci racconta la formazione duale sul modello tedesco e come si cerca di applicarla anche in Italia.

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mercoledì 23 novembre 2016

Non è più il lavoro ma la sua assenza a generare mostri

(Fonte: "La Repubblica")

In Marx la critica allo sfruttamento del lavoro proprio del regime capitalista si è sempre accompagnata ad una valorizzazione del lavoro in quanto tale. Anzi, nei Manoscritti economico- filosofici del 1844 l’umanizzazione della vita non può che compiersi attraverso il lavoro che è innanzitutto il modo col quale si manifesta l’essenza dell’uomo in quanto tale. 
Se, infatti, il capitalismo deruba l’uomo della sua umanità, rendendolo simile ad una bestia da soma, è perché si è indebitamente appropriato del prodotto del suo lavoro. In questo modo ha reso impossibile quel riconoscimento del valore della vita umana che dovrebbe realizzarsi quando il lavoratore può specchiarsi nel prodotto del suo lavoro. È questo, in estrema sintesi, il carattere alienante dell’espropriazione capitalista del lavoro operaio: il lavoratore perde contatto con l’oggetto del proprio lavoro e con il senso stesso della sua prassi.

Esiste però una tendenza interna al marxismo dove questa valorizzazione del lavoro viene negata identificando l’attività stessa del lavoro – e non la sua forma alienata prodotta dal capitalismo – come una attività di mortificazione e di sfruttamento dell’uomo. 

Questa tendenza ha avuto diversi interpreti (da Andrè Gorz ad Herbert Marcuse, per lo più travisato, sino ai più recenti contributi di Robert Kurz, filosofo marxista tra gli autori di un eloquente Manifesto contro il lavoro redatto nel 2003) ed è quella risultata culturalmente dominante nelle contestazioni del ’68 e del ’77. 
Lavorare non alimenta la vita ma la mortifica, non genera soddisfazione ma abbruttimento. 

Il rigore umanistico del giovane Marx viene curvato verso un inedito edonismo libertario che rigetta il lavoro in quanto tale considerandolo un principio socialmente costrittivo. Il lavoro diventa un tabù di cui liberarsi il più in fretta possibile. (...)Non si trattava solo di criticare il lavoro alienato del regime capitalista, ma la tirannide in sé del lavoro, la trasformazione moralistica del mondo in un grande fabbrica di produzione.

Nell’attuale tempo della crisi economica e della disoccupazione crescente, soprattutto tra i giovani, questi discorsi impallidiscono di fronte alla dura prova della realtà. La vita umana senza la possibilità del lavoro è vita morta, vita che perde ogni dignità. I suicidi che nel tempo più acuto della recente crisi hanno colpito imprenditori e lavoratori segnalano spietatamente – come il giovane Marx aveva lucidamente affermato – che senza l’occasione del lavoro, senza impresa, la vita non accede ad alcuna libertà, ma tende a disumanizzarsi e a percepirsi come superflua e insignificante. È, infatti, solo attraverso il lavoro che facciamo esperienza della soddisfazione simbolica del riconoscimento. 


La nostra vita acquista valore umano perché, diversamente da quella animale, non si limita a reagire agli stimoli del mondo, ma sa trasformare il mondo, sa imprimere al mondo una forma umana. Perdere o non trovare lavoro significa essere tagliati fuori da qualunque esperienza fondamentale di riconoscimento. 

Il vero problema oggi non è la critica alla natura alienata del lavoro, ma l’esistenza di una economia sempre più afflitta dal primato della finanza che ha fatto evaporare la centralità umana del lavoro. La via “lunga” del lavoro è stata sostituita da quella “breve” dell’allucinazione finanziaria, del profitto facile. Quando infatti il profitto si separa dalla forza-lavoro per generarsi solo dal denaro, diviene l’indice drammatico di un rovesciamento nichilistico dei valori: non è il lavoro ad essere un valore, ma è il valore che riproduce se stesso a prescindere dal lavoro. 

(...)

Se al tempo fordista il lavoro veniva organizzato da una sua irreggimentazione paranoica ponendo in primo piano la sua meccanizzazione anonima che surclassa la singolarità del lavoratore, nel nostro tempo in primo piano è un godimento – quello della finanza – che rifiuta ogni limite subordinando alla sua avidità compulsiva e astratta la dimensione reale del lavoro. Per questo al posto dell’irreggimentazione disciplinare del lavoro di tipo fordista, oggi abbiamo il problema della sua precarizzazione e della sua evaporazione, il suo declassamento rispetto all’economia spettrale della finanza.
La fine del controllo paranoide del lavoro che aveva caratterizzato l’economia fordista (...) genera però una libertà individuale solo apparente. Il nuovo scenario antropologico del soggetto contemporaneo appare dominato da una precarietà diffusa che è la faccia oscura della maggiore individualizzazione e autoregolazione del lavoro. 

(...) non è il lavoro a sfruttare la vita, ma è la vita che senza lavoro si consuma in quella nuova schiavitù che chiamiamo libertà. Se l’espansione della libertà è una evidenza solo individualistica che taglia fuori i più deboli, che li priva dell’occasione del lavoro, questa libertà resta solo (...) una versione nichilistica del puro arbitrio.

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martedì 22 novembre 2016

Carriera? Devi sembrare un idiota

(Fonte: "Il Fatto")

Recita Il principio di Dilbert: “uno scimpanzé ritardato può bersi una cassa di birra ed essere comunque in grado di svolgere la maggior parte delle funzioni dirigenziali”.
A vent’anni dal fumetto di Scott Adams sulla stupidità aziendale, arriva il suggello della scienza: i cretini, a lavoro, fanno carriera.

Lo prova un libro dal titolo The paradox stupidity, power and Pitfalls of Functional Stupidity at Work, di Mats Alvesson e Andre Spicer. Il primo insegna “Business administration” (amministrazione aziendale) all’Università di Lund, Svezia; il secondo presiede la cattedra di “Organisational Behaviour” (comportamento organizzativo) alla Cass Business School di Londra.

La conclusione è impietosa: “Il pensiero acritico e irriflessivo, l’ottimismo cieco, è molto applaudito nelle imprese – spiega Alvesson – Le persone intelligenti mettono in discussione le cose, imbarazzando le persone che accettano l’ordine aziendale per interesse. Si può diventare impopolare se si sollevano problemi”.
Alvesson e Spicer hanno esplorato la galassia delle organizzazioni inglesi e statunitensi. “Ma i principi generali sono validi anche per l’Europa, come per tutte le organizzazioni contemporanee”, specifica Alvesson. “Per molti anni abbiamo studiato persone che lavorano in imprese pubbliche e private, inclusi molti manager. In più abbiamo consultato ricerche accademiche e gli esempi dei mass-media”.

Nascondere la polvere sotto il tappeto aiuta l’armonia. Credere ciecamente che tutto andrà per il meglio solleva lo spirito. Schivare i problemi è un toccasana per l’umore aziendale. Mentre la barca affonda, gli yesman guadagnano i favori dei piani alti. I più capaci invece si adeguano per non avere rogne, chiudendo l’intelligenza nel cassetto. In fondo, è la scelta più razionale e conveniente.

Molti manager sposano un paradosso – spiega Alvesson –: vogliono persone autonome e competenti, ma anche fedeli, docili, affidabili, che non mettano in discussione i loro capi e i regimi aziendali”. Come durante la crisi finanziaria del 2008, innescata dalla bolla dei mutui subprime. Furono le menti più brillanti a progettare gli algoritmi finanziari che condussero al disastro. “In quel caso, le persone intelligenti hanno fatto ciò che si chiedeva loro, smarrendo la visione d’insieme. Nessuno ha messo in dubbio ciò che tutti ritenevano giusto fare, ed è scoppiata la crisi”.

Il crollo di Wall Street è un tipico esempio di stupidità funzionale, secondo la definizione di Alvesson: “Un pensiero limitato e angusto, conformista, di chi non esce mai dalla sua casella”. Il risultato? Vietato avere dubbi. Mostrarsi positivi, sempre. “L’ottimismo è una regola universale – spiega Alvesson –, ma il rischio è di ignorare problemi gravi e di prendere decisioni sbagliate”.
Nokia lo ha imparato a sue spese. “La cultura della positività, in parte, ha condotto a uno scarso senso di realtà”, spiega il professore svedese. Sulle ali dell’ottimismo, Nokia si è impegnata in progetti troppo ambiziosi. Lo smartphone per soppiantare l’iPhone arrivò tardi e deluse gli utenti. In poco tempo, Nokia cadde nel baratro, divorata da Microsoft.

“I manager, talvolta, sono vittime dell’esaltazione dell’ego – dice Alvesson –. Credono di essere grandi leader, poi si scontrano con la realtà, dove le visioni, i valori, l’autenticità e altri ideali sono difficili da raggiungere. Il loro lavoro, spesso, richiede meno creatività e intelligenza di quanto si creda”. Mentre i dipendenti si adeguano ai dirigenti, questi ultimi rendono conto agli azionisti, il motore immobile dell’universo aziendale. Al vertice della piramide, il cielo è sempre sereno e le nubi lontane: “I manager sanno stupire quelli che vogliono solo buone notizie, perché fa parte della loro formazione: lo scopo è far felice il cliente”.

La stupidità funzionale è un virus democratico, nessuno ne è immune. “Contagia piccole e grandi aziende come Pepsi, British Airways, Amazon”, ammette Alvesson. Nemmeno la Silicon Valley, patria dell’economia della conoscenza, ne ha scovato l’antidoto. “Gran parte delle organizzazioni che, in apparenza, dipendono di più da informazioni e conoscenza, possono comportarsi in modo abbastanza stupido”, scrivono Spicer e Alvesson nel loro libro. “Le aziende assumono persone brillanti che finiscono per fare cose stupide (…) per capire come mai individui intelligenti si lascino conquistare da idee stupide, ricavandone una ricompensa, dobbiamo vedere qual è il ruolo della stupidità funzionale”. Alvesson è chiaro: “Aiuta l’adattamento, la concentrazione sul lavoro, l’entusiasmo e facilita le relazioni sociali”.

Nel breve periodo, la stupidità è il lubrificante degli ingranaggi aziendali. La catena di comando funziona spedita, l’armonia regna sovrana, la persone lavorano come un sol uomo. Ma nei tempi lunghi il disastro è garantito. In attesa del precipizio, le persone imparano la lezione: se qualcosa non va, lingua in bocca e sorriso largo. Facile, per un animo semplice.

Per i più brillanti, un calvario vero: “Iniziano a dubitare sul senso e l’utilità del proprio lavoro; perdono concentrazione, entusiasmo e motivazioni”. Nella giungla della stupidità, vince il camaleonte: “Seguire il flusso, usare slogan e vocaboli aziendali è un vantaggio – spiega Alvesson –. Limitarsi al proprio ruolo senza mettere in discussione nulla spesso paga se vuoi far carriera”.

Il coinvolgimento dei dipendenti, di sicuro, è una soluzione al paradosso della stupidità: “Far percepire ai lavoratori il senso d’appartenenza alla stessa famiglia, promuovere un’identità comune”. Alvesson suggerisce la partecipazione agli utili da parte dei dipendenti: “Una scelta di successo per la banca svedese Handelsbanken”. Non mancano antidoti meno ortodossi: “Nominare, in azienda, avvocati del diavolo per argomentare contro alcuni punti di vista dominanti, oppure una task force per identificare principi e pratiche critiche”.

Il rimedio più efficace, forse, è quello più antico: la collaborazione tra le persone. Non serve inventare la ruota: “I lavoratori possono provare a pensare in modo indipendente, parlarsi l’un l’altro, verificare se gli altri hanno l’impressione di eseguire istruzioni stupide che cozzano con la realtà. Poi, se è il caso, cercare a poco a poco di comunicare intuizioni più ampie. È la soluzione migliore e più prudente, almeno all’inizio”.

Collaborazione e intelligenza; stupidità e competizione. Un dilemma vecchio come l’uomo. Per ora, in ufficio, il pendolo oscilla dalla parte sbagliata.

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lunedì 21 novembre 2016

Smart working

Aziende italiane e smart working. Ce ne parlano "Italia Oggi" e  "Repubblica".

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venerdì 18 novembre 2016

Inglese: l'Italia tra gli ultimi Paesi europei

Secondo l'English Proficiency Index raggiungiamo a malapena la sufficienza nella lingua di Shakespeare. I migliori in Lombardia e Friuli, i peggiori in Umbria, Calabria e Sicilia.
Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

E voi quali "trucchi" utilizzate per migliorare il vostro inglese?

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giovedì 17 novembre 2016

Il segreto è la squadra

"Il Corriere della Sera" ci ricorda l'importanza del gruppo nel mondo del lavoro.
E per chi si fosse perso tutto quello che abbiamo scritto sul team working, eccovi la selezione di QualitiAmo: Team building

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mercoledì 16 novembre 2016

Giovani nella morsa della sfiducia

Laureati, tassi di occupazione e di disoccupazione: Italia nelle retrovie tra i Paesi UE.
Ce ne parla "Il Sole 24 Ore".

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martedì 15 novembre 2016

Retribuzioni al traino di incentivi e welfare

Come stanno andando le retribuzioni in Italia? Ce ne parla "Il Sole 24 Ore".

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lunedì 14 novembre 2016

Viaggi di lavoro "addio"...

Biglietti e prenotazioni per motivi aziendali, d’affari o di rappresentanza sono scesi del 15,1%: passando da 8,112 milioni del 2014 a 6,894 milioni del 2015. Scendono anche le uscite per congressi, conferenze e corsi di aggiornamento.

Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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venerdì 11 novembre 2016

Vincono le competenze miste

Alternare scuola e lavoro è una buona idea? Sembra di sì. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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giovedì 10 novembre 2016

Imprenditori per combattere la crisi

175mila giovani diventano imprenditori per combattere al crisi.
A seconda di dove vogliate leggere la notizia, eccovi "Il Sole 24 Ore" e "Il Corriere della Sera".

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mercoledì 9 novembre 2016

I profili più richiesti dalle imprese

Periodicamente escono articoli che ci illustrano quali siano i profili più richiesti nel mondo del lavoro italiano. Questa è la volta di "Tuttosoldi" de: "La Stampa".

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martedì 8 novembre 2016

Tirocini per far imparare un mestiere o per avere manodopera a basso costo?

Qual è la situazione dei tirocini in Italia rispetto ad altri Paesi? Prova a illustrarcela "Il Fatto Quotidiano".

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lunedì 7 novembre 2016

Mettersi in proprio (4)

Ed eccovi l'ultima parte dedicata ai lavoratori in proprio, sempre proposta da: "Il Sole 24 Ore". Cosa bisogna fare se si vuole chiudere l'attività?

La chiusura dell'impresa

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venerdì 4 novembre 2016

Mettersi in proprio (3)

Eccovi il penultimo riferimento de: "Il Sole 24 Ore" relativo al lavoro in proprio.

I modelli d'impresa

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giovedì 3 novembre 2016

Mettersi in proprio (2)

Eccovi un'altra parte dell'inserto relativo al lavoro autonomo proposto nei giorni scorsi da: "Il Sole 24 Ore".

Collaboratori e dipendenti.

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mercoledì 2 novembre 2016

Mettersi in proprio

Recentemente "Il Sole 24 Ore" ha dedicato un ampio inserto al mettersi in proprio.

Vi riportiamo le pagine che abbiamo ritenuto più interessanti per chi volesse tentare questa strada (o cessare l'attività in proprio che sta portando avanti per passare ad altro).

Eccovi i primi due spunti:

Il difficile slalom tra business e regole

Regimi fiscali e contabilità

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