venerdì 29 settembre 2017

Sviluppo sostenibile (1)

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

"Il Sole 24 Ore" ha dedicato un intero inserto allo sviluppo sostenibile. Abbiamo deciso di proporvi alcuni estratti che ci sono sembrati interessanti e che leggerete tra oggi e i prossimi giorni.
Buona lettura!

La Strategia nazionale vede il traguardo

Verso il varo il provvedimento del Governo con le politiche per favorire la sostenibilità ambientale, economica e sociale in base agli obiettivi Onu

La Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile comincia a vedere il traguardo dell’approvazione. Il documento coordinato dal ministero dell’Ambiente, discusso dai principali stakeholder italiani a marzo (oltre 200 Ong, università e agenzie di ricerca) e presentato alle Nazioni Unite in luglio, potrebbe essere portato al prossimo Consiglio dei ministri per l’approvazione. La buona notizia è che aggiorna la Strategia per lo sviluppo sostenibile prevista dalla legge 221/2015 utilizzando l’Agenda 2030 e gli SDGs (i 17 Strategic development goals) delle Nazioni Unite come quadro di riferimento, andando ben oltre le dimensioni puramente ambientali come inizialmente immaginato. Quindi, è un
documento che vola alto.
«L’Agenda 2030 e i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite - commenta il
ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti - sono il quadro di riferimento di una Strategia
che affronta come mai si è fatto prima la profonda interrelazione tra le dinamiche ambientali e la crescita economico-sociale. Abbiamo avviato un processo complesso, non solo per le molte istituzioni a lavoro sulla Strategia, dai diversi ministeri e ai vari livelli di governo (Regioni e Comuni), ma anche perché l’ottica della Strategia è necessariamente pluriennale e deve contemperarsi con i vincoli di finanza pubblica ben noti».
Ma c’è un “ma”. «La cattiva notizia è che, rispetto al documento visto a marzo, nel testo non ci sono più riferimenti a target quantitativi nell’ambito degli obiettivi da raggiungere (in termini di contenimento delle emissioni, mobilità sostenibile, equità sociale, riduzione della disoccupazione giovanile e del gender gap, ad esempio) e agli strumenti per conseguire gli obiettivi: questi aspetti dovrebbero essere definiti entro fine anno in un secondo documento, che orienterà le politiche pubbliche degli anni a venire», spiega Enrico Giovannini, ex ministro ora portavoce dell’ASviS, la piu grande rete di organizzazioni che si occupano di sostenibilità in Italia (con 175 associazioni, università, fondazioni e altri soggetti associati). Un’assenza, quella dei target numerici (che avrebbero dato concretezza a un documento di spessore), che però è stata ben ponderata. «Gli obiettivi sono elevati, ma ciò non vuol dire che stiamo ragionando sui massimi sistemi - spiega il ministro Galletti -. È emersa la necessità di coordinare meglio programmi e target con quelli derivanti da altri impegni assunti dal nostro Paese a livello internazionale, soprattutto a livello di Unione europea, nonché di valutare con maggiore dettaglio, ministero per ministero, le risorse da associare alle azioni inserite nella Strategia, per renderle coerenti con l’azione del Governo e le
disponibilità economiche. Questa Strategia va vista come imprescindibile per comporre un piano industriale Paese ed è dunque nello stesso tempo un programma di governo».
La palla passa ora ai “domini” della grande partita della sostenibilità economica, sociale e
ambientale italiana: il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro delle finanze Pier
Carlo Padoan. Il primo, nel corso del Festival dello sviluppo sostenibile organizzato dall’ASviS a giugno, ha promesso che avrebbe portato la cabina di regia della Strategia a Palazzo Chigi, per vegliare sulla sua attuazione concreta (facendo riemergere la passione ambientalista coltivata anche in politica per anni).
«Inoltre, il premier si è impegnato a emanare una direttiva ai ministeri affinché incorporino
gli obiettivi dell’Agenda 2030 nei propri piani per il triennio 2018-2020: una direttiva che sarebbe preziosa e urgente, sulla quale contiamo», aggiunge Giovannini.
L’altro dominus di questa partita, perché tiene saldamente in mano i “cordoni della borsa”
pubblica, è il ministro dell’Economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, non a caso invitato domani alla presentazione del Rapporto ASviS 2017 sul tema «L’Italia e gli obiettivi di sviluppo
sostenibile». «Gli presenteremo i nostri modelli econometrici, analoghi a quelli usati dal suo
ministero, con differenti scenari sull’evoluzione del nostro Paese al 2030 in base alle diverse
politiche adottate e dimostreremo che il costo sociale e di mancato sviluppo derivante dall’inazione è troppo alto da affrontare», spiega Giovannini, che di modelli statistici se ne intende (in quanto docente di statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata, ex chief statistician dell’Ocse ed ex presidente dell’Istat).
Al di là dei target numerici mancanti, la Strategia appare ben impostata, attorno a cinque aree tematiche derivanti dal suggestivo modello delle 5 “P” (persone, pianeta, prosperità, pace,
partnership), già usato con successo a livello internazionale. Gli obiettivi sono talmente “alti”
che possono apparire velleitari: «promuovere un modello di sviluppo equo e sostenibile che richiede uno sforzo collettivo volto a ridurre diseguaglianze, povertà, disoccupazione e a proteggere ambiente, natura e clima», si legge nel documento. 


(...)

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giovedì 28 settembre 2017

Le aziende che gestiscono i rischi aumentano i ricavi

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Cresce la platea di imprese che percepisce l’importanza di una puntuale e strutturata gestione dei rischi. Anche perché i risultati testimoniano come la prassi porti dei vantaggi economici non indifferenti.
A testimoniarlo è la nuova edizione del report Cineas – il Consorzio universitario non profit fondato dal Politecnico  di Milano nel 1987 – realizzato in collaborazione con l’area studi di Mediobanca. La quinta edizione dell’Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese italiane evidenzia che le realtà dotate di un sistema integrato per la gestione dei rischi ottengono
mediamente un terzo degli utili in più rispetto alle realtà che invece ignorano o sottovalutano
l’aspetto.
«Il 25,3% delle imprese del campione presenta un sistema integrato dei rischi – spiega Adolfo Bertani, presidente di Cineas – e il dato è in crescita rispetto al 2016 quando si fermava al 17,2%. Il 47,2% delle realtà monitorate ha un approccio segmentato e il 27,5% non ne dispone affatto». Insomma, una buona fetta di medie imprese italiane continuano, probabilmente, a considerare il risk management come una fonte di costi con scarse ricadute positive per l’azienda. Ma i risultati della
ricerca Cineas-Mediobanca dicono il contrario: «In termini di performance economiche –
sottolinea Bertani – si evidenzia un differenziale di Roi che supera il 30% a favore delle imprese virtuose dal punto di vista della gestione del rischio».



(...)

La ricerca ha coinvolto 272 medie imprese operative nei settori della meccanica, chimica farmaceutica, alimentare, carta e stampa, metallurgia, beni per la persona e la casa.
L’identikit restituisce realtà strutturate, con un fatturato medio di oltre 60 milioni di euro e un numero di addetti superiore a 150. Sono, si legge nello studio, «di imprese di proprietà familiare fondate nei primi anni Settanta alla guida delle quali, nella maggioranza dei casi, sono impegnate le prime due generazione».
Il passaggio generazionale è uno degli elementi individuati dalle aziende come un rischio
potenziale da gestire. Ma la classifica dell’Osservatorio (basata sulle risposte delle imprese) sui rischi più temuti mette al primo posto la sicurezza sul lavoro, seguita dal cyber risk (la cui percezione è cresciuta di molto negli ultimi anni). Solo in fondo alla classifica il rischio da catastrofi naturali.
«Man mano che ci si sposta verso la gestione di rischi che esulano dall’obbligatorietà legale ma che attengono più propriamente all’attivazione di leve competitive – evidenzia il direttore dell’Ufficio studi di Mediobanca, Gabriele Barbaresco – , si amplia il differenziale in termini di redditività industriale a vantaggio delle imprese che dedicano a essi presidi efficaci.
È il caso delle competenze professionali (+8%), degli aspetti reputazionali (+10%), della sicurezza informatica evoluta e protezione dall'hackeraggio (14%) fino al presidio della qualità del prodotto e quindi della sua non replicabilità (+21%)».
Come si tutelano le aziende dai rischi? La soluzione più diffusa è un partner esterno, spesso un consulente; alla compagnia assicurativa si rivolge solo il 28,8% del campione. Del 16,7% che affida la gestione dei rischi a risorse interne, solo il 5,2% ha nel proprio organico un risk manager.


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mercoledì 27 settembre 2017

Parliamo di diversity manager

(Fonte: "la Repubblica")

Promuovere l’inclusione di genere, di abilità, di provenienza, di orientamento sessuale o religioso è un bene per le aziende. Così si anticipano i bisogni dei clienti, si dà modo all'impresa di innovare e di valorizzare tutti i talenti impiegati.

(...)

Chi è il diversity manager? (...) Si può dire che ancora non esiste una definizione precisa. Nessuna azienda crea questa figura dal nulla: si tratta sempre di una persona che già ricopre un ruolo alla quale è affidato anche questo incarico”. In genere si tratta di dipendenti inseriti nelle risorse umane o nella responsabilità sociale. Impossibile, a oggi, dire quale sia la formazione più diffusa tra i diversity manager: c’è chi è laureato in filosofia, chi in legge, chi in economia. Questo potrebbe essere un bene: tante sensibilità differenti che si occupano di inclusione. Anche in questo caso, le diversità arricchiscono.

Il ruolo del diversity manager. Il suo scopo è l’inclusione. In generale, un diversity manager tutela le diversità – di abilità, di orientamento sessuale, di genere, di religione, di etnia – prima ancora di sapere se sono presenti nell’azienda. Poi, si occupa della loro valorizzazione, sia attraverso progetti pratici, sia con la promozione di campagne di sensibilizzazione.

(...)

Sbocchi professionali. A oggi, (...), sono le grandi aziende quelle più sensibili su questi temi, quelle più aperte e pronte a innovare. Da parte delle piccole medie imprese, invece, si riscontrano alcune resistenze. (...) Il problema non è di ordine economico (basterebbe che per la formazione si appoggiassero ad aziende più grandi), bensì di carattere culturale. Per cominciare a occuparsi di questi temi serve la volontà politica da parte della proprietà. Spesso le pmi sono guidate da uomini e/o sono a conduzione familiare. Per loro, aprirsi a queste tematiche significa un doppio salto culturale. (...) Presto, però, tutte le aziende si accorgeranno del vantaggio di lavorare con team misti, in tempi e modi diversi. L’inclusione permea molti ambiti, tutti si possono accorgere di come sia fondamentale. Nel mondo del lavoro solo una cosa deve contare: le competenze. Oggi, se cerchi posizioni aperte sulla diversity, nel nostro Paese ne trovi giusto un paio. Ma se effettui la stessa ricerca a Londra, sono moltissime. Si spera che anche qui da noi, presto, sarà così.

(...)

Per ora, non esistono nemmeno riferimenti legislativi. Come è successo per la sicurezza sul luogo di lavoro, una legge serve, anche se, spesso e volentieri, le aziende sono più avanti della politica. Comunque, le campagne di sensibilizzazione sono imprescindibili perché anche da lì passa il cambio culturale che deve accompagnare un’ipotetica normativa. È necessario che passi il messaggio che la diversità non è tanto un valore aggiunto, un plus, ma un vero e proprio pilastro fondamentale. Ma le cose stanno cambiando. Nell’ultimo anno i diversity manager sono aumentati esponenzialmente. Detto ciò, arriviamo comunque tardi: di questi temi gli Stati Uniti se ne occupano dagli anni Sessanta. Da lì, Inghilterra e Nord Europa sono stati ‘contagiati’. In Italia ce ne accorgiamo solo ora: diciamo che è lo specchio del nostro Paese. Il fenomeno migratorio ci obbliga anche a cominciare a parlare di questi temi.

Il vantaggio di avere un diversity manager in azienda è quello di dialogare e comprendere i bisogni dei clienti per riuscire a offrire servizi di qualità. Così, un’azienda dovrebbe attivare politiche per la diversity per tre motivi: per anticipare – e accogliere – i bisogni dei clienti; perché “la diversità porta innovazione”; perché c’è la necessità di valorizzare tutti i talenti in azienda, presenti e futuri, disabili, giovani, vecchi, italiani, stranieri, omosessuali. Se il pregiudizio ci porta a considerare sempre come più meritevole l’ingegnere maschio 30-40enne, rischiamo di perdere valore. E per accogliere le diversità dobbiamo creare ambienti aperti, stimolare il pensiero critico e l’accettazione reciproca. Quando parliamo di diversità e inclusione parliamo di una filosofia. Ci si augura che tra 10 anni di diversity manager non esisteranno più, perché sarà la modalità normale con cui tutte le politiche delle risorse umane saranno sviluppate. 


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martedì 26 settembre 2017

Se lo stipendio cresce solamente con gli anni

(Fonte: "L'Economia")

In quasi tutti i Paesi Ue le retribuzioni dei lavoratori giovani (meno di 30 anni) tendono ad essere inferiori a quelle dei lavoratori più anziani (più di 60). In base ai calcoli di Eurostat, la differenza
varia però molto fra Paesi: in Scandinavia è di circa il 20% in meno, in Germania e Gran Bretagna il 30%, in Spagna il 65%. Nel nostro Paese la percentuale è del 60%. Tuttavia il divario è fermo dal
2006, mentre negli altri Paesi si è ridotto. In Italia continuano a prevalere criteri basati sulla anzianità. Le basse retribuzioni dei giovani costituiscono un grosso problema, nonché un incentivo
alla fuga dei cervelli. 


Il governo ha intenzione di favorire l’ occupazione giovanile con uno sgravio contributivo selettivo e temporaneo.
Difficilmente questa misura inciderà sui livelli delle retribuzioni dei neo-assunti e certo non avrà effetti sui differenziali retributivi fra giovani istruiti e meno istruiti. Come ha recentemente
suggerito Tito Boeri in una intervista al Corriere, lo strumento più adatto per affrontare il problema è la contrattazione decentrata. È a questo livello che diventa possibile allentare i vincoli dell’anzianità e sperimentare nuove forme di collegamento fra retribuzioni e premi, da un lato, e produttività individuale dall’altro lato, indipendentemente dall’età.


In Danimarca, per fare un esempio, la contrattazione decentrata ha portato proprio a questo risultato, ossia ad incrementi retributivi che hanno premiato e incentivato le capacità dei giovani. Imboccando questa strada si darebbe un doppio segnale: più giovani occupati, con paghe più in linea con le loro effettive competenze.


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lunedì 25 settembre 2017

I cervelli da noi non tornano

(Fonte: "L'Economia")

Per i giovani più istruiti i confini nazionali sono sempre meno rilevanti.
Contano le possibilità di trovare un lavoro coerente con la propria formazione, gratificante, ben pagato, con buone prospettive di carriera.

Nel mondo della ricerca scientifica, in particolare, la circolazione dei «talenti» è molto elevata: esiste ormai un sistema globale di porte girevoli, con giovani nazionali che escono e giovani stranieri che entrano in questo o quel Paese.

(...)

Il saldo di talenti è positivo per iPaesi anglosassoni ed in particolare per gli Usa. Ma lo è anche per alcuni piccoli Paesi come Svizzera, Svezia
o Danimarca.Per altri Paesi (Francia, Germania, Olanda) il saldo è vicino allo zero (l’emigrazione è quasi interamente compensata dall’immigrazione).
L’Italia si segnala invece per un saldo fortemente negativo, quasi da Paese in via di sviluppo. È la sindrome di quella «fuga dei cervelli» a
senso unico di cui finalmente si è cominciato a discutere.
Nella rilevazione non figurano i Paesi dell’Europa centro-orientale. Sappiamo che l’adesione alla Ue ha promosso in quest’area un enorme brain drain (fuga di cervelli, appunto) a tutto vantaggio degli altri Paesi
Ue. Ma l’onda si sta arrestando. Il rapporto«The labour force boomerang» pubblicato da Colliers International lo scorso luglio indica che una fetta consistente di emigrati dei Paesi Ue della ex-Cortina di Ferro —Polonia, Slovacchia, RepubblicaCeca, Ungheria, Romania e Bulgaria — potrebbe presto rientrare in patria dopo anni passati in Europa occidentale. Da un lato, ci sono i fattori di «spinta» come la Brexit e la caduta del valore della sterlina. Dall’altro, quelli di «attrazione»: il trend di crescita dei salari, la diminuzione consistente dei livelli di corruzione, una tassazione del reddito più agevole e il relativo aumento degli indici di qualità della vita a
Est.

Il rapporto mette in luce un altro dato interessante: le iniziative (poche, ma mirate) messe a punto dai governi di quei Paesi per richiamare i propri talenti. Si va dal piano «Ritorno» di Praga che sostiene le imprese che assumono ricercatori emigrati all’estero al programma ungherese «Giovani tornate a casa!», mirato agli expat nel Regno Unito. La Romania ha stanziato un fondo ad hoc a cui possono attingere imprenditori di ritorno in patria, a fronte di un capitale di investimento proprio di 40mila euro. Infine, vi è il piano di re-integro degli emigrati del governo slovacco (partenza in questi mesi) che ha come target gli 80mila giovani nel Regno Unito.
Benintesi: il rientro potenziale dei giovani dell’Est non è una conseguenza della chiusura del divario economico tra Ovest e Est Europa. O almeno, non soltanto. Ma potrebbe esserne un presupposto. L’assenza di forza lavoro qualificata nel corso degli ultimi due decenni ha infatti rallentato il percorso di convergenza con l’Europa occidentale.

La laurea in Italia non serve
Ma torniamo all’Italia. Qualche settimana fa un rapporto di Confindustria ha sottolineato il danno del brain drain sull’ economia del Belpaese di oggi
e domani. Un paragone tra Francia (un Paese con alti livelli di disoccupazione, ma non afflitto dal fenomeno brain drain) e Italia, sulla base dei dati Eurostat del 2016 aiuta a comprendere il problema. Sebbene l’Italia registri un tasso di disoccupazione maggiore per ogni livello di
istruzione (primaria, secondaria, terziaria) e qualsiasi fascia di età (15-19, 20-24, ecc.) il gap fra i due Paesi aumenta, lungo le varie coorti, per i tassi di disoccupazione dei giovani con livello di istruzione terziaria.
Nel 2016, in Italia, tra i 25 e i 29 anni è stato più facile trovare un lavoro con in tasca la licenza media o un diploma piuttosto che la laurea. Ciò spiega perché ilaureati francesi non partano dal loro Paese, mentre gli italiani sì.

Tutti più poveri
Ci sono soluzioni all’orizzonte? Da un lato è necessario affrontare il problema della de-industrializzazione per risolvere il macigno della disoccupazione tra i meno istruiti. Dall’altro lato sono indispensabili misure specifiche e selettive per trattenere e richiamare i più istruiti. Non è neppure detto che tutto ciò sia sufficiente. L’evoluzione a Est ci insegna che, oltre alle azioni dei governi, contano anche le condizioni di
contesto.
Le statistiche dell’Ocse mostrano chiaramente come l’Italia sia fanalino di coda nella classifica dei Paesi che facilitano l’ avvio di nuove forme di impresa. Sono due i parametri chiave: l’accesso al credito e a canali di formazione dedicati.
La sfida èenorme. Rassegnarsi ad essere un «Paese per vecchi» è come fare harakiri, il suicidio rituale dell’antico Giappone. Senza giovani in gamba che lavorano e producono non si generano abbastanza risorse. Diventeremo tutti progressivamente più poveri, in un perverso circolo
vizioso


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venerdì 22 settembre 2017

Parliamo di job crafting

(Fonte: "Starbene")

Il tuo lavoro inizia a pesarti? È fonte di disagio, non ti appassiona più come un tempo? Probabilmente il tuo primo pensiero è “Cerco un posto nuovo”. In realtà esiste anche una soluzione meno drastica: darti da fare per riprogettare alcuni suoi aspetti, così da modellarlo meglio sui tuoi interessi, abilità, bisogni e – di conseguenza - tornare ad apprezzarlo e a rendere di più.

CHE COSA SIGNIFICA


Questo approccio fai da te, spontaneo e proattivo ha un nome: job crafting o JC (come lo ha battezzato nel 2001 un team di psicologi americani), traducibile con “personalizzazione del lavoro”.
Non è sinonimo di rivoluzione, ma di evoluzione: l’idea di base è che intraprendenza e iniziativa
individuale possono produrre cambiamenti piccoli ma decisivi. È il caso, per esempio, di una
commessa in un negozio di abbigliamento che si annoia ad allestire gli scaffali, quindi escogita
un modo di piegare gli abiti diverso da quello appreso al training e più veloce. Il risultato? Meno
noia e più tempo per dedicarsi a compiti per lei stimolanti, come decorare le vetrine. Oppure è
il caso di un insegnante che supera le difficoltà della programmazione didattica creando un’alleanza informale con docenti di altre sezioni con i quali scambiare idee e materiali. 


PARTI DA QUI 


Oggetto di molti studi negli Stati Uniti, il job crafting ora è arrivato anche in Italia, con testi
accademici, corsi e gruppi di ricerca nelle università (come quelle di Milano Bicocca, di Torino,
del Salento, di Roma Sapienza e Lumsa). E inizia pian piano a essere divulgato al pubblico con
seminari proposti da agenzie per il lavoro, patronati ed enti di formazione. In genere sono tenuti
da psicologi, counselor o coach specializzati in lavoro e benessere organizzativo. «Ma forse attui
già strategie di job crafting senza esserne consapevole», rivela Luigi Pugliese, psicologo del lavoro
e delle risorse umane. «Se vuoi sfruttare tutta la sua forza, però, devi capire come si declina e come
metterlo in pratica intenzionalmente. La prima cosa da sapere è che con il JC hai la possibilità
di agire su tre livelli: i tuoi compiti professionali; le relazioni; il modo di vedere la tua posizione e
ciò che essa implica». Vediamo livello per livello.


RIFLETTORI ACCESI SUI COMPITI


«Con il JC dei compiti aumenti o diminuisci il numero delle tue incombenze, cambi la maniera
di affrontarle e intervieni sul tempo e sulle energie dedicati», illustra il dottor Pugliese. «In genere
scatta inconsciamente grazie all’esperienza accumulata e alla ripetitività di certe mansioni, come
nel caso della commessa di cui sopra: a furia di ripiegare capi, trova una tecnica che le permette di
ottenere gli stessi risultati in meno tempo. Un altro esempio? Un’impiegata di un ufficio commerciale
si sente oppressa dalla corrispondenza burocratica, mentre ama il contatto personale con i clienti.
Per alleggerire le sue giornate, decide di sbrigare i compiti stressanti al mattino – momento in cui è
più riposata e carica - programmando quelli più piacevoli e gratificanti per il pomeriggio».
Certo, affinché tutto questo possa accadere, la commessa e l’impiegata devono godere di una
certa libertà. Eccoci dunque a un nodo fondamentale: spesso il JC dei compiti è attuabile solo
se il contesto lo permette, in pratica se i cambiamenti non entrano in conflitto con le procedure
e/o con l’immagine dell’azienda, e se i superiori sono d’accordo. Per intenderci: chi opera in una catena di fast-food non può preparare i panini a modo suo; fortunatamente, però, può riprogettare
il suo lavoro agendo a livello della percezione (ma lo vedremo dopo). «A proposito del benestare dei capi, devi tenere presente che spesso le aziende non incentivano gli interventi autonomi dei dipendenti per paura che si creino intoppi e conflitti interpersonali», riprende lo psicologo. «In
realtà, un lavoratore che sente di avere un margine di indipendenza e si impegna ad apportare
dei cambiamenti, molte volte raggiunge risultati positivi non solo per sé, ma anche per l’impresa.
Se i suoi referenti gli riconoscono tutto ciò, la sua motivazione cresce e di conseguenza la percezione di autonomia viene rafforzata, dando vita a un circolo virtuoso di innovazioni dal basso benefico
per tutti. Vuoi superare la diffidenza dei piani alti? Non nascondere i tuoi propositi di evoluzione. Confrontati con i tuoi referenti e, se necessario, pure con i colleghi: se ti mostri preparato e determinato – ma non aggressivo – probabilmente otterrai il loro appoggio».


L’IMPORTANZA DELLE RELAZIONI


«Cambiare la natura e l’entità delle relazioni che si tessono sul posto di lavoro è lo scopo del JC
delle relazioni. Attenzione: non significa diventare amica di tutti ma, per esempio, avvicinarti a chi
ti può insegnare qualcosa, connetterti con chi ti rallegra, essere presente per chi ha bisogno di
aiuto e perciò ti fa sentire utile. Oltre, ovviamente, prendere le distanze da chi ti disprezza, danneggia o invidia. Oggi tutto ciò è concretizzabile grazie alla tecnologia: con WhatsApp, sms ed email comunichi in modo istantaneo, chiedi e offri aiuto con più disinvoltura, ti confronti fuori
dall’orario canonico, ma anche eviti di interagire fisicamente con persone sgradevoli. Il consiglio è
di non limitarti a rivedere i rapporti con i colleghi e i superiori, ma considerare anche altri soggetti.
Un esempio al riguardo arriva da uno studio statunitense che documenta i progressi fatti da alcuni addetti alle pulizie ospedaliere, decisi a dare una svolta a un lavoro alienante provando a interagire con i pazienti e le loro famiglie.
Chiacchierando con i ricoverati, conoscendoli per nome, facilitando per quanto possibile il contatto
con i parenti, questi lavoratori sono riusciti a dare un senso più ampio alla propria posizione
e a incrementare motivazione e soddisfazione», racconta il dottor Pugliese.


L’ULTIMO LIVELLO: LA PERCEZIONE


Il JC della percezione è mentalmente più complesso dei precedenti ma socialmente più semplice, perché non richiede né la partecipazione né l’approvazione di altri. Si tratta infatti di modificare come percepisci e interpreti i tuoi compiti, le relazioni o il lavoro in senso globale. «Pensa
a due colleghi, con la stessa mansione, ai quali viene chiesto “Di che cosa ti occupi?”», esemplifica il nostro esperto. «Il primo, focalizzandosi solo sul suo ruolo, risponde “Trasporto pietre”.
Il secondo, che ha una visione più ampia, dice “Contribuisco alla costruzione di un edificio”, il
che dà un significato molto diverso al gesto quotidiano di trasportare pietre. Mettendo in pratica
il JC della percezione, puoi smettere di pensare come il primo uomo e iniziare a ragionare come il
secondo. In altre parole, diventi consapevole che il tuo ruolo è compreso in uno scopo più grande
e riesci a sopportarne meglio gli aspetti negativi.
Per esempio, sei una collaboratrice scolastica e ti definisci “quella che pulisce dove gli altri
continuano a sporcare”? Prova a ri-vederti come “la persona che provvede a spazi puliti e ordinati,
dove insegnare e imparare è più piacevole”. È verosimile che questo scatto mentale ti porti ad
avvicinarti agli studenti e ai docenti in maniera nuova, magari meno infastidita e più empatica e,
pertanto, anche ad aggiustare i tuoi compiti (per esempio, potresti organizzarti per stare in mezzo
ai ragazzi durante la ricreazione). Già, perché i tre livelli su cui agisce il JC sono interdipendenti,
ovvero: l’uno tira l’altro. Basta avere il coraggio di iniziare da qualche parte».


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giovedì 21 settembre 2017

CV e colloqui vincenti. Quanto conta la motivazione

(Fonte: "La Stampa")

Sono  molti  i  giovani  che vorrebbero  lavorare  all’estero  o  gli  over  50  che vorrebbero  cambiare  lavoro.
Ma spesso non conoscono le regole per scrivere un curriculum e per affrontare il colloquio.
 

Curriculum
Secondo un campione di 619 selezionatori  in  12  paesi  europei intervistati  da  Page  Personnel
queste  sono  le  mosse  da  non trascurare. 


Il numero di pagine. 
Nei paesi del Sud Europa come Spagna, Portogallo e Italia, dove le aziende ricevono un altissimo  volume  di  candidature,  è importante  limitare  il  curriculum  entro  le  due  pagine.  Il 98%  dei  consulenti  Hr  italiani conferma questa misura, seguito dal 92% degli spagnoli e dall’85% della Turchia. In controtendenza la Germania, dove solo il 27% dei “recruiter” richiede un cv inferiore alle due pagine.

La foto. 

Chi intende cercare lavoro in Germania dovrebbe sapere  che,  nonostante  le  rigide leggi  sulla  privacy,  il  100%  dei selezionatori si aspetta di vedere  un’immagine  professionale all’interno del cv. Segue la Polonia con il 79%. Percentuali simili si trovano in Olanda, Svizzera, Spagna e Portogallo. In Italia, il 75% dei selezionatori considera la foto un elemento importante, mentre in Francia e Belgio la foto  viene  considerata  un’extra.

Esperienza.  

Avere  una  precedente  esperienza  all’estero  è importante  per  i  selezionatori dei paesi mediterranei. L’Italia è al vertice con il 91%, seguita da Spagna (83%) e Turchia (80%).
Ovviamente  vanno  certificate le conoscenze delle lingue straniere.  


Interessi  e  motivazione.
Se  si  desidera  ricercare  delle opportunità lavorative nei Paesi  Bassi  bisogna  sapere  che  il
74% dei selezionatori trova decisivo leggere nel cv dettagli sui propri  interessi  personali.  Lo
stesso  succede  in  Portogallo (68%) e Germania (64%). Dimostrare  una  forte  motivazione
personale  è  fondamentale  anche per cambiare lavoro. Lo richiedono  Paesi  Bassi  (90%)  e
Belgio (78%). 


Colloquio
Se il cv ha fatto centro, arriva l’ora del colloquio faccia a faccia con i selezionatori. Secondo Jobrapido, primo motore di ricerca attivo in 58 paesi che lo ha  chiesto  a  2.300  candidati
della sua community, in fase di colloquio la difficoltà più grande è quella di rispondere a domande non strettamente legate al proprio percorso professionale.  Meno  se  si  tratta  di domande di cultura generale o relative alla propria personalità. I candidati sdrammatizzano  le  domande  sulla  motivazione a cambiare lavoro solo se ci si prepara prima: affermano che  l’azienda  assegna  una
grossa  importanza  alla  motivazione e alla voglia di affrontare  nuove  sfide  professionali
(45%). Oltre alla forte motivazione, il 17% pensa che sia importante  dimostrare  le  proprie competenze tecniche, segnalare i tratti del carattere e la  personalità  (16%),  puntare
sull’aspetto  fisico  e  l’abbigliamento (7%), mentre solo il 3% scommette  sul  proprio  livello
di cultura generale. 


Oltre il 65% raccoglie numerose informazioni sull’azienda e il  18%  prepara  un  discorso  sul
proprio  background  professionale. La cura del profilo social, spesso uno dei fattori che invece  i  recruiter  tengono  in  maggiore  considerazione,  viene  invece abbastanza trascurata (se ne preoccupa solo il 4%). Al termine dell’intervista di lavoro, le domande  sono  un  buon  modo
per  mostrare  l’interesse  verso l’azienda (47%).


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mercoledì 20 settembre 2017

Per essere maggiormente produttivi bisogna passare meno tempo in ufficio

Lavorare meno ore non diminuisce l’effettiva produttività, ma stimola l’efficienza e la forza creativa, veri motori dell’innovazione. Ma il riposo, per essere produttivo, deve essere anche attivo: camminare, fare sport o coltivare hobby. Ce lo racconta: "la Repubblica".

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martedì 19 settembre 2017

Welfare in un contratto su tre

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Nelle grandi aziende italiane si diffondono le piazze virtuali del welfare: i dipendenti entrano in
una piattaforma telematica e, nell’ambito di un determinato plafond, sono liberi di scegliere il servizio che più interessa: un asilo nido, una polizza sanitaria, una palestra, un viaggio di formazione all’estero, un piano di previdenza complementare o l’abbonamento ai mezzi pubblici.



(...)

Diamo un'occhiata all'indice rilevato per misurare lo “stato di salute” del welfare nelle Pmi: la ricerca 2017, su un campione di 3.422 imprese di taglia small, mostra che il 40% è attivo in almeno quattro aree di welfare aziendale, il 58% in tre, e le imprese che attuano iniziative in almeno sei aree
sono quasi raddoppiate: 18,3% del totale rispetto al 9,8% del 2016.
Insomma qualcosa si muove, anche grazie al fatto che nel quadro di regole che disciplinano la cosiddetta detassazione dei premi di risultato, con la Manovra 2016 è emersa la possibilità di convertire il premio (monetario) in benefit compresi nell’ambito di un piano di welfare aziendale.
Una possibilità che deve essere prevista da un contratto di secondo livello (aziendale o territoriale)
siglato dai rappresentanti di aziende e lavoratori.


Dall’ultimo monitoraggio del ministero del Lavoro sui premi di produttività emerge che tra i 12.711
contratti “attivi”, 3.909 - quindi quasi uno su tre - offrono ai dipendenti la possibilità di scegliere il
welfare aziendale “esentasse” in alternativa al bonus monetario in busta paga (tassato al 10 per cento).
I numeri, certo, sono ancora di nicchia, ma il trend registrato dai bollettini mensili del Lavoro è incoraggiante: al 16 agosto risultavano inviate - attraverso la procedura telematica - 25.349 dichiarazioni di conformità, per il deposito dei contratti firmati fin dal 1° gennaio 2015.
All’interno di questa platea, le intese tuttora attive sono 12.711, come citato in precedenza, cresciute di 1.172 nel giro di un mese.


(...)


La manovra 2017 ha aumentato la potenza di fuoco della detassazione sui premi di risultato: il limite
per i bonus è salito dai vecchi 2mila euro fino a 3mila e si è allargata anche la platea dei beneficiari, con lo spostamento verso l’alto del tetto di reddito dei lavoratori per avere la tassazione agevolata, da 50mila a 80mila euro lordi annui.
La spinta al welfare è poi arrivata dall’azzeramento dei limiti di deducibilità in caso di conversione
del premio in servizi per sanità e previdenza integrativa (esenzioni anche oltre le soglie di 3.600 euro
per le spese sanitarie e di circa 5.200 euro per i versamenti alla pensione integrativa).
Infine la manovra di primavera agganciata al Def - il decreto legge 50, convertito dalla legge 96 del
2017 - ha aggiunto un nuovo tassello: nell’ipotesi di «coinvolgimento paritetico dei dipendenti nell’organizzazione del lavoro» il beneficio è doppio. Alla possibilità per il lavoratore di applicare la “cedolare secca” al 10% sull’intero premio (che viene riconosciuta in tutti i casi di detassazione), si affianca per il datore di lavoro lo sconto di venti punti percentuali dell’aliquota contributiva per invalidità, vecchiaia e superstiti su massimo 800 euro, ma solo per gli accordi siglati dopo il 24 aprile 2017.


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lunedì 18 settembre 2017

Pochi laureati, non si riesce a far fronte alle richieste

In Italia il vero scoglio resta la formazione. Tante le richieste, troppo pochi i laureati.
L'articolo è de: "Il Corriere della Sera".

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venerdì 15 settembre 2017

La norma ISO 9001:2015 a confronto con le precedenti

Come è cambiata la ISO 9001:2015 rispetto alle due versioni precedenti del 2008 e del 1994?
Vediamolo subito con qualche numero a confronto!

Elementi: nel 1994 erano 20, nel 2008 sono passati a 5 per arrivare ad essere 10 nel 2015
Punti normativi: 1994 - 59, 2008 - 51, 2015 - 51
Procedure richieste: 1994 - 26, 2008 - 6, 2015 - 0
Registrazioni richieste: 1994 - 20, 2008 - 21, 2015 - 17


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giovedì 14 settembre 2017

Popolarità della ISO 9001

Dai dati del 2015, 33 Paesi al mondo detengono il 90% delle certificazioni della qualità (ISO 9001, ISO/TS 16949, ISO 13485) emesse.

Siete curiosi di conoscere quali sono i Paesi più certificati al mondo per quanto riguarda la qualità dei loro prodotti e servizi?
Eccovi accontentati!

Cina 28,49% sul totale delle certificazioni
Italia 12,18 %
Germania 5,25%
Giappone 4,42%
USA 3,80%
Regno Unito 3,78%
India 3,72%
Spagna 3,03%
Francia 2,69%
Romania 1,86%

E poi, a seguire:

Brasile
Corea del sud
Australia
Svizzera
Malesia
Colombia
Cechia
Polonia
Taiwan
Olanda
Thailandia
Israele
Russia
Turchia
Messico
Indonesia
Portogallo
Canada
Argentina
Grecia
Ungheria
Singapore
Slovacchia

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mercoledì 13 settembre 2017

I settori maggiormente certificati

Ieri abbiamo visto quali Paesi possano vantare il maggior numero di certificazioni della qualità. Se vi fosse rimasto il dubbio di quali siano i settori più certificati, vi accontentiamo subito!

Settore IAF di accreditamento 17 "Metalli e prodotti in metallo" 13,18% delle certificazioni totali
Settore IAF di accreditamento 19 "Apparecchiature elettriche ed ottiche" 9,48% delle certificazioni totali
Settore IAF di accreditamento 28 "Costruzione" 8,48% delle certificazioni totali
Settore IAF di accreditamento 29 "Commercio all'ingrosso, al dettaglio e intermediari del commercio" 8,44% delle certificazioni totali
Settore IAF di accreditamento 18 "Macchine ed apparecchiature" 7,11% delle certificazioni totali
Settore IAF di accreditamento 35 "Altri servizi" 6,39% delle certificazioni totali

Di seguito, troviamo:

14 - Prodotti in gomma e materie plastiche
34 - Servizi d'ingegneria
12 - Chimica di base, prodotti chimici e fibre
33 - Tecnologia dell'informazione
31 - Trasporti, logistica e comunicazioni
3 - Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco
38 - Sanità ed altri servizi sociali
37 - Istruzione
32 - Intermediazione finanziaria, attività immobiliari, noleggio
4 - Tessuti e prodotti tessili

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martedì 12 settembre 2017

Incidenti sul lavoro: sale il numero

Questo articolo de: "la Repubblica" ci racconta che, purtroppo, il numero degli incidenti sul lavoro sta crescendo e, con lui, quello dei morti. Si parla di più di tre persone al giorno.

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lunedì 11 settembre 2017

L'importanza del fallimento

Torniamo sull'argomento di questa riflessione di qualche tempo fa (accesso al forum di QualitiAmo previa registrazione gratuita) con questo nuovo articolo de: "La Stampa".

Tel Aviv e il fallimento “Qui anche i flop fanno curriculum”

E  se  il  segreto  del  successo fosse  fallire?  Se  un  business catastrofico diventasse un caso da studiare? Dietro app e progetti  geniali  si  nascondono inciampi, più o meno grandi, che possono insegnare molto a  chi  scommette  su  nuove start-up. La lezione arriva da Tel Aviv, paradiso hi-tech sul Mediterraneo.

Tra Rothschid boulevard e gli altri viali a pochi passi dal mare batte il cuore dell’innovazione. Fuori dalle sedi delle multinazionali e dei 90 acceleratori  di  start-up.  Nei dehors dei bar, incastonati tra
case  in  stile Bauhaus  e  moderni grattacieli, alcuni  giovani scrutano  lo schermo  di  un Mac.  Stanno  discutendo un nuovo  progetto  da lanciare. «In nessun’altra  città  al mondo c’è un fermento  simile», spiega  Margaux Stelman, del municipio  di  Tel Aviv. Qui c’è il record  di  start-up per abitante: una ogni  290,  2.800 in  tutta  la  città, più che nella Silicon Valley. E i fallimenti non si nascondono,  li  si «celebra»  in eventi particolari.
Si tratta delle «Fuckup Nights» (eufemismo per andare in malora), un format nato a Città  del  Messico  nel  2012.
Cinque amici, davanti a una bottiglia di mezcal, borbottavano sfogandosi dei loro flop: «Se organizzassimo un evento dove raccontiamo i nostri fiaschi? Sarebbe più originale delle noiosissime conferenze in cui i guru insegnano la ricetta del successo». Quella sera è nata l’idea esportata in
oltre 200 città di tutto il mondo. Ma è qui a Tel Aviv che è diventata  un  appuntamento cult: ogni mese un paio di serate fanno il sold out. In sette minuti  imprenditori  e  startuppari  di  successo  raccontano le esperienze finite male, rispondendo alle domande del pubblico.

«A volte è più utile di una seduta dallo psicologo», assicura  Adam  Rakib,  28  anni, speaker  di  una  serata.  È  un giovane imprenditore che nel 2012, con altri soci, ha realizzato  una  piattaforma  per  videogame  in  realtà  virtuale.
Dopo un anno è stata venduta a  una  multinazionale  per  12 milioni di dollari. «Ma non è stata  tutta  in  discesa,  anzi.
Prima  di  avere  successo  ho sbattuto  la  testa  più  volte», racconta.  L’apologia  del  fallimento  nelle  «Fuckup  Nights» recita più o meno così: sbagliare non impedisce di avere successo.  Anzi:  fallire  è  necessario.
«Non farlo è impossibile: è una questione statistica. Più ti sbatti, più lo scivolone è dietro l’angolo», spiega Roy Povarchik, 31 anni,  fondatore  di  un’acceleratore per start-up. «Dei big come Steve  Jobs  si  ricordano  solo  i trionfi. Ma non hanno azzeccato ogni colpo in tutta la carriera: anche loro hanno commesso errori  grossolani.  A  volte  anche per anni».

Può  essere  una  leggerezza nel  business  plan,  la  scelta sbagliata di un socio o innamorarsi di un’idea senza scorgerne i limiti. O non cautelarsi da persone senza scrupoli, come è  accaduto  alla  28enne  Sharonna  Karni  Cohen.  Nel  2014 ha  creato  «Dreame»,  un  portale  in  cui  si  commissionano disegni, scegliendo tra 500 artisti in tutto il mondo, da ricreare  su  qualsiasi  supporto  (tshirt,  cuscini,  tazze).  Un’amica russa a cui aveva raccontato  il  progetto  le  ha  rubato
l’idea.  «Ero  furiosa,  ma  non potevo  che  prendermela  con me  stessa.  Ho  raccontato  la mia  esperienza  durante  una “Fuckup Night” e le ho mandato una mail in diretta con solo tre  parole:  “Grazie  dell’insegnamento”. È stato catartico».
Oggi la sua creatura è valutata tre milioni di dollari e ne fattura 25 mila al mese. «Da quella sera ho imparato molto», spiega.  «In  Israele  le  esperienze senza lieto fine a volte vengono  inserite  nel  curriculum: non c’è nulla di cui vergognarsi».  È  il  diritto  di  fallire.  Il trampolino verso il successo.

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venerdì 8 settembre 2017

Gestione del cambiamento: si migliora

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Nella capacità di gestire il cambiamento l’Italia fa progressi grazie soprattutto al ruolo del proprio tessuto imprenditoriale e conquista il 40esimo posto della classifica «Change readiness index» (Cri) elaborata ogni due anni da Kpmg. Un balzo di ben 28 posizioni rispetto al 2015 e una delle migliori performance registrate nel periodo, anche se non mancano Paesi che sono riusciti a fare meglio. Si tratta del Bhutan, piccolo stato himalayano, al 43esimo posto (+35), e della Romania che raggiunge il 49esimo gradino (+32).
È quanto emerge dall’edizione 2017 del «Change readiness index» utilizzato per misurare la
capacità dei Paesi, 136 quelli considerati, di prepararsi e di gestire i driver del cambiamento così
come i potenziali effetti negativi. L’indice è calcolato parametrando una serie di dati su imprese, efficacia del governo e della Pa, condizione della popolazione e società civile. 


Il gradino più alto è conquistato dalla Svizzera (seconda nella precedente edizione), seguita da Svezia ed Emirati Arabi Uniti.
Entrano nella top ten al nono e decimo posto la Germania e il Regno Unito. Sono tutti Paesi
con un alto reddito, ma otto su dieci non sono ricchi di risorse naturali e sei hanno meno di dieci milioni di abitanti. Gli Usa sono al 12esimo posto e insieme a Cina, India e Indonesia hanno
migliorato la capacità imprenditoriale e governativa. Tra i Paesi emergenti spicca poi il Rwanda,
che raggiunge il 46esimo posto grazie a un Pil che cresce del 7%, alla stabilità politica e a una disponibilità di tecnologie e infrastrutture digitali che aprono il paese al mondo. Scivolano invece di una trentina di posti realtà come Capo Verde, El Salvador e la Cambogia.
 

Per quanto riguarda l’Italia, l’avanzamento è dovuto al migliorato clima economico e finanziario di cui beneficiano quelle imprese che cavalcano l’export e sono riuscite a intercettare i primi segnali di ripresa (qui l’indice fa un balzo di 34 posti). Migliora anche l’area «governo e Pa» (+30) grazie soprattutto alla sicurezza pubblica e alla sostenibilità ambientale.
Per finire c’è il capitolo «popolazione e società civile» (+11 posizioni), in cui vengono valutate
positivamente l’imprenditorialità, gli elementi demografici, la salute, la Pa online e l’adozione
delle nuove tecnologie.


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giovedì 7 settembre 2017

Contro la sindrome da rientro funziona la gratificazione

(Fonte: "La Stampa")

In  questo  momento  milioni di  italiani  sono  alle  prese con fastidiosi disturbi. È la sindrome da rientro. Il ritorno alla routine, con le ansie da lavoro  e  gli  obblighi  familiari, non lascia scampo.

Depressione

Le avvisaglie appaiono  già  a  inizio  agosto. Non a caso si parla di «August blues», uno spleen stagionale, legato al pensiero che l’estate, già nel suo fulgore, sta per terminare. Al rientro, così, molti lamentano  una  persistente sensazione di malinconia.

Dolori.  

Nel  post-vacanze si registra anche un picco di disturbi  gastrointestinali.
Secondo gli esperti dell’«Italian Group for the study of Inflammatory  Bowel  Disease» (Ig-Ibd), è questo lo scotto da pagare per i viaggi e le sregolatezze che ci si è concessi. Le cause sono varie. «La diarrea del viaggiatore - osservano -colpisce  soprattutto  chi  è stato  in  aree  subtropicali  e che non ha prestato adeguata attenzione a ciò che ha mangiato e bevuto». E poi ci sono gli  eccessi  in  cui  si  è  caduti.
Sotto accusa un’alimentazione disordinata.


Sonno.  

Vacanze  e  riposo vanno di rado a braccetto. Anzi, in ferie si tende a stravolgere le abitudini notturne: c’è chi dorme tutto il giorno e a tutte le  ore  e  chi  sacrifica  il  sonno per trascorrere notti brave. Il più delle volte, così, si rientra più  stanchi  di  prima.  Il  rimedio-base - spiegano gli specialisti  -  è,  qualche  giorno  prima dal rientro, riabituare l’organismo a seguire i giusti ritmi. 

Emicrania.  

C’è  chi  ne  soffre al solo pensiero di riprendere la vita standard. E chi paga il prezzo di vacanze sfrenate.  Alimentazione  sbagliata, troppo alcol e una serie di notti in bianco possono essere fattori scatenanti.

Stress.  

In  questo  disturbo, tanto vago quanto ampio, rientra una serie di sintomi molto temuti:  sensazione  di  stordimento  e  confusione,  oltre  a un’«attivazione neurofisiologica» che si manifesta con tachicardia, iper-sudorazione, dolori  muscolari,  irritabilità.  «Si avverte lo stress - spiega Giandomenico  Bagatin,  psicoterapeuta e autore del saggio “Riprenditi il tuo Tempo” - perché
non si riesce ad appagare i propri bisogni». Troppo stridente è la differenza tra il «prima» e le attese maturate, da una parte, e il presente dall’altra.


Contromisure.  

Se  gli  attacchi di infelicità sono in agguato, la buona notizia è che la sindrome da rientro si può affrontare. Il tempo di compensazione è sette giorni. «Occorre darsi le corrette priorità -consiglia  Bagatin  -  cercando di  capire  quello  che  davvero desideriamo  e  mettendolo  in ordine». Significa - aggiunge -«fare un programma serio di gestione del tempo, trovando gli spazi per fare le cose a cui
teniamo».  Non  solo  obblighi, quindi, ma mantenere aperta una strada personale «dedicata alla gratificazione». E, inoltre, ci si aiuta con l’alimentazione. «Per il recupero - dice Luca  Piretta,  specialista  in scienze della nutrizione - bisogna  cominciare  dalla  prima colazione. E, oltre al cibo, conta l’acqua: meglio quella ricca di minerali. Così si recuperano i sali persi».


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mercoledì 6 settembre 2017

I trucchi del lettore intelligente

(Fonte: "L'Internazionale")

L’assalto delle parole comincia nel momento in cui ci svegliamo. Ancor prima di vestirci  controlliamo l’email, diamo un’occhiata  alle  notizie  online, apriamo Twitter e rispondiamo ai messaggi. Una volta al lavoro, dobbiamo leggere rapporti, relazioni, articoli e altre email. A
volte ci immergiamo in un testo per il puro piacere di farlo. Con la diffusione di internet e dei social network molti di noi si trovano a contatto con un maggior numero di informazioni scritte rispetto alle generazioni precedenti. Il rischio è di farsi travolgere da questa valanga quotidiana di testo:
sia chi fa fatica a contenerla sia chi ne vorrebbe di più probabilmente si è chiesto se non ci siano metodi di lettura migliori.


Sappiamo che il cervello umano è capace di imprese straordinarie. “Ci sono persone che memorizzano mazzi di carte in meno di venti secondi e, di recente, una persona è riuscita a risolvere otto cubi di Rubik sott’acqua senza riprendere fiato”, racconta David Balota della Washington
university di St. Louis, nel Missouri. “Sarebbe interessante sapere se si possono ottenere risultati simili nella lettura”.
Realisticamente la maggior parte di noi non potrà mai sperare di battere Anne Jones, sei volte campionessa mondiale di lettura rapida, che ha raggiunto il record di 4.251 parole al minuto. Ma ci sono sistemi che possono aiutare chiunque a ricavare qualcosa di più da quello che legge.
In media una persona laureata legge tra le duecento e le quattrocento parole al minuto. Nel corso della storia l’idea di leggere meglio è sempre stata legata a quella di leggere più velocemente. Negli anni cinquanta l’insegnante statunitense Evelyn Wood lanciò il concetto di lettura rapida e
da allora proliferano i corsi e i libri che promettono di insegnare alle persone a leggere cinque volte più velocemente senza perdere nulla a livello di comprensione. Le nuove tecnologie hanno reso quest’idea ancora più attraente. Spritz, per esempio, è un’applicazione molto popolare per ottimizzare la lettura: secondo i suoi creatori è usata da milioni di persone in tutto il mondo. Viene addirittura preinstallata su alcuni telefonini.


“Fino a poco tempo fa i metodi di lettura rapida venivano insegnati solo in corsi specializzati, che bisognava frequentare per settimane”, spiega Elizabeth Schotter, una psicologa cognitiva della University of  South Florida, negli Stati Uniti. “Ma ormai c’è chi sostiene che, grazie alle nuove tecnologie, non serva nessun corso. Questo è molto allettante per chi cerca un modo rapido e facile per risolvere problemi come quello di aver troppe cose da leggere”.


Soluzioni inefficaci 

 
In realtà gli scienziati non erano sicuri che la lettura rapida funzionasse davvero. Per verificarlo Schotter e i suoi colleghi hanno valutato alcune delle strategie e dei sistemi più  diffusi, con  risultati  deludenti.  Per esempio, una delle “soluzioni” per leggere più velocemente è eliminare del tutto la
vocalizzazione interna, cioè non immaginare il suono delle parole ma solo affidarsi al loro aspetto. La vocalizzazione interna sarebbe una perdita di tempo che ci portiamo dietro da quando abbiamo imparato a leggere ad alta voce da bambini. Ma Schotter e i suoi colleghi hanno dimostrato che
eliminare la riproduzione dei suoni nella nostra mente ostacola la comprensione. È ragionevole pensare che tradurre informazioni visive in forma sonora ci aiuti a capire meglio un testo, visto che in origine il linguaggio era espressione orale e percezione uditiva. Gli esseri umani hanno cominciato a parlare tra loro circa centomila anni fa, mentre la scrittura fu inventata in Mesopotamia solo nel 3400 aC.


Un metodo molto usato in alcune app è quello di presentare singole parole rapidamente, una dopo l’altra. Gli utenti di Spritz, per esempio, possono stabilire un ritmo che va dalle 250 alle mille parole al minuto.
Si pensa che questo elimini la necessità dei movimenti oculari. “L’idea che perdiamo tempo facendo dei movimenti inutili con gli occhi è affscinante”, ammette Balota.
Ma è sbagliata. Lo dimostrano le ricerche sul modo in cui leggiamo. Per prima cosa, gli occhi devono concentrarsi sulle lettere.
L’acutezza visiva è massima nella fovea, l’area di maggiore sensibilità visiva della retina, che è grande più o meno quanto il pollice quando allunghiamo il braccio davanti all’occhio. Rapidi movimenti dell’occhio, detti saccadi, consentono a chi legge di spostare la fovea da una parola all’altra.
Ogni movimento in avanti di solito copre circa sette lettere. In media gli occhi si soffermano su una parola per circa 250 millisecondi e, mentre passano oltre, il cervello sta ancora cercando di capire quello che ha registrato. Ma la lettura non è sempre un processo di avanzamento. Circa il 30 per
cento delle volte saltiamo una parola. Questo può succedere se è molto breve (come “di” o “a” ), frequente (come “stato” o “molto”) o prevedibile perché è stata appena letta. Almeno il 10 per cento delle volte torniamo alla parola precedente, forse perché ci rendiamo conto di non averla capita
bene o, se è un’informazione nuova, vogliamo rivederla per capirla meglio. Quando un’applicazione ci presenta delle parole una dopo l’altra, non è possibile prevederle e rivederle, quindi la comprensione si riduce, sostiene Schotter.
Il modo in cui leggiamo normalmente si scontra anche con la tecnica di lettura rapida chiamata chunking, cioè la suddivisione del testo in blocchi. I suoi promotori sostengono che con questa tecnica si possano leggere interi gruppi di parole, anche quelle fuori dalla fovea, con un solo sguardo. Secondo Schotter, però, questo sistema non funziona perché il chunkingnon è possibile dal punto di vista isiologico, senza contare il fatto che a limitare la nostra velocità di lettura è l’incapacità non tanto di vedere le parole, ma d’identificarle e comprenderle rapidamente.
Secondo Schotter queste tecniche sono inutili. “Sono tutte un po folli”, osserva.
“Non sono totalmente assurde, ma sembrano ragionevoli solo a chi non ha mai veramente studiato come funziona il processo di lettura”. Inoltre i record dei tempi di lettura non  sono  mai  stati  verificati scientificamente. Alla fine delle gare ai partecipanti vengono rivolte delle domande sul testo per veriicare cos’hanno capito, ma è possibile dare risposte corrette anche solo avendo scorso il testo e facendo ipotesi intelligenti per riempire i vuoti.


Schotter è convinta che un “buon” lettore, con una media di quattrocento parole al minuto, potrebbe raddoppiare la velocità, ma non triplicarla, come promettono i sistemi di lettura rapida. E anche così quella non sarebbe una “vera” lettura, ma solo un modo “più efficiente per scorrere il testo”, che inevitabilmente comporta una minore comprensione. Se il nostro obiettivo è solo capire il senso di un testo, scorrerlo è meglio che leggerlo. E per questo non c’è bisogno di comprare un’applicazione o
di frequentare dei corsi. Schotter consiglia di concentrarsi sui titoletti e sulla prima e  ultima frase di ogni paragrafo, perché di solito è in quelle parti che si trovano le informazioni più importanti, almeno se il testo è “scritto bene”. Questa tecnica richiede che il lettore riempia i vuoti facendo delle supposizioni sulla base di quello che ha già letto. Se si vuole leggere più velocemente senza compromettere la comprensione non esistono scorciatoie, aferma Schotter. La massima velocità con cui possiamo passare da una parola all’altra, continuando a capire quello che stiamo leggendo, è determinata soprattutto dalla nostra familiarità con quelle parole. Mentre una persona può esitare davanti a “insignificante”, un’altra rallenterà davanti a “psiconeuroendocrinoimmunologia”. 


Qual è la soluzione, secondo Schotter?
“Spesso non piace sentirselo dire, ma l’unica cosa da fare è leggere di più. Espandere il proprio vocabolario e la propria conoscenza del mondo”, dichiara la studiosa.
Il modo più intelligente di leggere è prendere coscienza dei propri limiti e riconoscere i vantaggi e gli
svantaggi dello scorrere rapidamente un testo. Ma bisogna anche tener conto del mezzo che si
usa, perché leggere su uno schermo è diverso da leggere su carta.
È difficile fare un’ipotesi su quanto oggi leggiamo su schermo. “Nessuno dispone di dati significativi che mettano a confronto i minuti passati a leggere su ogni piattaforma”, spiega Naomi Baron dell’American university di Washington Dc, autrice di Words on Screen: the fate of reading in a digital world (Oxford University Press 2015).
Secondo i sondaggi del Pew research center, negli Stati Uniti, la metà dei lettori di giornali usa esclusivamente la versione stampata. Nel 2016 il 65 per cento degli adulti statunitensi ha letto almeno un libro di carta, rispetto al 71 per cento del 2011, mentre quelli che hanno letto un libro in
formato digitale sono passati dal 17 al 28 per cento. Sempre nel 2016 gli Stati Uniti e il Regno Unito – il secondo paese per vendite di ebook al mondo – hanno visto calare le vendite di libri in formato digitale, forse perché stanno diventando più costosi, ipotizza Baron.
 

Gli schermi sui banchi 

Leggere sullo schermo è spesso considerata una “buona cosa”, soprattutto a scuola, dice Anne Mangen dell’università di Stavanger, in Norvegia, che presiede l’iniziativa dell’Unione europea E-Read. Ma non ci sono dati certi. “Mancano le informazioni e ci sono molte pressioni da parte dell’industria tecnologica”, dice. Molti dibattiti, discussioni e decisioni – soprattutto nel campo della scuola – si basano su ipotesi e su una fede quasi cieca nella tecnologia.
Molti sostengono che leggere su dispositivi elettronici “sia più stimolante e che sia il modo in cui la maggior parte delle persone legge e leggerà in futuro”.
In  realtà  dalle  ricerche  di  Mangen emerge che abbiamo più diicoltà a comprendere le informazioni presentate in pdf  su uno schermo rispetto a quelle stampate su carta. Questo probabilmente è dovuto al fatto che è più difficile muoversi su un testo online, tornare al punto che si vuole rileggere. Una persona può ricordare che una certa informazione era a circa un quarto di un documento stampato o a circa due terzi di una pagina, ma in un formato elettronico questi riferimenti non ci sono più.
“Dalle ricerche emerge una preferenza verso la carta stampata quando si tratta di studiare”, dice. Questo potrebbe confermare l’idea che è meglio leggere su carta le cose che vogliamo comprendere a fondo.
Lo stesso discorso potrebbe valere per chi legge per piacere. Mangen ha riscontrato che le persone che leggono un romanzo giallo su Kindle fanno più fatica a ricordare la sequenza degli eventi rispetto a chi lo legge su carta, probabilmente perché un supporto elettronico non dà la stessa sensazione tattile del procedere della trama che dà un libro. È anche in parte dimostrato che quando leggono su carta le persone s’immedesimano di più nei personaggi.
A seconda dei motivi per cui si legge, farlo su uno schermo presenta comunque dei vantaggi. Possiamo ingrandire i caratteri o cercare una parola nel testo e trovare riferimenti incrociati. Ma anche in questo caso emergono aspetti negativi. “Quando cerchiamo una parola chiave di solito arriviamo a leggere solo un’informazione speciica ma ci perdiamo tutte quelle di contorno”, dice Baron. Inoltre, saltare da un sito web all’altro riduce la nostra capacità di concentrazione.
 

Come per le tecniche di lettura rapida, la cosa migliore da fare è adattare lo strumento ai nostri obiettivi. Ma c’è una cosa che tutti possiamo sempre fare per diventare lettori più bravi. “Quello che conta non è il tempo che impieghiamo a leggere, e neanche il supporto, ma la concentrazione”, dice Baron. “Ci sono persone che leggono lentamente ma non riescono a capire molto, mentre ci sono lettori veloci che hanno un’ottima capacità di memoria e di analisi”.
“Secondo me la cosa più rilevante è che quando ci mettiamo a leggere un testo che ci interessa – non importa se narrativa o saggistica – la lettura catturi tutta la nostra attenzione”, afferma Baron.


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martedì 5 settembre 2017

Decidere di pancia e non pentirsene

Le decisioni di pancia a volte possono essere migliori di quelle di testa? Leggiamolo insieme su: "Il Corriere della Sera".

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lunedì 4 settembre 2017

Diventa social climber (2)

(Fonte: "Cosmopolitan")

Continuiamo a leggere come utilizzare al meglio i social per trovare lavoro.

Facebook
 
La piattaforma di connessione ideale per tutti.


Cosa postare - Usa la sezione delle informazioni personali “In breve” per fornire agli amici una sintesi del tuo cv. Aggiungi al profjlo fjno a 5 foto in evidenza che illustrino la tua personalità
e le competenze (immagini che ti ritraggono mentre pratichi lo sport che ami o durante un evento di
networking). E condividi articoli su temi vicini al tuo percorso professionale. 


Con quale frequenza - Una volta al giorno.


Chi seguire - Uno studio ha confermato che hai più chance di trovare lavoro tramite conoscenze
indirette che grazie al tuo best friend. Quindi, individua su Fb potenziali datori di lavoro e controlla
se avete amici in comune.


Come commentare - «Non limitarti a postare emoji e “Wow!”: cerca di avviare  conversazioni signifjcative, come faresti nella vita reale», dice Larssen.
Scrivi: “Ho assistito a un suo intervento ed è stato illuminante: mi piacerebbe approfondire l’argomento...”. 


Il livello successivo - Cerca nuove opportunità frequentando gruppi attinenti al tuo settore.
E fai il check al tuo profjlo per controllare cosa è visibile a tutti (vai sulla tua pagina e scegli il tool
“Visualizza come”).


Snapchat
 
La prossima frontiera della ricerca di lavoro


Cosa postare - «Condividi snapshot della tua giornata di lavoro, progetti creativi o foto ispirazionali», dice Larssen. «Ma se proprio vuoi mostrare la tua seconda attività di dj, o il punteggio ottenuto al torneo di poker online, sarà meglio inviare gli snaps solo a gruppi privati di amici», consiglia Miller-Merrell.


Con quale frequenza - Posta contenuti non più di 5 volte al giorno.


Chi seguire - Sul social non è facile individuare al primo colpo utenti che vale la pena seguire. Ti conviene fare qualche ricerca esterna per trovare persone e aziende interessanti.


Come commentare - Puoi reagire allo snap di qualcuno scrivendo un complimento o postando una domanda in chat. «Ma anche se i tuoi commenti scompariranno subito dopo essere stati visualizzati, non inviare mai niente che non vorresti fosse permanente», raccomanda Miller-Merrell.


Il livello successivo - Ricorri alla funzione messaggio diretto della chat per inviare un video o una registrazione vocale a possibili datori di lavoro. Considera questi clip dei mini-supporti al tuo cv.


Twitter


Il connettore di tutto quello che c’è di nuovo 


Cosa postare - Ogni tuo tweet deve includere la tua azienda, la tua qualifjca professionale e le passioni che coltivi (allenarti per la maratona, cucinare ecc.).
Posta notizie realtive al tuo campo di attività.


Con quale frequenza - Tre volte al giorno.


Chi seguire - «Cerca hashtag come #hr e #recruiting per identifjcare i manager che si occupano delle
assunzioni», consiglia Miller-Merrell. «Molte grandi aziende, oltre al canale uffjciale del brand, hanno anche un Twitter handle dedicato ai post di lavoro, compresi gli annunci per posizioni aperte», aggiunge Larssen.


Come commentare - Ritwittare persone che ammiri può favorire le tue possibilità di carriera. Interagisci con alcuni influencer rispondendo a eventuali domande o condividendo pensieri sul loro lavoro.


Il livello successivo - Crea delle Twitter list con i tuoi account preferiti.
«Le persone interessate lo noteranno, e non guasta se la tua lista dedicata ha pure un nome tipo “Persone brillanti su Twitter”», suggerisce Janice Morris, del team Global Media Partnerships di Twitter.

 
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)

venerdì 1 settembre 2017

Diventa social climber

(Fonte: "Cosmopolitan")

D'accordo, la fonte non è tra le più autorevoli in fatto di business, però qualche consiglio utile possiamo trovarlo lo stesso. Pronti? Eccoli!

Già che ci passi buona parte della tua giornata, perché non usare i social network anche per farti strada nel mondo del lavoro?
Tutto quello che ti serve sapere per trasformare la tua Facebook routine in un trampolino di lancio per la carriera.


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Sai come utilizzare LinkedIn per dare slancio alla tua carriera?
Ottimo: oggi è più che mai fondamentale se vuoi salire in alto. Facebook, Instagram & Co., però,
possono rivelarsi altrettanto effjcaci per avvicinare i pezzi grossi del tuo settore e scoprire nuove incredibili opportunità professionali. Senza contare che, anche grazie a una nuova funzione di Fb, un
numero sempre più grande di aziende posta direttamente sulla più grande piattaforma di condivisione del mondo le proprie inserzioni di lavoro. «Se vuoi “venderti” al meglio mettendo in
mostra i tuoi talenti, devi considerare i social network come un grande party in costante fermento, dove stabilire contatti profjcui», consiglia Peg Samuel, ideatrice dell’agenzia Usa di branding Social Diva Media. Una festa dove non c’è bisogno di essere invitati, ma che richiede un preciso codice di comportamento per farsi prendere sul serio. Ecco, allora, come ottenere il tuo prossimo lavoro
senza nemmeno bisogno di alzarti dal divano. Coi consigli degli esperti per fare le mosse giuste ed evitare i passi falsi. 


Instagram

Un’eccezionale vetrina per i più creativi
Cosa postare - Foto della tua scrivania e del tuo stilosissimo posto di lavoro, videoclip che illustrano
il tuo ultimo progetto o Boomerang di eventi che hai organizzato.
Scrivi didascalie essenziali e inserisci gli hashtag con molta cura scegliendo tra quelli più usati dagli
infmuencer del tuo settore. Per esempio, se il tuo mondo è quello della moda prova #ootd
(outfjt of the day).


Con quale frequenza - Fino a due volte al giorno.


Chi seguire - Persone che conosci, oppure che vorresti tanto conoscere.
Inclusi potenziali datori di lavoro: cercali tramite hashtag che combinano il nome dell’azienda per
cui lavorano con le parole “life” o “people”.


I commenti giusti - Sono la linfa di Instagram! Cerca solo di non esagerare.
«Se qualcuno condivide contenuti solo una volta alla settimana, non commentare ogni signolo post», avverte Adrian Granzella Larssen, content editor per il sito di suggerimenti per la carriera
The Muse.


Il livello successivo - Il tuo profjlo deve dare un’idea di chi sei realmente.
Usa le Instagram Stories per raccontare qualche aspetto personale e offrire ai follower degli assaggi
della tua giornata. Le storie spariscono in 24 ore, quindi puoi lasciarti anche un po’ andare, ma per tua maggiore tranquillità sappi che è possibile nasconderle a chi vuoi tu grazie al tool del menu impostazioni.


La prossima volta vedremo insieme gli altri social...non mancate!



(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)