giovedì 30 novembre 2017

Adulti e inattivi, la crisi di mezza età del lavoro

(Fonte: "la Repubblica")

Quando  John  Maynard  Keynes prefigurò un futuro in cui gli uomini  avrebbero  avuto  sempre  più
tempo libero grazie allo sviluppo tecnologico, non immaginava che quel  futuro  avrebbe  assunto  le
sembianze di una crisi apocalittica. Un esercito crescente di persone è stato buttato fuori dal lavoro
negli ultimi decenni e non sembra fare un uso felice del proprio tempo libero. Certo, è una tendenza
degli  ultimi  decenni,  ma  quelle coorti di “maschi adulti” come li definiscono aridamente gli economisti, che non lavorano, non studiano e non si riqualificano, sono aumentate  vertiginosamente  anche di recente, a causa delle crisi economiche che si sono susseguite dal 2000. Negli stessi anni, cioè, in cui i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i populismi hanno cominciato a mangiarsi le democrazie occidentali.
Una  «decimazione»  come  la chiama  Nicholas  Eberstadt  nel suo libro Men at work. America’s Invisible Crisis, ignorata da tutte le statistiche ufficiali e dall’opinione pubblica. Anzi, la retorica comune, che guarda solo ai dati sulla disoccupazione e non a chi ha rinunciato persino a cercare un lavoro, racconta di un’economia statunitense ormai rombante che ha recuperato l’obiettivo della piena occupazione.
Diversi studi cominciano a diffondere invece i dati nascosti - sono ben sette milioni gli americani
inattivi nella fascia di età tra i 25 e i 35 anni e dieci milioni se si allarga il conto fino a 54 - e a metterli in relazione con l’acuirsi dell’odio nei confronti delle elite e la «resistibile  ascesa»  dei  populismi.  Eberstadt, che è economista all’American  Enterprise  Institute,  scrive che quella americana è ormai una crisi «morale e sociale». La «crescente incapacità dei maschi adulti di fungere da “capofamiglia” minaccia la famiglia» e alimenta sia la sfiducia nella politica sia la tentazione  di  abbracciare  le  sirene del populismo.
Vengono in mente anche fenomeni di disagio sempre più macroscopici oltreoceano, come l’accresciuta mortalità degli adulti bianchi e le epidemie di oppioidi. Il Nobel per l’economia Angus Deaton l’ha  definita  la  «crisi  del  sogno americano». In un paper ha analizzato la mortalità (di uomini e donne, in questo caso) tra il 1999 e il 2013, e ha scoperto che quella degli afroamericani e degli ispanici diminuisce,  mentre  quella  dei bianchi  è  drammaticamente  aumentata tra i 45 e i 55 anni, dunque per cause legate all’abuso di droghe, di farmaci, di alcol o perché suicidi.
Una “crisi di mezza età”, quella fotografata  dall’economista  di Princeton, che ormai investe due
generazioni e non può non avere pesanti riflessi politici.
Peraltro, gli studiosi che si occupano dei “Nilf”, gli inattivi, citano un solo altro Paese che ne nasconderebbe un tasso altrettanto allarmante: l’Italia. Sia Eberstadt, sia un altro importantissimo economista di Princeton, Alan Krueger, ex consigliere di Obama, mettono in guardia dalla grande eccezione italiana. Soltanto il nostro Paese ha un tasso di uomini che nei loro anni produttivi restano inchiodati a casa più alto di quello statunitense.
L’altro problema che si intuisce dagli studi di Angus Deaton riguarda l’uso del tempo libero. Krueger ha dimostrato che in un caso su due, in America, chi ha l’età per lavorare ma non lo fa prende regolarmente  degli  oppioidi.  Eberstadt, dal canto suo, cita studi che dimostrano come chi non fa nulla e vive di aiuti della famiglia o di espedienti o di magri sussidi, non sta affatto di più con i propri cari, né si impegna nel volontariato. Sta per lo più a casa e «gioca ai videogiochi o guarda in media cinque ore e mezza di tv al giorno».
Le crisi economiche e la digitalizzazione sono  il  combinato disposto di questa «catastrofe silenziosa»,  come  la  definisce  Eberstadt. Forse è il caso di cominciare a riflettere sulle conseguenze della Grande morìa del lavoro, come stanno facendo studiosi come il filosofo di Harvard Michael Sandel, che propongono da anni una riflessione sul reddito di cittadinanza.
Almeno, non nascondono la testa nella sabbia


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mercoledì 29 novembre 2017

Whistleblowing, tutte le incognite

(Fonte: "Affari&Finanza")

Se denuncio un illecito perpetrato in ufficio al mio superiore, posso essere sicuro che l’anonimato venga tutelato? A quali rischi vado incontro? E se poi emergesse che la questione sollevata non aveva basi solide? Sono alcuni dei quesiti che tanti lavoratori si pongono  questi  giorni, dopo  l’approvazione  a metà novembre della legge  sul  whistleblowing, ideata per consentire di
segnalare  il  comportamento illecito dei colleghi tutelando da eventuali ritorsioni l’autore della
segnalazione.  Per  Raffaella Quintana, avvocato,  la  nuova norma  è  da  accogliere positivamente, “considerata l’efficacia ai fini della  lotta  alla  corruzione che lo strumento ha già dimostrato  di  avere  in quei Paesi che lo hanno disciplinato già da tempo”. La norma prevede una tutela per il segnalante, la cui identità dovrà essere protetta e rimanere riservata; così come l’autore della segnalazione non potrà essere oggetto di atti di ritorsione o discriminatori. “La norma richiede espressamente la predisposizione di canali di segnalazione, anche informatici, che ne garantiscano
la  riservatezza”,  aggiunge  l’avvocato.
Inoltre stabilisce, a tutela di chi fa emergere le irregolarità dei colleghi, che lo stesso non possa essere sanzionato, demansionato o trasferito. “Se ad esempio il datore di lavoro decidesse di licenziare il dipendente segnalante, gli toccherebbe l’onere di dimostrare l’estraneità  alla  segnalazione”,  aggiunge Quinta. “Del resto, già in forza dei principi generali del nostro ordinamento, un licenziamento comminato in conseguenza di una denuncia di irregolarità
sarebbe illegittimo, e anzi radicalmente nullo, con diritto del lavoratore alla riammissione  in  servizio”,  aggiunge Damiana  Lesce,  (...). “Analogamente, sarebbe illegittimo un trasferimento e/o un mutamento  di  mansioni  conseguente  anch’esso  ad  un  atto  di  denuncia”.  Di nuovo, la legge da poco approvata “è apprezzabile laddove introduce anche sanzioni pecuniarie specifiche a carico
del responsabile dei predetti atti di discriminazione”, aggiunge.
Sabrina Galmarini, (...), aggiunge un altro elemento. “Nel settore pubblico è vietato rivelare l’identità del whistleblower sia nel procedimento disciplinare, sia in quello contabile e penale. Se la contestazione disciplinare dovesse risultare fondata, anche solo parzialmente, sulla segnalazione, l’identità potrà essere rivelata dietro consenso del segnalante, altrimenti la segnalazione resterà inutilizzabile”.
A  ulteriore  tutela  dell’identità  del whistleblower è previsto che l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) predisponga, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, le linee guida per la presentazione e la gestione delle segnalazioni.
Lesce solleva qualche dubbio sull’efficacia della norma con riguardo alla sua  applicazione  nel  settore  privato.
“Le aziende dovranno prevedere una procedura per la denuncia delle irregolarità. Il che significa che il tutto è rimesso alle  singole realtà aziendali  in un Paese in cui la grande maggioranza sono piccole e medie aziende. Così molto dipenderà anche dall’attività di sorveglianza di impulso del sindacato”.


Resta da chiarire un punto: cosa succede se la segnalazione si rivela infondata? “Non ci sono conseguenze, salvo che la segnalazione rivelatasi infondata sia stata fatta con dolo o colpa grave”, spiega Alessandro Musella, (...). “Quindi, per evitare rischi, bisogna fare segnalazioni fondate
su elementi di fatto precisi e concordanti di cui si abbia avuto conoscenza diretta ed evitare di usare la segnalazione come sfogo di situazioni di malessere all’interno dell’azienda, non basandosi su fatti oggettivi e precisi ma su episodi riferiti da altri o su semplici voci”.
Tirando  le  fila,  Andrea  Scarpellini (...) non condivide l’enfasi sulla portata innovativa della norma, “quasi fosse la soluzione definitiva agli atavici vizi di corruzione del nostro Paese”, anche se riconosce che “il merito di aver affrontato il tema e di aver introdotto una serie di norme a tutela del soggetto che effettua la segnalazione”.
Tutti poi concordano su un punto: per un giudizio più preciso occorrerà attendere l’applicazione pratica della legge.


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lunedì 27 novembre 2017

10 modifiche da fare al CV se non sei alle prime armi

"Business Insider" ci spiega come cambiare il curriculum se abbiamo già avuto un'esperienza nel campo del lavoro.

Buona lettura!

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venerdì 24 novembre 2017

I segreti del gioco di squadra

(Fonte: "la Repubblica")

Un po' come la nazionale di calcio, gli studenti italiani naufragano sullka capacità di fare squadra. E perdono ai modniali di problem solving collettivo. L'indagine Ocse-Pisa, oltre a valutare le competenze dei 15enni in lettura, matematica e scienze, ha misurato la loro capacità di risolvere insieme problemi quotidiani. Ne usciamo male: siamo sotto la media Ocse, trentesimi su 51 Paesi. Svetta Singapore, seguito da Giappone, Hong Kong e Corea del Sud. Con 478 punti ( la media è 500) siamo dietro anche al Nord Europa, a Francia e Spagna. Ultima è la Tunisia a 382.

I nostri studenti al secondo anno delle superiori — 3.500 coinvolti nel rapporto — apprezzano la collaborazione a parole, ma faticano a metterla in pratica. Fortissimi nel risolvere i problemi da soli, al punto da risultare sopra la media nell’indagine 2012, crollano nel gioco di squadra: il 35% non raggiunge il livello minimo stabilito dall’Ocse, solo il 4,2% si colloca al livello avanzato. Il motivo? «La nostra scuola trascura questa competenza, importante nella vita e per quel che sarà chiesto nel mondo del lavoro. In altri Paesi la didattica è più basata sul lavoro di gruppo», osserva Laura Palmerio, responsabile Invalsi delle indagini internazionali. Le ragazze vanno meglio dei maschi ( 489 punti contro 466). E il Paese è spaccato in due: il Nordest traina con 516, il Sud e le Isole si fermano a 454. Ancora una volta, una scuola a due velocità.

(...)
 

C’è un fraintendimento tra il lavorare in gruppo e lo stare bene in gruppo.
Non serve andare in pizzeria insieme, ci sono gruppi che lavorano bene senza rapporti amicali. Più che stare bene con gli altri, è necessario lavorare insieme in modo efficiente e per farlo serve prima di ogni altra cosa la condivisione del senso di responsabilità. Ciascuno deve avere chiaro che il suo primo compito è eseguire ciò che gli è stato chiesto, nel miglior modo possibile. Poi, che si tratti di una classe a scuola, di una squadra, o un’azienda, c’è il momento in cui ci si deve saper prendere una maggiore responsabilità, come il giocatore che deve tirare se si trova libero nella posizione migliore per tirare. Così, al contrario, si deve accettare di lasciare spazio al compagno che è in condizioni migliori, il che implica riconoscere che in quel momento c’è qualcuno migliore di te. Chi conosce il valore del lavoro di gruppo sa accettare le oservazioni positive nello stesso modo in cui accetta le critiche.
Tutto questo a noi italiani non viene facilissimo, non sono un sociologo e non so spiegarne le ragioni, però mi sembra che a tutti i livelli, dalla politica al vivere quotidiano, il concetto di responsabilità non sia il nostro punto forte. 

(...)

Spesso nei ragazzi manca la capacità di lavorare collettivamente su un progetto concreto. In generale vengono spronati poco a scuola in questo senso, anche se le cose stanno lentamente cambiando. (...) La chiave smbra che sia mettere le persone attorno a un progetto da realizzare. Può essere un robot programmabile, un videogame.
Siamo in una società connessa e oggi le aziende richiedono il saper lavorare con gli altri.
Insomma, a scuola forse dovrebbero insegnare che il compito in classe non solo va passato ma va soprattutto migliorato da chi lo ha ricevuto.

(...)

Questi risultati derivano da un impianto didattico metodologico del nostro sistema educativo improntato su una scuola ottocentesca e superata, che non prevede di sviluppare le capacità di lavorare in gruppo. Mi riferisco soprattutto a quelle che chiamiamo, con un termine inglese, soft skills e che sono la competenza di lavorare in gruppo, sintetizzare i lavori di un gruppo, parlare in pubblico, esporre le proprie idee in forma di dibattito. Non si tratta di intervenire sul cosa fare a scuola ma su come farlo, su come è possibile rendere più coinvolgente un certo argomento, come coinvolgere gli alunni, come dare attuazione all’enorme creatività dei nostri ragazzi. E intervenendo sul come, si interverrà sul cosa si apprende. Ci sono già molte scuole che sperimentano modelli innovativi ed è importante sostenerle per farle divenire sistema. Tutto questo non può essere lasciato al caso, richiede un percorso di formazione e un processo di profonda conoscenza di quello che si intende fare, perché le improvvisazioni non pagano e possono portare a risultati tutt’altro che postivi. I dirigenti scolastici dovrebbero perciò favorire e assistere i docenti più dinamici, che già attuano le sperimentazioni per sviluppare competenze trasversali nei nostri alunni.

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giovedì 23 novembre 2017

Senza fiducia non si innova

(Fonte: "L'Impresa")

Di chi ci possiamo fidare oggi? In un mondo senza certezze, attraversato da una sfiducia generalizzata nelle istituzioni locali, nazionali e sovranazionali (...), è sempre più difficile fare un’analisi puntuale sulla fiducia.
Ci ha provato Rachel Botsman (...). Rachel, docente all’università di Oxford, considerata ormai un’autorità globale sui temi della collaborazione e della fiducia, che sarà in Italia in occasione del World Business Forum (Wobi, 7-8 novembre, Milano) – al quale parteciperà in veste di speaker – ha concesso a “L’Impresa” un’intervista esclusiva che di seguito vi proponiamo e che ha il valore di fare il punto sulle sfumature geografiche, storiche e culturali caratterizzanti questo prezioso elemento. «Il modo nel quale mi piace definire la fiducia è una relazione sicura con l’ignoto. Ma la fiducia ha due nemici: la scarsità di informazioni e la mancanza di accountability (Ndr responsabilità e trasparenza)» postula Botsman.


Come e quando lei stessa, che è un’esperta di fiducia, sente di potersi fidare e affidare e in quali
occasioni generalmente la sua (o la nostra) fiducia precipita?

Quando uno o entrambi i suoi nemici entrano in gioco: la fiducia nelle istituzioni è precipitata a
causa della povertà di informazioni, della mancanza di trasparenza sulle decisioni prese e sui processi, di un linguaggio non aperto e un approccio alla comunicazione orientato più che altro allo spin doctoring (Ndr raggiro, manipolazione delle informazioni). Ma anche per via di una generale mancanza di assunzione di responsabilità, ossia di accountability non solo quando le cose vanno bene, ma anche quando le cose vanno male. Perciò non meravigliamoci affatto se tutte le ricerche sulla fiducia pubblica (da quella di Pew a quella di Ipsos) registrano una generale situazione di crisi: in questo caso stiamo parlando di un tipo specifico di crisi di fiducia, la fiducia istituzionale nelle banche, nei mass media, nei governi locali e globali, nelle multinazionali.
 

(...)

Io credo che il crollo della fiducia abbia generato un vuoto, ma penso anche che la fiducia sia come l’energia, non si può distruggere ma solo trasformare in altre forme, io direi “redistribuire” ed è proprio questo processo di redistribuzione che mi attira e mi affascina, che ho studiato e cercato di definire (...)

Come scrive nel suo libro, lei pensa che stiamo vivendo nell’era della fiducia distribuita.
È ottimista rispetto a questo?

In effetti ci sono parecchi aspetti per essere ottimisti. Nel tempo che stiamo vivendo abbiamo l’occasione di usare la tecnologia per ridisegnare i sistemi e crearne di più inclusivi, trasparenti e corretti, in modo da dar voce anche agli ultimi e a coloro che non l’avevano nell’epoca della fiducia istituzionale. Ma il mio ottimismo non può prescindere da importanti caveat. Le conseguenze di una redistribuzione della fiducia sono immense, sia eccitanti sia spaventose. Posto che la fiducia sia
l’asset più importante di una società, dobbiamo essere cauti sulla sua redistribuzione per evitare di spostarla da istituzioni che ne hanno tenuto il monopolio troppo a lungo a politici che cavalcano cinicamente le onde del dissenso collettivo per loro puro interesse.
 

Quando diciamo che i cittadini globali non si fidano più, intendiamo una sfiducia generalizzata
verso le élites oppure una sfiducia più puntuale verso alcune istituzioni rappresentative del mercato e delle democrazie?

Direi entrambe le cose. Non credo francamente che facciano distinzione tra istituzioni o élites. Penso
piuttosto che le masse ritengano che il potere sia nelle mani di pochi privilegiati e che tutto questo
non sia più tollerabile. Nel mio libro parlo di un cambio di fiducia da verticale a orizzontale, le
persone oggi tendono a fidarsi dei pari: dei colleghi piuttosto che dei direttori generali; di altri cittadini piuttosto che di autorità preposte; di vicini di casa piuttosto che di governanti locali; dei pettegolezzi più che della voce un tempo autorevole dei giornalisti; degli amici di Facebook più che degli esperti, ma si fidano di più, in realtà, non di meno.


Insomma la fiducia ha solo cambiato direzione. Significa che non abbiamo più bisogno degli esperti e che, attraverso le piattaforme digitali, siamo ormai in grado di avere accesso a tutto ciò che ci serve direttamente?
Io credo che abbiamo certamente ancora bisogno di esperti, però, come le istituzioni, anche gli esperti devono adattarsi alla nuova era della fiducia distribuita, cambiando essi stessi approccio sia nella comunicazione sia nel sostegno alle scelte collettive.


Costruire relazioni di fiducia non è facile oggi neanche per chi è alla guida di un’impresa, non soltanto per chi è alla guida di un’istituzione, un sindacato o un partito politico. Nel suo libro c’è un esempio interessante di costruzione di relazioni di fiducia nella business community cinese ancora caratterizzata dai legami familiari. Guardando all’Italia, che cosa deve fare un imprenditore o un business leader per costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i suoi portatori d’interesse?
Credo che un imprenditore italiano necessiti oggi di aderire agli stessi percorsi di costruzione della fiducia che hanno caratterizzato tutte le culture in tutte le epoche storiche, anche quando la fiducia era, per così dire, più localizzabile e localizzata.
Ci sono quattro caratteristiche generali sulle quali vorrei focalizzare l’attenzione, che devono essere messe in campo per costruire relazioni di fiducia: le competenze, l’integrità, l’affidabilità e la generosità (ossia il grado di cura). Tutte le relazioni basate sulla fiducia reciproca hanno bisogno di questi quattro elementi chiave. Più vengono potenziate queste pillole, più i clienti e gli stakeholder ne saranno attratti.


La fiducia è un elemento fondamentale soprattutto per le aziende innovative: perché è così importante per quei clienti?
Nelle ricerche che ho portato avanti per il mio libro, clienti e aziende hanno identificato, in particolare, tre ragioni fondamentali per le quali la fiducia è così importante: primo, è essenziale per la reputazione. Secondo, la fiducia è quella che dà ai clienti il coraggio di prendersi un rischio su nuovi prodotti o nuovi servizi; terzo, è l’elemento che dà la certezza che l’azienda farà la cosa giusta anche quando le cose vanno male. 


E perché è così importante anche per i dipendenti?
Non dobbiamo dimenticare quanto la fiducia sia un elemento prioritario all’interno dei team e delle aziende affinché l’innovazione sia portata avanti. È proprio la fiducia a spingere i processi innovativi che altrimenti non procederebbero affatto. Perché è la fiducia a spingere le persone dal conosciuto all’ignoto, superando il gap dell’incertezza e della discontinuità con il passato di cui tutti abbiamo paura. Nelle aziende con culture a basso tasso di fiducia i dipendenti non si sentono a loro agio
prendendosi un rischio quando non c’è certezza sui risultati. Questo genere di aziende tende a rimanere impantanata all’inizio di ogni processo di innovazione. Per contro, quelle aziende ad alto tasso di fiducia tra i dipendenti legittimano le persone, in qualunque ruolo, a nuotare nel mare dell’incertezza senza averne alcuna paura e questo genera valore.
Fiducia, rischio e innovazione sono perciò intrinsecamente legati.


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mercoledì 22 novembre 2017

Anche fallire ci rende liberi

Anche la Rowling si accoda a questa filosofia: "Fallire ci rende liberi", articolo de "Il Corriere della Sera"

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martedì 21 novembre 2017

Manager che pensano come Toyota

(Fonte: "L'Impresa")

Il Toyota Production System è noto, insieme ai processi lean per ridurre gli sprechi e i costi di
produzione e di organizzazione, applicati più o meno estesamente e profondamente in molte aziende
occidentali negli ultimi trent’anni.
Ma quello che secondo Jeffrey K. Liker e Michael Hoseus si è perso per strada, e che forse non è mai
stato davvero assorbito dalle aziende occidentali, è l’aspetto di cambiamento culturale delle persone e dei manager, che rappresenta il cuore del “Toyota System 2001”. Un metodo, la cui codificazione ebbe una gestazione di oltre dieci anni e che si rese necessaria quando venne esportato nelle fabbriche acquisite da Toyota negli Stati Uniti, sistema datato proprio per esprimere il concetto di
organizzazione che continua ad apprendere (“Learning Organization”).
 

I due autori nel 2008 pubblicano Toyota Culture. The Heart and Soul of the Toyota Way (...) proprio per approfondire la cultura organizzativa sottesa al sistema di produzione Toyota, su cui si basa il successo continuo e durevole dell’industria automobilistica giapponese: il miglioramento continuo e il rispetto delle persone, attraverso la fiducia e il lavoro di gruppo. Nel
libro i due esperti introducono il concetto di “Flusso di valore delle persone” accanto al più noto “Flusso di valore del prodotto”, perché sono impensabili prodotti o servizi di qualità nel tempo, senza persone di qualità che pratichino il miglioramento continuo come atteggiamento quotidiano.
 

L’occasione perduta dagli Usa
 
Secondo gli autori le aziende automobilistiche americane hanno perso una grande occasione, perché all’inizio degli anni Ottanta avevano avviato anche una trasformazione culturale e non solo di processo, vedendo quelle autovetture – di qualità con poca necessità di manutenzione – incontrare il favore del pubblico.
Da lì, guardando come faceva Toyota, fecero tentativi di gestione del personale più partecipativa e meno basata sul comando-controllo, Ford con l’“Employee Involvement”, General Motors con il “Quality of work life” e Chrysler, prima dell’acquisizione da parte di Daimler, con i gruppi
interfunzionali, la collaborazione dei fornitori e la partecipazione degli operatori, che avevano portato a livelli alti di innovazione e, al tempo stesso, di riduzione dei costi. Ma questi tentativi di trasformazione culturale vennero spazzati via dalle successive operazioni di acquisizioni e fusioni con obiettivi di business di breve termine, che alla fine degli anni ’90 travolsero i mercati e i dipendenti stessi. 


Come cambiare stile di leadership 

 
Gli autori riportano numerosi casi di aziende che avranno anche avuto e continueranno ad avere momenti di successo grazie all’attuazione di metodologie lean, come il Lean Six Sigma, ma con il rischio che restino limitate a episodi e a specifici progetti, anziché venire interiorizzate come stile di leadership e di management, basato sulla cultura del miglioramento continuo affidato alle persone nel loro lavoro quotidiano.
Cambiare una cultura non è facile. Questa si basa su credenze, valori e solo come parte visibile su norme, comportamenti e prodotti. La cultura si cambia attraverso l’esempio e la presenza in prima linea, laddove si chieda di attivare un cambiamento 


(...) 

In Toyota parlano di dieci anni per formare un manager con mentalità Toyota e serve un accompagnamento molto accurato fin dal primo inserimento in azienda dei neoassunti. È un momento magico, raccontano, quello di trasferire le pratiche giuste fin dall’inizio, il perché di quello che fanno, i valori e i comportamenti corrispondenti che si aspettano da loro e su cui verranno
allenati tutti i giorni. Anche chi entra per brevi periodi viene preparato per una settimana prima di essere inserito sulla linea.

Come si fa ad avere persone di qualità, sempre ingaggiate nel miglioramento continuo? La chiave sta nel creare le giuste condizioni perché le persone si sentano ingaggiate nell’azione di miglioramento continuo, che altro non è che un’azione sistematica di problem solving. Per farlo è necessario mobilitare il cuore e la mente delle persone, attraverso un’azione coerente e credibile, e una forte attenzione ai dettagli. Perché è dalla cura dei dettagli che le persone comprendono se c’è
vero commitment. Il coinvolgimento nel problem solving ha un impatto positivo sia sulla qualità del prodotto, sia sulla qualità delle persone. Proprio per questo in Toyota è curato e istituzionalizzato come pratica di gruppo, che si attiva ogni qualvolta insorga un problema sulla linea, o in un ufficio. L’approccio Toyota è quello di far emergere i problemi per affrontarli, risolverli insieme e creare uno standard più alto di qualità. Ad esempio, al servizio clienti non si deve sperare nel buon cuore e gentilezza del singolo operatore, perché c’è una qualità standardizzata, patrimonio di saperi e best practice e, ogni volta che c’è una difficoltà nel servizio, la si affronta tra colleghi per innalzare ancora di più lo standard, che corrisponde al principio 6 del Toyota Way: Le mansioni standardizzate sono la base del miglioramento continuo e dell’autonomia dei dipendenti.
Interessante il concetto di autonomia associato allo standard. (...) In Toyota il lavoro standardizzato
rappresenta uno dei pilastri fondamentali. Tuttavia, vi è un aspetto psicologico importante: gli standard vengono sempre creati dalle persone che dovranno poi applicarli.
Solo in questo modo si pongono le condizioni per una reale comprensione e applicazione. Inoltre, tra
realtà analoghe, gli standard creati in un’area vengono “proposti” a un’altra area e mai “imposti”. In questo modo si trova in modo semplice, ma efficace, il giusto equilibrio tra autonomia e standardizzazione.
In produzione c’è un cavo che pende sopra la postazione di ciascun operatore (detto “Adon”), che
questi tira se commette un errore o se succede qualcosa di anomalo. In tal caso parte una musica e il team leader arriva prontamente, verificano insieme se il problema sia facilmente risolvibile, altrimenti si ferma l’intera linea finché non si trova una soluzione efficace collegialmente. Il quinto
principio del Toyota Way, infatti, intende costruire una cultura che si ferma per risolvere i problemi, per ottenere la qualità al primo tentativo, e il principio 13 dice che le decisioni si prendono lentamente e per consenso, considerando attentamente tutte le opzioni. Poi le decisioni prese si implementano rapidamente. 


C’è uno spostamento dal sistema di ricompensa-punizione all’osservazione della deviazione dallo standard per risolverla. L’operatore Toyota non ha paura di ammettere l’errore, anzi è abituato a richiamare l’attenzione su quello che non va, chiede al responsabile di venire a vedere, comportamento che presuppone l’altro importante principio, il 12, “Andare a vedere con i propri occhi per capire a fondo la situazione”. Sostenere che il difetto o lo scarto siano fisiologici,
invece, è come dichiarare la morte dell’eccellenza. Ovviamente, questo modo di gestire l’operatività è anche una conseguenza del primo principio della cultura Toyota: “Basare le decisioni di management su una filosofia di lungo periodo, anche a scapito degli obiettivi prefissati di breve periodo”. Fermare una linea per risolvere una difettosità, anziché andare dritti all’obiettivo numerico della giornata, ne è un chiaro esempio. Prevale la qualità e la qualità del processo
rispetto al risultato a tutti i costi. E poi, alla fine, curando il processo si cura anche la qualità del risultato e la sua sostenibilità nel tempo.
 

Si dà più valore alla forza del gruppo che non al singolo. La forza generativa del gruppo è
superiore alla somma dei singoli individui. E fa parte dell’atteggiamento di non colpevolizzare il singolo, di dargli fiducia, casomai il responsabile di quanto accaduto è il manager! Non si viene assunti come dipendenti, ma come “team member”.
Ogni aspetto è curato per esprimere coerenza tra valori e comportamenti e anche sul piano dei premi, per fare un altro esempio, questi vanno ai risultati del gruppo, non a quelli del singolo. E sono comunque piccole incentivazioni, perché l’ingaggio avviene ad altri livelli, ognuno è parte attiva e integrante del sistema. Nelle fabbriche Toyota ci si congratula con il collega che commette l’errore e
chiede aiuto, perché è l’occasione per fare tutti un passo avanti e alzare lo standard verso l’eccellenza. 


Dare fiducia e far sentire alle persone che si prendono in considerazione le loro idee sono leve motivazionali molto forti. Ma, ovviamente, ci vogliono a loro volta leader eccellenti, e questo è il principio 9: “Far crescere leader che comprendano appieno il lavoro, vivano la filosofia e la insegnino agli altri”. Ad ogni modo, non c’è bisogno di essere giapponesi per capire l’importanza di
dare un feedback ai propri collaboratori quando li si coinvolge in progetti di sviluppo e innovazione, chiedendo il loro parere o dei suggerimenti.
Non è solo educazione, ma fa parte di quel sentirsi considerati e non solo impiegati.


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lunedì 20 novembre 2017

La domanda che al colloquio stronca la maggioranza delle persone

Un selezionatore su "Business Insider Italia" ci racconta quale domanda stronca, solitamente, i candidati.
Sempre meglio conoscerla, vero?

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venerdì 17 novembre 2017

Capi non si nasce, si diventa

(Fonte: "Uomo e manager")

Capi non si nasce ma si diventa. Anche se c’è chi sostiene che una certa predisposizione sia necessaria, così come il carisma, per guidare altri uomini al lavoro. (...) Eccovi una vera e propria guida ai tratti distintivi del responsabile ideale, che si possono sintetizzare nei seguenti dieci punti.

  1. leadership by example: occorre essere, innanzitutto, un esempio, un motivatore e trasmettere in modo chiaro e senza distonie i valori e la visione d’impresa
  2. trasparenza: lavorare molto sulla comunicazione, compresa la parte sempre più difficile, cioè quella legata ai feedback negativi (dare quelli positivi è molto più semplice);
  3.  focalizzazione al raggiungimento dei risultati: trasmettere tranquillità e serenità, ma anche orientamento all’obiettivo (stress ed eccessiva emotività sono destabilizzanti per i collaboratori)
  4. imparzialità: utilizzare una metrica di valutazione delle prestazioni oggettiva per tutto il team di lavoro
  5. organizzazione: pianificare il proprio lavoro e quello degli altri, che significa, per esempio, presentarsi puntuale alle riunioni o definire aspettative e piani d’azione in modo chiaro
  6. capacità di ascolto: prestare attenzione ai collaboratori nelle sedi e nei modi prestabiliti, senza essere tuttavia un “confessore” o, peggio ancora, un “fratello maggiore”
  7. decisionismo: incertezza e tentennamenti sono nocivi all’organizzazione e minano l’autorevolezza del capo
  8. etica: valore essenziale di per sé, è anche ormai un presupposto richiesto da tutte le organizzazioni più evolute, in quanto fattore intrinseco di successo per il business
  9. empatia: saper riconoscere e anticipare i bisogni dei collaboratori consente di ottenere il meglio da loro
  10. divertimento: sebbene sia una componente alcune volte trascurata, come se fosse incompatibile con un approccio serio e rigoroso, saper introdurre un elemento di divertimento e di passione consente di cementare il team e aumentare commitment, engagement e senso di appartenenza
La leadership è un argomento centrale non solo per i dirigenti, ma anche per molti quadri in quanto di grande impatto per la fidelizzazione e la produttività dei collaboratori (...). Volendo poi individuare un tema trasversale a questi ruoli, la leadership si lega sempre di più alla responsabilità, tanto da poter quasi parlare di Corporate Social Responsibility diffusa. I mercati evoluti rigettano ormai categoricamente chi non ha un comportamento etico, che possa riflettersi negativamente anche sul business; cultura della responsabilità e leadership in senso etico garantiscono l’impegno dell’azienda e del management nella tutela dei propri dipendenti e stakeholder, fattore che, contribuendo alla buona reputazione della società stessa, va certamente a favorirne il rendimento”.

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giovedì 16 novembre 2017

10 consigli per avere successo con uno stage

"La Repubblica" ci spiega come avere successo facendo una stage e ci offre qualche consiglio per ricavarne il massimo dal punto di vista professionale.

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mercoledì 15 novembre 2017

Colloquio di lavoro: come far imbestialire il cacciatore di teste

Quali sono le cose che metteranno una pietra tombale sulla possibilità di ottenere un lavoro dopo aver svolto un colloquio con un cacciatore di teste? Ce lo dice "Business Insider".
Buona lettura!

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martedì 14 novembre 2017

I segreti per chi vuole cambiare vita

(Fonte: "Uomo e manager")

È giunto il momento di assimilare una lezione importante: qualsiasi sviluppo lavorativo o imprenditoriale futuro deve avere come centro il vostro dream, il vostro sogno: se stiamo correndo in discesa su una strada di montagna e senza freni, vogliamo esserci noi al volante. Ecco alcuni  piccoli segreti che possono aiutarci a cambiare la nostra vita.

1. I maggiori guadagni vengono dalle situazioni dove esistono i problemi importanti e dove la gente cerca soluzioni immediate È molto più facile che le persone chiedano il vostro aiuto o il vostro servizio se hanno un problema pressante a cui voi potete dare ausilio, cura, sollievo. Quando volete un abito nuovo, vi prendete il tempo per girare tra negozi e per scegliere quello che vi piace di più, ma se vi fanno male i denti, correte dal dentista più in fretta possibile. E dunque, più grave è la crisi, maggiore è il bisogno di professionisti/specialisti che aiutino a trovare soluzioni valide per tutte le parti coinvolte.  Guardare le persone, provare a capire quali sono le loro urgenze e cercare di essere i primi a risolverle: ecco il succo del segreto numero uno.

2. Per prosperare bisogna cercare un mercato dove la concorrenza sia forte ma non soverchiante
La mancanza di concorrenza non è mai un buon segno: spesso indica che non c’è “trippa per gatti”. Oppure che c’è un monopolista talmente forte rispetto al quale, se non si hanno frecce importanti e veramente efficaci al proprio arco, è del tutto inutile provare ad aprirsi una breccia per conquistare una quota di mercato.
Analizzare bene i livelli di concorrenza cercando di capire i settori dove ci siano spazi da sfruttare o vuoti da riempire ma senza entrare in ambiti dove i competitor, a prescindere dalla bontà assoluta della vostra idea, sono troppi o troppo forti: ecco la sintesi del segreto numero due.

3. Sviluppare e coltivare una competenza specializzata per costruire una nicchia di mercato che protegga dai concorrenti più grandi
Avete trovato un mercato che funziona e problemi a cui potete fornire soluzioni? Bene, ma ora dovete trovare anche una capacità o un modo per distinguervi dagli altri quel tanto che basta da avere un’area minimamente protetta dai “colossi”: altrimenti è facile finire schiacciati da chi è più forte.
La conclusione del segreto numero tre? Trovate un problema che potete risolvere, accertatevi che ci siano già concorrenti e imparate da loro, costruite la vostra nicchia o specialità nel campo che avete scelto e diventate i migliori del settore attraverso il continuo perfezionamento delle vostre competenze. Facile? Forse no, ma bisogna provarci…

4. Fare sempre qualcosa perché quando non siamo occupati si consuma la nostra autostima
Sono tanti anni che viviamo la crisi e la conseguenza è una sola: chi perde il lavoro o il proprio business rischia di perdere se stesso. Rassegnazione? Rabbia? No, dobbiamo provare ad uscirne più presto possibile perché quando non siamo occupati si perde la propria autostima. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi! In ogni caso, quando si è senza lavoro è importante continuare a tenersi occupati: alzarsi presto, prendersi cura di sé, assegnare un orario a tutte le cose da fare durante la giornata, appuntare tutti i contatti che possono esservi utili. Agite senza fretta ma senza fermarvi. La costanza e la perseveranza sono importanti per raggiungere ogni obiettivo.
Ecco l’essenza ultima del segreto numero 4: non stare a casa se c’è l’opportunità di fare qualcosa o di lavorare perché non facendo e non lavorando si consuma la propria autostima.

5. Sviluppare il brand personale 
Stiamo andando avanti ed abbiamo capito molte cose su come sopravvivere e prosperare nei periodi di crisi. Ma, adesso, cosa manca? Ancora qualcosa. Ad esempio, avete mai pensato a fare un po’ di personal branding, ad avere un vostro “marchio”, a promuovere voi stessi, il vostro valore e le vostre qualità come se fossero un vero e proprio prodotto o servizio commerciale? Quando invii un curriculum dove pensi che i selezionatori che recuperino informazioni? E di cosa vanno alla ricerca? In primis, del vostro profilo di Facebook, ma anche degli interventi sui forum, sui blog e di qualunque altra traccia lasciata online!
La regola “aurea” del segreto numero 6 è semplice: comunicare, comunicare, comunicare. L’unico modo per sopravvivere e fare business nei periodi di crisi. E non solo…

6. Costruire una rete forte di relazioni
Ma a cosa serve il personal branding se non a costruire una rete di relazioni? Se conosci la teoria dei 6 gradi di separazione, saprai che ogni persona può essere collegata a qualunque altra attraverso una catena di conoscenze personali con non più di 5 intermediari. In altre parole tu sei collegato a chiunque da una catena di soli 5 persone che siano amici, conoscenti, parenti.
Durante questa crisi economica, i legami (deboli o forti che siano) stanno acquisendo sempre più valore. Del resto è sempre così, nei periodi di difficoltà le persone tendono a creare gruppi omogenei (si stringono tra di loro). La competenza chiave nella quale è opportuno investire in questo periodo di crisi è per l’appunto la costruzione di nuovi legami forti. Fare networking è tutto nella vita: questa è la lezione del segreto numero 6.

7. Chiedersi quali sono le nostre armi vincenti
Il segreto dei segreti: uno dei più semplici: basta sottoporsi al (semplice) seguente test:
• Cose che hai superato e perché?
• Cose che non hai superato e perché?

8. Il vero segreto (come sempre) siete voi…
Non crediamo che ci sia tanto altro da aggiungere: la motivazione è tutto. Qualsiasi sia il periodo, di crisi o di prosperità, vincono quelli che credono di potere.

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In Italia non arrivano cervelli stranieri

(Fonte: "Affari&Finanza")

L’indice,  che  misura ogni  anno  la  capacità di sviluppare, attirare e fidelizzare i talenti di 118 Paesi, è costruito dalla multinazionale di selezione del personale assieme ai centri di ricerca di Insead e Human Capital Leadership  e ci  vede  per  il  2017  al 40esimo  scalino,  lontani  dai
Paesi europei di riferimento.
La Svizzera è al primo posto,  Singapore  al  secondo,  il Regno Unito, nonostante Brexit, si conferma al terzo. Danimarca,  Finlandia,  Norvegia, Olanda e Irlanda sono tutte posizionate nelle dodici nazioni di testa. La Germania è sul gradino 17, la Francia sul 24. La Spagna, simile per Pil e peso
della  crisi  economica  subita, ci precede di cinque postazioni e meglio ancora ha fatto il
Portogallo (31). Dopo di noi la Grecia, ferma al 43esimo posto, e tutto sommato posizionata meno peggio di quanto la debacle  dei  conti  pubblici avrebbe fatto pensare. Ma ci superano anche la Costa Rica (39) e le Barbados (36) che, almeno a quanto valutano le ricerche, sembrano dare qualche speranza in più ai giovani talenti. Quello che pesa sul cattivo  risultato  dell’Italia  è  soprattutto l’incapacità del Paese  di  costruire  accanto  alle aziende e alle risorse un ambiente favorevole alla crescita di entrambi, in grado di promuovere la concorrenza, l’innovazione e l’esercizio delle attività.
Bocciato  il  Paese  nel  suo complesso, non vanno meglio le singole città . Lo stesso indice applicato alle aree urbane vede, fra le prime cinquanta mete preferite da professionisti e risorse, solo tre centri italiani: Bologna al 26esimo posto, Milano (31) e Torino (35).
Dunque non abbiamo eccellenze riconosciute: essere un Paese attrattivo vuol dire mettere assieme aspetti legati alla qualità della vita, alla forza economica positiva e alla visione di  lungo  periodo.
Un mix che nelle città di dimensioni medie sembra più facile da realizzare: Bologna, Milano  e  Torino,  sono  lontane dal gruppetto di testa (Copenaghen, Zurigo ed Helsinki, ma vengono comunque prima di importanti  piazze  del  business internazionale come Dubai (36) o Shanghai.
Nella scelta fatta dai talenti sul luogo dove stabilirsi premia la qualità della vita, ma soprattutto la vitalità del territorio. Bologna, per esempio, grazie anche al supporto di una università di grande tradizione, è un territorio fertile per la nascita delle startup. Milano e Torino attraggono  più  di  altri  centri grazie agli investimenti finalizzati alla crescita.
In  realtà  “piccolo  è  bello” per certi aspetti aiuta, ma non può più bastare in un Paese
che non solo non premia la ricerca ( la percentuale di Pil dedicata resta ancorata all’1,38%
contro la media Ue del 2%) ma non è nemmeno disposto a retribuire bene i talenti in cerca
di realizzazione.
Dietro  quel  quarantesimo posto che ci esclude dalla fascia alta dell’attrattività vi è infatti  anche  un  problema  di compensi.  Le  retribuzioni,  si sa, sono più alte nei Paesi dove c’è crescita e in Italia la crescita rimane al di sotto di quella messa a segno da altri partner europei. Per cui, selezionare una città o un’azienda italiana in media non paga.
A  stilare  una  graduatoria, sotto questo aspetto, è l’indagine elaborata ogni anno dalla
società di consulenza americana Willis Towers Watson (“Global  50  Remuneration  Planning”). A guardare la retribuzione annuale lorda delle prime venti economie europee, i manager italiani di medio livello sono posizionati al 14esimo posto, che scende al 17esimo se le entrate non vengono lette in termini nominali, ma di potere d’acquisto. Costo della vita e tassazione fanno la differenza.  Ecco  quindi,  spiega  il rapporto della Willis Towers, perché di fatto i 70 mila euro lordi medi annui guadagnati in Italia da un manager di profilo medio, alla fine si riducono alla soglia reale dei 43 mila.
Anche qui in testa, ancora una volta, è la Svizzera: un quadro che lavora nella Confederazione  elvetica  intasca  circa  160 mila euro l’anno, il doppio di un collega italiano di pari livello, un dirigente fresco d’incarico parte dagli 85 mila. Certo anche lì, tasse e costo della vita accorceranno poi le distanze, ma non significativamente. Al netto della competitività del sistema Paese e del sistema educativo e al di fuori dagli investimenti e dal livello della tecnologia  applicata  su  cosa
può contare l’Italia per attrarre talenti dall’esterno? Qualità della vita e bellezza dei luoghi,
troppo poco per motivare una scelta.
ManagerItalia ha sondato il problema  chiedendo  ai  dirigenti  italiani  che  lavorano
all’estero se i loro colleghi sarebbero  disposti  a  trasferirsi da noi. Fra quelli che hanno dato il loro assenso il 90% ha legato la scelta al desiderio, fra altri motivi, di vivere  in  uno dei più bei Paesi del mondo, solo il 12% ha visto nell’Italia buone  possibilità  di  crescita professionale.  Fra  le  critiche
mosse con maggior frequenza al sistema, la tendenza al declino economico (98%), e il mondo del lavoro che non premia il merito (43%).


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lunedì 13 novembre 2017

Made in Italy competitivo se sostenibile

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Più di un’impresa su quattro dall’inizio della crisi ha scommesso sulla green economy, che in Italia significa più ricerca, innovazione, design, qualità e bellezza. Sono infatti 355mila le aziende italiane (ossia il 27,1% del totale) dell’industria e dei servizi che dal 2011 hanno investito, o lo faranno
quest’anno, in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2. Una quota che sale al 33,8% nell’industria manifatturiera, dove
l’orientamento green si conferma un driver strategico per il made in Italy, traducendosi in
maggiore competitività, crescita delle esportazioni, dei fatturati e dell’occupazione. E
quest’anno si registra una vera e propria accelerazione della propensione delle imprese a investire green: ben 209mila aziende hanno investito, o lo faranno entro fine dicembre, su sostenibilità ed efficienza, con una quota sul totale (15,9%) che ha superato di 1,6 punti percentuali i livelli del 2011.
 

È il quadro che si coglie dai dati di GreenItaly 2017, l’ottavo rapporto di Fondazione Symbola e Unioncamere, promosso in collaborazione con il Conai, uno studio che come da tradizione pesa la forza della green economy nazionale. Ne emerge, innanzitutto, che alla nostra green economy si devono già 2,9 milioni di green jobs, ossia occupati che applicano competenze “verdi”. Una cifra che corrisponde al 13,1% dell’occupazione complessiva nazionale, destinata a salire ancora entro
dicembre. Dalla nostra economia verde infatti arriveranno quest’anno 320mila green jobs
e, considerando anche le assunzioni per le quali sono richieste competenze green, si aggiungono altri 863mila occupati. Assieme all’occupazione, la green economy crea anche ricchezza: i quasi 3 milioni di green jobs italiani contribuiscono infatti alla formazione di 195,8 miliardi di valore aggiunto, pari al 13,1% del totale complessivo.
 

Le aziende della “green Italy” sono più propense a investire in ricerca: nel 2017 la diffusione
della divisione ricerca e sviluppo tra le medie imprese manifatturiere che hanno investito in prodotti e tecnologie green nel triennio 2014-2016 è a quota 27%, contro il 18% delle non investitrici. «Oltre a un tema di sostenibilità - sottolinea Domenico Sturabotti, direttore di Symbola - c’è anche un tema di dinamismo imprenditoriale: chi investe in green ottiene risultati migliori rispetto a chi non lo fa».
Ricerca e sviluppo sostengono i risultati in termini di fatturato ed export. Nel 2016 le medie imprese manifatturiere che investono green hanno avuto un dinamismo sui mercati esteri nettamente superiore rispetto al resto delle imprese: hanno incrementato l’export nel 49% dei casi, a fronte del 33% di quelle che non investono nel verde.
 

Spinto da export e innovazione, il fatturato è aumentato, fra 2015 e 2016, nel 58% delle imprese che
investono green, contro il 53% delle altre. E per quest’anno si aspettano di avere un incremento del fatturato il 57% delle imprese green contro il 53% delle altre. «Il fattore green - sottolinea Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere - è un elemento sempre più distintivo, che connota la parte più innovativa del sistema produttivo nazionale. Le imprese che investono sull’economia verde sono una fascia di eccellenza che mette insieme capacità di fare business e sostenibilità».
Qual è la cartina geografica dell’Italia degli eco-investimenti? Molte le imprese green nelle regioni del Nord, ma la loro presenza è diffusa in tutto il territorio nazionale. La Lombardia è la regione con il più alto numero di imprese sensibili al tema (63.170), seguono il Veneto con 35.370 unità, il Lazio con 30.020 imprese green, l’Emilia Romagna a quota 29.480 e la Toscana con 29.340. Quindi troviamo il Piemonte con 24.470, la Campania (24.230), la Sicilia (23.940), la Puglia (22.070) e
Marche (9.820). A livello provinciale, in termini assoluti, Milano e Roma guidano la graduatoria staccando nettamente le altre province italiane grazie alla presenza, rispettivamente, di 22.300 e 20.700 imprese che investono in tecnologie green. In terza, quarta e quinta posizione, con oltre 10mila imprese ecoinvestitrici si collocano Napoli, Torino e Bari. La prima regione per numerosità assoluta di assunzioni programmate di green jobs in senso stretto è sempre la Lombardia, dove se ne contano 81.620, pari a poco più di un quarto del totale nazionale (25,7%). Seguono a distanza il
Lazio, con 35.080 assunzioni (11% del totale nazionale), l’Emilia Romagna con 32.960 di green jobs (10,4%), quindi Veneto a quota 30.940 e Piemonte con 24.340.


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venerdì 10 novembre 2017

Welfare aziendale a misura di famiglia

(Fonte: "L'Economia")

Sono sempre più apprezzati dai lavoratori, perché permettono di alleviare numerosi problemi della vita di tutti i giorni. E dalle aziende, perché beneficiano d’importanti agevolazioni fiscali. I servizi di welfare aziendale rivestono una crescente importanza nella gestione delle risorse umane. «Il concetto si sta progressivamente allargando», sottolinea Fiammetta Fabris, amministratore delegato di Unisalute, compagnia del gruppo UnipolSai specializzata nelle assicurazioni sanitarie e sempre più presente anche in questo settore.
«Dai tradizionali ambiti della previdenza e della sanità, per il welfaresi sta progressivamente passando a un concetto più generale di benessere — spiega Fabris —. In quest’ambito sono
sempre più richiesti servizi che agevolano la conciliazione fra lavoro e impegni familiari e quindi l’occupazione femminile: nella stragrande maggioranza dei casi questi oneri ricadono infatti sulle spalle delle donne. Pensiamo ad asili nido aziendali, o contributi alle spese per baby sitter o badanti per l’ assistenza agli anziani non autosufficienti».

In base a una ricerca McKinsey, una ben strutturata politica di welfare produce effetti positivi e tangibili: maggior soddisfazione al lavoro, migliore immagine aziendale e più attaccamento all’azienda. In questo senso diventa un’importante leva di vantaggio competitivo sotto il profilo del benessere organizzativo. La domanda di servizi di welfare riguarda l’intera collettività dei dipendenti, a prescindere dalle caratteristiche socio-demografiche ed economiche, dall’età o dal genere. Secondo il 93% degli intervistati, «è importanteche l’azienda metta a disposizione politiche di welfare». Per il 97% è importante poter usufruire di servizi di assistenza agli anziani oppure di orari flessibili. Seguono congedi parentali (94% delle risposte), part time (93%), convenzioni con asili nido esterni o asilo nido aziendale, rispettivamente con il 92% e 91%.

Lo sviluppo del welfare aziendale ha ricevuto una forte spinta a livello legislativo. La Legge di Stabilità 2016 aveva potenziato le agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi e prestazioni di welfare aziendale ai dipendenti (asili nido, buoni pasto, assistenza sanitaria integrativa) e consentito l’erogazione dei premi di risultato sottoforma di servizi, introducendo
nuovi strumenti già sperimentati in altri paesi europei come il voucher per i servizi stessi. La legge di Bilancio 2017 ha proseguito su questa strada, aumentando da duemila a tremila euro per ogni lavoratore il tetto per le somme agevolate e da 50mila a 80mila euro i limiti reddituali per i lavoratori destinatari delle agevolazioni. Allo studio vi è pure lipotesi di introdurre agevolazioni fiscali legate alle coperture assicurative per malattie gravi e non autosufficienza. Un problema,
questo, che diventerà sempre più grave in un paese caratterizzato, come è l’Italia da un’elevata percentuale di anziani, e rispetto a cui il welfare pubblico offre una copertura piuttosto ridotta. «In questo nuovo contesto normativo il mondo aziendale si trova ad assumere sempre maggiori responsabilità per rispondere nel modo più completo alle necessità dei propri dipendenti e delle loro famiglie — sottolinea Fabris —. Dall’assistenza agli anziani ai servizi per l’infanzia, dalla conciliazione vita lavoro all’assistenza sanitaria integrativa, solo per fare qualche esempio. Le aziende inoltre, hanno compreso che il welfare sussidiario è fonte di numerose opportunità: contiene i costi e permette di offrire politiche retributive più rispondenti alle necessità dei destinatari, aumenta la produttività, fidelizza idipendenti».
In base ai dati del ministero del Lavoro, al 15 settembre scorso erano attivi 13.004 contratti aziendali e territoriali per la detassazione dei premi di produttività: 4mila di questi prevedono misure di welfare aziendale. Grazie a un accordo siglato nei mesi scorsi fra le parti sociali, queste intese sono possibili anche nelle imprese più piccole, prive di rappresentanze sindacali.


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giovedì 9 novembre 2017

Si lavora in modo smart

(Fonte: "L'Economia")


Lo smart working è una realtà ormai anche in Italia. Si stima riguardi 305 mila dipendenti, il 14% in più rispetto all’anno scorso, il 60% se ci si riferisce 2013, e che potenzialmente possa interessare 5 milioni di persone. Il freno al suo pieno sviluppo, oltre che dalla novità d’approccio che deve essere ancora assimilata, viene da una organizzazione del lavoro ancorata a vecchie logiche. L’adozione
di un modello meno legato alla presenza fisica potrebbe incrementare la produttività di ogni lavoratore del 15%, che a livello Paese corrisponderebbe a 13,7 miliardi di euro di benefici. Accanto a ciò è interessante aggiungere che una sola giornata alla settimana da remoto permetterebbe di risparmiare ogni anno 40 ore a testa per gli spostamenti portando con sé, oltre a una migliore qualità della vita, una riduzione di emissioni di 135 chilogrammi di anidride carbonica all’anno.

Sono questi i dati che emergono dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, tanto che in un passaggio del report si precisa in modo netto che,«considerando l’entità dei benefit a livello imprese,lavoratori e società ci si rende conto di come queste siano troppo importanti per potersi permettere di non sviluppare immediatamente un piano di intervento in grado di migliorare, accompagnare e incentivare un fenomeno che può dare slancio e utilità al Paese…». A oggi
sono però poche le realtà che ripensano i modelli di organizzazione del lavoro estendendo a tutti i lavoratori flessibilità autonomia e responsabilizzazione. Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio commenta: «Il rischio è di fermarsi al semplice lavoro a distanza e di considerarlo una sorta di “moda” limitata solo ad alcune categorie di lavoratori limitandone così i benefici. Paradossalmente lo smart working potrebbe essere proprio quello strumento che permetterebbe alle aziende di aggiornare il vecchio modello organizzativo sviluppando una cultura dell’orientamento
ai risultati e della fiducia favorendo l’empowerment dei collaboratori».
Ma c è un altro aspetto a cui prestare attenzione: lo smart working può diventare una leva di attrattività aziendale. A parità di posizione ricoperta solo l’1% degli smart workers è insoddisfatto sul lavoro contro il 17% di chi opera tradizionalmente; il 50% è molto contento di come può organizzare la sua attività rispetto al 22% di chi non lavora agilmente; il 34% ha un buon
rapporto con i colleghi e il capo contro il 16% di chi è soggetto a tempi e luoghi 

rigidi. «Ricerche recenti hanno segnalano il fatto — commenta Corso — che
lo smart working diventa uno dei principali elementi di valore percepito utile sia in termini di selezione sia di retention per una ampia fascia di popolazione». Veniamo ora ai dati sull’applicazione rispetto ai contesti. Lo smart working riguarda oggi il 36% delle grandi imprese. Queste hanno sviluppato progetti strutturati intervenendo su almeno due leve: flessibilità di luogo, di orari, di ripensamento spazi, cultura orientata ai risultati, dotazione tecnologica. Solo in nove casi
su cento però l’introduzione del lavoro agile ha generato un ripensamento generale dell’organizzazione: sviluppo di nuovi strumenti e competenze digitali, modelli manageriali basati su autonomia e responsabilizzazione sui risultati.

Cresce l’interesse anche da parte delle pmi che sviluppano flessibilità nel 22% dei casi, nel 7% con iniziative strutturate anche se il 40% si dichiara non idoneo. È il caso soprattutto delle aziende del manifatturiero, delle costruzioni e del commercio. Prospettive interessanti sulla flessibilità arrivano per il mondo della pubblica amministrazione grazie alla riforma Madia, e se oggi i lavoratori agili sono presenti solo nel 5% degli enti, nel giro di tre anni dovrebbero essere coinvolti il 10%
dei dipendenti. Infine, una nota critica viene da Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio. «La capacità di utilizzo delle tecnologie tra i lavoratori è inadeguata. Oltreché sull’introduzione
degli strumenti digitali è fondamentale agire sullo sviluppo delle competenze. Come la capacità di ripensare prodotti, processi e attività lavorative utilizzando nuovi strumenti e canali digitali oltre che la capacità di collaborare in team virtuali, esercitando una nuova leadership»


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mercoledì 8 novembre 2017

Gli sviluppi della quantistica non porteranno a una macchina consapevole

(Fonte: "Il Fatto")

Vive negli Usa da 50 anni, nella Silicon Valley, e ha innescato la rivoluzione tecnologica con le sue invenzioni: il primo circuito integrato a tecnologia Mos con porta al silicio, il primo microprocessore, il touch-pad. E il touch-screen, l’interfaccia più usata su tutti gli smartphone. Federico Faggin, il più eminente fisico italiano, celebrato nella Hall of Fame accanto a Enrico
Fermi e premiato dal presidente Obama con la National Medal of Technology, si sente però ancora italiano e ha tuttora una casa a Vicenza, la sua città natale. L’Economia lo ha incontrato a Genova in occasione della conferenza al Festival della Scienza, per rispondere alla questione centrale: «I robot del futuro: intelligenti e in grado di provare emozioni?» Non ci crede Faggin, è convinto che
le differenze tra l’uomo e le macchine siano incolmabili.


L’intelligenza artificiale dunque non ci sostituirà?
«Macché, è già in ritardo di parecchi decenni sulle promesse fatte. Alla fine degli anni ’50 Marvin Minsky e altri sostenevano che avremmo avuto nel giro di 30-40 anni macchine più intelligenti dell’uomo. Non è ancora successo».


Può risolvere solo problemi specifici?
«È così. Per battere il campione di Go occorre spendere milioni per realizzare un computer capace solo di giocare a Go. Se si chiede allo stesso computer di giocare a dama, non sa neanche da dove cominciare».


Eppure la capacità delle macchine di auto-apprendere è aumentata moltissimo, grazie alle reti neurali di cui lei è stato un pioniere...
«Le reti neurali sono state la soluzione che trent’anni fa quelli che lavorano nell’intelligenza artificiale avevano scartato, perché non credevano nell’autoapprendimento.
Oggi gli algoritmi che permettono il Deep Learning non sono molto diversi da quelli che usavamo negli anni ’80 alla Synaptics.
Ho fondato la società per creare chip capaci di imparare da soli, usando le reti neurali.
Poi mi ha raggiunto Carver Mead che ideava circuiti neuromorfici per la parte sensoriale. E nel giro di alcuni anni siamo riusciti a fare un chip per il riconoscimento dei caratteri che aveva dentro due reti neurali e un sensore di immagini. Abbiamo realizzato dei prodotti, ma non siamo riusciti a creare un’architettura generale che potesse essere applicata a qualsiasi problema di apprendimento.
E ancora nessuno l’ha fatto».


Dove sono allora i progressi?
«Nel calcolo parallelo che permette di fare centinaia di miliardi di operazioni al secondo, per risolvere problemi specifici in tempo reale. È migliorato anche il training delle reti neurali. Ma occorrono moltissimi esempi perché il computer arrivi a fare le giuste correlazioni: solo con un apprendimento supervisionato dall’uomo le reti neurali arrivano ad imparare bene».
 

Vuol dire che non c’è ragionamento?
«No. Ci sono voluti decenni per insegnare alle macchine il riconoscimento delle immagini, così facile per l’uomo. Oggi ci dicono che fra altri trent’anni ci saranno macchine capaci di acquisire l’esperienza e la consapevolezza umana. Io sostengo che non sarà mai possibile con un computer classico. Come minimo ci vorrà un computer quantico. Ma non sono nemmeno sicuro che si arriverà ad avere robot consapevoli con un computer quantico».
 

Perché?
«La coscienza è qualcosa che le macchine non hanno. Non parlo di morale, ma della consapevolezza necessaria per avere coscienza, per poter fare scelte giuste».


Da vent’anni si dedica allo studio scientifico della coscienza e per questo ha creato la sua Fondazione. Cosa ha scoperto?
« Verso la fine degli anni ’90 ho cominciato a studiare come poter fare un computer consapevole. Ma ho capito che era impossibile.
Sono convinto che la consapevolezza sia una proprietà fondamentale della natura, poiché le macchine hanno solo segnali elettrici».
 

Può spiegare con un esempio?
«Prendiamo una rosa: posso aver insegnato a un robot a riconoscere le molecole della rosa che finiscono sui suoi ricettori, creano segnali elettrici che vanno a finire in reti neurali, le quali hanno imparato che una certa combinazione di molecole corrisponde al profumo di una rosa. Alla fine il naso artificiale mi dice: rosa. Ma non ha mai sentito il profumo della rosa. Anche noi abbiamo
reti neurali nel nostro cervello, ma i segnali elettrici vengono trasformati in profumo. La rosa la conosciamo dai sensi: l’immagine visiva, la sensazione del profumo, il tatto. E questo genera emozioni, associazioni, ricordi. La rosa per noi è un’esperienza. Chi sostiene che si possono fare robot consapevoli non capisce la differenza che c'è tra segnali elettrici e sensazioni, emozioni, sentimenti. I computer non potranno mai avere coscienza perché manca questo passaggio fondamentale che è proprio degli esseri viventi. E non si può trasferire alle macchine. Un mucchio di bit, organizzati come si vuole, non è cosciente».


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martedì 7 novembre 2017

In Europa si discute di lavoro

(Fonte: "L'Economia")

Nelle prossime due settimane la città di Göteborg, Svezia, sarà la capitale dell’Europa sociale.
Mercoledì si terrà un incontro interministeriale sulle pari opportunità e l’eguaglianza di genere, fortemente voluto da un governo, quello di Stoccolma, composto in maggioranza da donne.
Il 17 novembre avrà poi luogo un vero e proprio summit sociale in pompa magna. I capi di Stato e di governo nonché i presidenti delle istituzioni europee apporranno la loro firma alla proclamazione interistituzionale del Pilastro europeo dei diritti sociali. Il testo del Pilastro definisce i contorni
della dimensione sociale Ue con riferimento a tre macro-aree tematiche: «pari opportunità e accesso al mercato del lavoro», «condizioni di lavoro» e, non in ultimo, «protezione sociale e inclusione».

Per ciascuna macro-area vengono elencati i diritti da tutelare, per un totale di 20. Si va dal diritto «a un’educazione e un aggiornamento professionale di qualità», alla garanzia di ricevere «un compenso che garantisca il soddisfacimento dei bisogni di lavoratori, lavoratrici e rispettive famiglie», fino al diritto ad «un’adeguata rete di protezione sociale, a prescindere dalle specifiche forme contrattuali».
 

Come si integrerà tutto ciò nell’attuale assetto di governance economica dell’Ue e dell’Eurozona? La Commissione ha elaborato una scoreboard che traccerà il progresso (o meno) dei Paesi rispetto ai singoli diritti: come e quanto vengono tutelati? I risultati delle analisi riassunte nella scoreboard confluiranno direttamente nel sistema di supervisione del Semestre europeo, garantendo —idealmente — un equilibrio tra priorità economiche e sociali. Al di là del meccanismo di governance, il testo rappresenta un punto di riferimento importante per governi, sindacati, associazioni di categoria e stakeholder dei vari Paesi per sviluppare una dialettica coerente e coordinata. Insomma, ora spetta a tutte le componenti sociali — e non solo alle istituzioni Ue — favorire il rispetto e il rafforzamento della dimensione sociale dell’Ue all’interno delle discussioni pubbliche nazionali ed europee.
 

Sempre sul fronte sociale, i governi Ue hanno inoltre approvato, a maggioranza, la cornice generale per la revisione della Direttiva sui lavoratori distaccati. Il testo licenziato dal Consiglio prevede la riduzione del tempo massimo di permanenza dei lavoratori distaccati in un altro Paese, da 18 a 12
mesi (basta però una notifica da parte del datore di lavoro per prolungare di altri 6mesi). Ma l’elemento più importante riguarda i livelli di compenso e di contributi sociali: dovranno entrambi essere in linea con la legislazione del Paese di effettiva esecuzione del servizio. 


(...)

La proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali e la modifica della Direttiva sui lavoratori distaccati cercano di controbilanciare gli effetti negativi — sul piano sociale e politico — che la disciplina fiscale e la libertà di movimento dei lavoratori hanno avuto sui sistemi nazionali. L’obiettivo non è certo quello di costruire un welfare federale standardizzato: operazione non desiderabile né proponibile. Si tratta piuttosto di arricchire l’ architettura istituzionale Ue con elementi capaci di sorreggere i modelli di welfare nazionali, stimolandoli nel contempo ad adattarsi al cambiamento. Una strada lunga e tortuosa, ma politicamente necessaria per restituire legittimità all’Unione.

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lunedì 6 novembre 2017

Industria 4.0: Italia in ritardo

(Fonte: "Il Fatto Quotidiano")


Nel 2016, la commissione Attività produttive della Camera ha consegnato la sua indagine conoscitiva sull’Industria 4.0, quella dove l’automazione sostituisce il lavoro umano per intenderci, e nel lungo elenco dei Paesi “eccellenti” in questo campo mancava proprio l’Italia. C’erano gli Usa e il Giappone, ma anche il Belgio e la Francia, nonché la Germania, più eccellente degli altri, almeno in Europa. La nostra situazione è poi migliorata, quando nella scorsa legge di Stabilità sono stati inseriti incentivi alle aziende per l’acquisto di tecnologie avanzate. Ma l’Italia, pur vantando punte di diamante nella robotica, rischia di non salire in tempo su un treno che cambierà l’economia e la società del futuro prossimo: “Il 14,9% del totale degli occupati, pari a 3,2 milioni, potrebbe perdere il posto di lavoro entro 15 anni”, prevede un recente studio The European House-Ambrosetti.

(...)

E' bene sapere, però, che le macchine non “rubano” il lavoro alle persone – anzi, i Paesi più avanti mostrano tassi di disoccupazione minore – a patto che il processo sia governato dalla politica. In modo che gli impieghi cancellati dall’avvento di macchine e software sempre più sofisticati possano essere rimpiazzati da mansioni più qualificate. Anche qui, però, i numeri elaborati (...) restituiscono un quadro preoccupante: il valore aggiunto generato dall’industria negli ultimi dieci anni è diminuito in Italia del 2,1%, in Germania è aumentato del 3,8; la quota di Pil investita in ricerca e sviluppo è stata il 2,8% dalle parti di Merkel e appena l’1,3 dalle parti di Renzi-Gentiloni.

Più significativo ancora, il confronto sulla qualità dei posti di lavoro creati negli ultimi cinque anni. Nella fascia di retribuzione più bassa “vince” l’Italia con 470 mila impieghi contro 200 mila della Germania. Nella fascia più alta il risultato si capovolge, e i tedeschi ci stracciano: 680 mila contro 100 mila.

La rivoluzione dei robot rimette in gioco uno slogan quasi dimenticato: “Lavorare meno, lavorare tutti”, non più urlato nelle piazze o verniciato sui muri, ma analizzato dagli scienziati sociali in saggi e convegni.

In Italia se n’è fatto portabandiera il sociologo Domenico De Masi (...), che intervistato dal mensile del Fatto afferma: “Nel nostro Paese lavoriamo 1.800 ore l’anno pro capite e abbiamo sei milioni di disoccupati”. Se scendessimo alle 1.482 ore pro capite dei francesi, avremmo “oltre quattro milioni di posti in più”. E se toccassimo le 1.371 ore pro capite dei tedeschi (che dunque, a dispetto dei luoghi comuni, lavorano meno di noi, ma in modo più efficiente)? “Allora guadagneremmo 6,6 milioni di posti”, conclude De Masi.
Di fronte a questo approccio non mancano i critici, come Francesco Daveri, direttore del Master in Business Administration della Bocconi, secondo il quale considerare l’orario trascorso in fabbrica o in ufficio come “una torta da spartire” non può funzionare. Ma il “Lavorare meno, lavorare tutti” ritrova uno sponsor insospettabile, ha scoperto FqMillennium rovistando nell’archivio della Fondazione Luigi Einaudi: Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, che nel lontano 1933 scriveva all’economista futuro presidente della Repubblica mettendolo in guardia dai rischi della disoccupazione provocata dalla meccanizzazione, proponendo appunto una riduzione dell’orario (Einaudi respinse la proposta in nome del libero mercato).

(...)

E se si lavora meno, o non si lavora affatto per effetto dei robot, come si campa? Il dibattito riporta in auge anche il reddito universale, o reddito di base, garantito a tutti indipendentemente dalla condizione lavorativa o dallo stato di disoccupazione. Utopia o scelta obbligata? Il dibattito è aperto (...).

Non sono solo gli operai a doversi preparare a un cambio epocale. Si può vedere come software sempre più evoluti e capaci di apprendere siano già entrati nelle professioni intellettuali, come il medico, l’avvocato, il manager, il giornalista.

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venerdì 3 novembre 2017

Ai tempi dei robot aumenta il valore del capitale umano

(Fonte: "Affari&Finanza")

Gli effetti diretti e collaterali dell’automazione industriale sul mondo del lavoro sono ancora tutti da scoprire. Le previsioni del futuro, tanto complicate quanto appassionanti, aiutano ad accendere di volta in volta il dibattito sul rapporto che lega l’evoluzione tecnologica delle imprese e il futuro
dell’occupazione, anche se non di rado  si  finisce a  discutere banalmente di più o meno lavoro, senza sviscerare a dovere tutti gli aspetti di una partita aperta a qualsiasi risultato finale. Un approccio problematico perché il paradigma dell’industria 4.0 è una di quelle declinazioni  dell’economia  digitale  che mettono in dubbio la sostenibilità degli attuali modelli occupazionali
e formativi.


La quarta rivoluzione industriale, ripetono continuamente esperti e ricercatori, si rivelerà e si sta già rivelando molto più rapida delle precedenti. La capacità di essere al passo con i tempi della trasformazione digitale è dunque una qualità decisiva, che il dibattito pubblico limita tuttavia  troppo  spesso  all’ambito strettamente  tecnologico.  L’introduzione  di  robot,  sensori  e  software nelle fabbriche è fondamentale per guadagnare efficienza, velocità e competitività, ma attenzione a
perdere di vista la partita del capitale umano. Una fabbrica connessa senza lavoratori digitali non ha futuro. A meno che non si voglia credere davvero a scenari fantascientifici di un lavoro destinato ad essere appannaggio  esclusivo  dei  robot, accompagnato da chissà quale sistema di welfare e reddito garantito per tutti.


La corsa agli investimenti attivata dal piano nazionale italiano per l’industria 4.0 ha purtroppo lasciato per strada e penalizzato mediaticamente l’ambito delle competenze  digitali.  Un’assenza  diventata evidente con il primo tagliando del piano Calenda, che ha spinto il Governo ad affidare al Miur e al ministero del Lavoro le chiavi della regia di quella che potremmo definire una fase due. A loro spetta ora l’arduo  compito  di  coinvolgere aziende, enti di categoria, scuole, università e centri di ricerca lungo la via italiana al lavoro 4.0. Capire assieme dove, come e quando indirizzare la formazione delle nuove generazioni e di quelle già in attività maggiormente esposte al rischio
di scomparsa o profonda trasformazione. Una sfida che non ammette errori.
I sindacati, le associazioni e le università  appaiono  comunque consapevoli di questo punto di svolta. Dalle loro audizioni per l’indagine della commissione Lavoro del Senato  sull’impatto  professionale dell’industry 4.0, è emerso un forte accento sulla necessità di immaginare un sistema  di educazione e formazione che “eviti il rischio di marginalizzazione dal mercato dovuto al divario tra velocità del cambiamento e velocità dell’apprendimento”. È necessario, sottolinea il documento finale, “orientare il sistema educativo non tanto verso i contingenti fabbisogni delle imprese, quanto verso la continua impiegabilità in un mercato del lavoro caratterizzato da mutazioni veloci e
imprevedibili”. I nodi da sciogliere sono  molti,  dalla  valorizzazione della formazione tecnica al ripensamento dei percorsi triennali, passando per il rapporto scuola-impresa. Ma il tempo a disposizione è poco. E più si aspetta, più si riducono i margini di manovra.


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giovedì 2 novembre 2017

Ricompensare i non fumatori per le pause non godute?

Se i fumatori utilizzano apposite pause per fumare, chi non fuma e non usufruisce di queste stesse pause va ricompensato. E' questa la teoria di un'azienda giapponese che ha destato non poco scalpore dalle nostre parti. "la Repubblica" ci racconta nel dettaglio tutta la vicenda.

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