giovedì 31 agosto 2017

Addio alla postazione fissa

(Fonte: "")

"Dateci una persona e in due ore lo trasformeremo in un operaio". Il copyright è della Ford che, con la Seconda Rivoluzione Industriale in pieno corso, sintetizzava così, in una frasetta, il modello
produttivo che l’avrebbe fatta passare alla storia. La fabbrica, la catena di montaggio, le maestranze che lavorano, simultaneamente, sui macchinari, usando mani e muscoli, senza neanche pensare. 


Karl Marx aveva visto tutto in anticipo, un po’ di decenni prima, tra le pagine de Il Capitale. Da un lato il capitalista che detiene la proprietà dei mezzi di produzione e decide la divisione del lavoro; dall’altro l’operaio, “disumanizzato” dall’obbligo di produrre secondo tempi e modi imposti e per il profitto altrui. A 150 anni dalla genesi del materialismo storico, a Marx, ovunque si trovi, farà certo piacere sapere che è arrivato un tempo in cui, in tema di lavoro, si parla di «evoluzione dei modelli organizzativi», «cambiamento  del rapporto tra individuo e organizzazione», «autonomia dei lavoratori». A concretizzare il sogno del filosofo tedesco, se non ci sono riusciti cento anni di storia sindacale e di politiche “di sinistra”, ci ha pensato dunque la “digital revolution”, quella che ha
messo in mano ai lavoratori – in particolare ai cosiddetti knowledge worker, i lavoratori della conoscenza che oggi, più dei manifatturieri, determinano Pil e occupazione – gli strumenti per smarcarsi dalla “fabbrica”. In piena era post-industriale, insomma, la nuova terra promessa si chiama smart-working: il “lavoro agile” imperniato su flessibilità e gestione autonoma del lavoro, valutazione sulle performance e non sulla presenza fisica nei luoghi di lavoro, responsabilità personale sui risultati. 


Basta dunque con postazioni fisse, orari dalle 9 alle 5, pendolarismo e cartellino da timbrare, insomma. Da oggi si lavora come, dove e quando meglio si crede, l’importante è produrre, ma nelle condizioni che ognuno ritiene più ottimali. Al resto, ci pensano tablet, laptop, smartphone e connessioni internet iper-veloci.
Dalle community alla membership“Niente di nuovo”, sostiene  chi ricorda il vecchio telelavoro degli anni ’80-90. Ma in realtà le cose sono un po’ diverse. Il primo era nato per chi doveva lavorare da casa propria, svolgendo mansioni (in gran parte non troppo qualificate) davanti ai primi
videoterminali. Lo smart working, invece, è un modello di organizzazione del lavoro pensato per manager e dirigenti, free-lance e consulenti, startupper e impiegati. E si basa sulla tecnologia “mobile” che consente a chiunque di “delocalizzare” il proprio lavoro. Nel mondo, aziende come Siemens, American Express,  L’Oréal, seguendo questo pattern, hanno già reso più flessibile la
loro organizzazione. E in tempi di sharing-economy, dal lavoro agile alle coworking house, gli “uffici condivisi”, il passo è breve, brevissimo. «Sebbene concetti autonomi, sono due fenomeni strettamente correlati» puntualizza il professor Mariano Corso, che di smart working con tutti i suoi annessi e
connessi ne sa parecchio, visto che da 5 anni è responsabile scientifico dell'apposito Osservatorio istituito presso la School of Management del Politecnico di Milano, «il fenomeno del coworking (il cui primo spazio è nato a San Francisco nel 2005, NdR) non è semplicemente l’affitto delle scrivanie ma è l’alternativa sostenibile e “on demand” al lavoro da casa. Uno spazio da condividere con
altri lavoratori dinamici e indipendenti che intendono fare networking e costruire, attraverso il confronto, anche nuove opportunità di business». A fine 2016 l'Osservatorio (...) ha contato nel nostro Paese almeno 40 coworking house di varia dimensione e orientamento (...). Con un bel risparmio sui costi, peraltro, visto che nella maggior parte dei casi l'affitto dei coworker è all-inclusive: domicilio postale, segreteria, strumenti informatici, utenze, aree relax e ristoro. Il tutto rigorosamente condiviso. 


(...)

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mercoledì 30 agosto 2017

Studiare all'estero permette di lavorare prima

(Fonte: "Italia Oggi")

Meno Stati Uniti e più mete con differenze culturali più marcate. Il 40% degli studenti italiani delle superiori partito (...) tra il 2007 e il 2012 per un soggiorno di studio all'estero compreso tra un trimestre e un intero anno scolastico ha scelto una destinazione latina o asiatica. Ben un quinto, infatti, ha studiato in America Latina o Asia. Il dato emerge dall'ultima indagine dell'Osservatorio sull'internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca.

Per oltre la metà del campione di (...) ex adolescenti partiti tra il 1977 e il 2012 la destinazione preferita è stata un Paese anglofono. In testa gli Stati Uniti, scelto dal 49%, a cui si aggiunge l'11% che ha optato per un'altra meta anglofona. Tuttavia, se prima del 1998 preferiva gli Usa ben il 72%, tra il 1998 e il 2007 la percentuale era già scesa al 43%, per arrivare dopo il 2007 al 29%.

Dimezzate anche le scelte per altri Paesi in cui si parla l'inglese: dal 2007 incassano appena il 6% delle preferenze. Viceversa sono cresciute vertiginosamente le mete asiatiche, latinoamericane e africane: nel complesso passate dal 5% prima del 1998 al 18% tra il 1998 e il 2007, per impennarsi a ben il 40% dopo il 2007. Una tendenza nelle destinazioni preferite oggi dagli studenti partiti nel 2016 confermata dai presidi. Si confermano principalmente gli States, scelti dal 38% degli alunni, con una crescita del 7%, e il Regno Unito (13%), seguiti da Australia (6%), in calo, Canada (5%) e Irlanda ($%).

E' interessante la crescita dei Paesi dell'America Latina, che negli ultimi cinque anni raddoppiano le presenze, raccogliendo l'8% delle preferenze, e degli altri Paesi, al 9% rispetto al 4% del 2014. Mentre calano drasticamente i Paesi scandinavi (-85%) e la Germania (-5%) precipitata (...) dal 2011.

Stabile la Cina al 4%. L'Asia è anche l'area che maggiormente attirerebbe oggi gli ex partecipanti ai programmi che, invece, durante le scuole superiori hanno studiato in altri Paesi esteri: la sceglierebbe il 21%, soprattutto se era partito per Usa o Paesi dell'Europa non anglofona.

Se nei Paesi anglofoni diversi dagli Stati Uniti "è più facile coltivare nuovi interessi e nuove aspirazioni per la vita futura", spiega l'Osservatorio, "chi si è spinto più lontano presenta più accentuati i tratti di apertura verso l'altro e la voglia di cambiamento". Per oltre due terzi di chi è stato in Paesi asiatici o latinoamericani il rispetto verso gli altri diventa preponederante. E sviluppa di più, 35%, la necessità di aiutare gli altri rispetto a un più modesto 28% di chi è rientrato da Paesi anglofoni, Usa inclusi. Chi ha studiato in Paesi orientali o latinoamericani sceglie di più un lavoro nel non profit: 16% contro il 10% della media.

In generale, qualsiasi meta si  scelga, la mobilità studentesca aiuta l'occupazione: ben l'83% degli ex partecipanti a programmi di studio all'estero non ha avito difficoltà a trovare lavoro o a cambiarlo e il tasso di disoccupazione complessivo è al di sotto del 9%, contro la media italiana del 14% tra i 20 e i 54 anni.

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martedì 29 agosto 2017

Qualche curiosità sugli standard ISO e sulla famiglia ISO 9000

L'ISO è una rete di enti che appartengono a ben 162 nazioni nel mondo, ognuna delle quali lo rappresenta nel suo Paese.

L'ISO sviluppa solamente quegli standard che vengono richiesti dal mercato. Questo lavoro viene svolto da esperti che provengono dal mondo industriale, tecnologico e del business che sono poi i settori che hanno fatto richiesta di questi documenti e che li utilizzeranno.

Le singole persone o le aziende non possono diventare membri dell'ISO.

Per poter lavorare su un documento normativo, gli esperti del settore si riuniscono in un comitato tecnico (technical committee - TC). Più che come sviluppatore di standard, l'ISO andrebbe dunque visto come coordinatore dei lavori dei diversi comitati tecnici.


Aderire agli standard ISO, che si basano su testi scritti dopo aver raggiunto il consenso tra gli esperti del settore che hanno partecipato ai lavori, è un atto volontario.

Gli standard della famiglia delle ISO 9000 sono un piccolo numero che fa parte dei 19.500 documenti normativi emessi dall'ISO e, nelle loro intenzioni, forniscono i mezzi necessari per comunicare e consolidare i concetti che si riferiscono al campo del quality management.

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lunedì 28 agosto 2017

Il futuro è per atenei più eclettici

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Qual è dunque la differenza fra ieri e oggi? Essenzialmente la speranza di condizioni migliori per il domani, la ragionevole aspettativa, di ieri, che diventando molto bravi nel proprio campo con impegno e sacrifici, un futuro migliore potesse essere costruito. Ecco, è questa speranza che da qualche anno non c’è più, come anche la fiducia nel sistema e nella sua governance, che è stata, anche per colpa nostra, distrutta. 

Non mi sembra utile e originale discutere ancora le cause che hanno portato a questa situazione. È forse di qualche interesse, invece, ipotizzare qualche soluzione, ammesso che alla mia generazione, in parte responsabile della situazione attuale, si possano riconoscere l’onestà intellettuale e il senso etico indispensabili per avanzare proposte. 


Alcune proposte

 
La prima proposta è quella di passare dalla valutazione ex ante alla valutazione ex post. Mi pare che la ricerca di regole sempre più rigide per governare a monte le assunzioni si sia dimostrata fallimentare. Perché non ipotizzare, allora, maggiore libertà di scelta da parte dei responsabili dei gruppi di ricerca, coadiuvati da esperti di livello internazionale, nella selezione dei collaboratori dei diversi livelli e verificare poi, con rigore, se le scelte operate abbiano portato a un miglioramento delle performance del gruppo, laboratorio o istituzione?
La ricerca esasperata del “migliore” in assoluto è un esercizio sterile e fuorviante, se non si
definisce, a monte e di volta in volta, qual è il contesto e quali i parametri di valutazione. Migliori si è rispetto a bisogni, visioni, e progetti specifici. Auspico che, a fronte di obiettivi e parametri dichiarati ex ante, la scelta del candidato più meritevole venga lasciata ai responsabili dei gruppi in cui i candidati si propongono. Dopo un congruo periodo di tempo, i risultati di quelle scelte potranno essere valutati rigorosamente, penalizzando anche con severità i peggioramenti non giustificati e premiando i miglioramenti. Peggioramenti e miglioramenti vanno intesi, ancora una volta, rispetto
ad attese e obiettivi esplicitati ex ante. 


Il concetto di “congruo periodo di tempo” mi sembra fondamentale: le Università dovrebbero avere lo scopo primario di aiutare a costruire il futuro del Paese, sia formando le nuove generazioni di cittadini, sia proponendo nuove strade di sviluppo. Nel Paese che è stato la culla della cultura classica e del Rinascimento questa formazione dovrebbe essere ampia, varia, multiculturale e flessibile, e non invece piegarsi solo ai dettami del successo immediato, il cosiddetto “shortermismo”, caratteristici della politica non lungimirante e di parte del mondo industriale.
Un approccio multidisciplinare, dunque, la costante ricerca di un linguaggio comune e una cultura del diverso che arricchisce e non spaventa, accompagnati da una ferma volontà di non accontentarsi di risposte semplici e immediate. Tutto ciò può essere perseguito solo attraverso nuove commistioni e ibridazioni tra il ragionamento logico-deduttivo e l’intuizione, tra la capacità di visione e l’approccio pragmatico, tra la misurazione del ponderabile e modellizzabile e lo studio dell’imponderabile e non modellizzabile, in cui gli incroci e le contaminazioni tra ricerca di base e ricerca applicata e tra scienze “dure” e “humanities”siano continuamente ricercati e incoraggiati.
Solo così sarà possibile formare specialisti che siano al contempo cittadini, artefici consapevoli del proprio destino, capaci di dare contributi preziosi alle comunità cui, con diversi ruoli, appartengono, di risolvere problemi complessi e di gestire la qualità della propria vita in una società in cui il soddisfacimento dei bisogni primari dovrà essere garantito per tutti. 


Da un altro punto di vista, i compiti delle Università generaliste da un lato e delle Scuole Universitarie a Statuto Speciale dall’altro devono essere definiti e integrati in un progetto razionale, basato su due capisaldi. Il primo è quello della formazione disciplinare e della ricerca applicata guidata dal bisogno di trovare soluzioni efficaci a problemi immediati. Il secondo, fors’anche più importante, è quello della formazione, anche multidisciplinare, a porre nuove domande, a guardare trasversalmente i problemi e a immaginare nuovi scenari per il futuro di medio e lungo termine, cioè della cosiddetta ricerca curiosity driven. Anche in questo contesto le Scuole Universitarie a Statuto Speciale possono svolgere al meglio il loro compito di laboratori del futuro e di vocazione all’eccellenza, recuperando così anche il loro scopo istituzionale di formare le nuove classi dirigenti del Paese.
Ovviamente nessun serio miglioramento degli standard anche infrastrutturali può essere a costo zero; soprattutto, la gestione di formazione e ricerca deve essere flessibile e consentire di premiare anche economicamente le eccellenze. Dunque fiducia, flessibilità e controllo ex post. 


La valutazione

 
Il tema della valutazione richiede attenzione, energia e un’attitudine critica e auto-critica. La
valutazione di grandi istituzioni e dei loro valori medi (che, ricordo, è il compito principale
dell’Anvur e della Vqr) non deve essere mai confuso con la valutazione dei singoli e dell’eccellenza. I metodi statistici e quantitativi, che possono essere utili nel primo caso, diventano aberrazioni nel secondo. In ogni caso va poi riconosciuto lo stesso principio evocato qui sopra a proposito della scelta dei candidati migliori: ogni disciplina va valutata iuxta propria principia. Una distinzione molto grossolana, per esempio, riguarda la differenza tra i cosiddetti settori bibliometrici e quelli non bibliometrici. Il tentativo maldestro di estendere ai secondi le tecniche e le caratteristiche dei primi mi sembra destinato a sicuro insuccesso. Non si vuol certo proporre di sostituire la valutazione con l’autoreferenzialità (come pure è avvenuto in passato) ma, piuttosto, di esercitare la
valutazione consapevoli che si tratta di un compito complesso che necessita di aggiustamenti
e flessibilità, senza fondamentalismi che propongano risposte automatiche, semplici e generali. È ben noto che i sistemi complessi non obbediscono a regole semplici se non, talvolta, per un numero di casi molto elevato e di variabili relativamente limitato. L’esatto contrario della valutazione dell’eccellenza dei singoli.
Nel mondo attuale, in costante e velocissimo cambiamento, il principale compito affidato alle persone della mia generazione è, credo, quello di creare le condizioni per le nuove generazioni di formarsi in maniera autonoma e flessibile, acquisendo una preparazione ampia e una mentalità aperta, che le renda capaci di affrontare problemi complessi in maniera innovativa, priva di compromessi e di pregiudizi. C’è dunque bisogno di un nuovo paradigma: un “nuovo rinascimento” capace di integrare il numero sempre crescente di risultati specialistici in una visione ampia e flessibile. 


Anche se le nuove tecnologie e metodologie (robotica, big data, ecc.) possono svolgere un ruolo importante in questo contesto, non saranno certo loro a risolvere i complessi problemi sociali, economici, ambientali, scientifici e culturali che ci si parano dinanzi né tantomeno a delineare gli scenari filosofici e socio-politici del nostro futuro: a mio avviso questo ruolo sarà svolto non da chi accumulerà semplicemente più nozioni o tecnologie, ma di chi, sulla base di studi approfonditi, saprà immaginarlo con maggior forza e capacità di visione. Dunque il ruolo dell’Università è quello di formare i nuovi cittadini e le nuove classi dirigenti, promuovendo nuovi modi di immaginare e rapportarsi alle realtà presenti e future.


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venerdì 25 agosto 2017

Le lauree “trascurate” che danno più lavoro

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Uno dei corsi di laurea più apprezzati (e cercati) dai datori di lavoro internazionali è statistica, con
sbocchi di carriera che vanno dall’analisi dei Big Data alla consulenza finanziaria. Chi si aspetta un boom di iscrizioni, però, potrebbe restare deluso: le immatricolazioni registrate nell’anno accademico 2016-2017, secondo i dati provvisori delle anagrafe Miur, sono meno di 1.100.
Nonostante un tasso di occupazione che viaggia oltre il 90% a cinque anni dalla laurea, retribuzioni più alte della media (circa 1.500 euro) e la presenza di incentivi fin dal momento dell’immatricolazione.


Il caso di statistica riassume un paradosso che si estende ad altri corsi di laurea, soprattutto di ambito scientifico: gli indirizzi con più prospettive dal punto di vista di carriera e retribuzione fanno fatica ad attrarre studenti, restando ai margini delle scelte dei quasi 300mila immatricolati annui negli atenei italiani. Qualche esempio?
Matematica e fisica rientrano nel gruppo disciplinare dei corsi «scientifici», classificato da Almalaurea come uno dei segmenti con i ritorni più immediati. Il tasso di occupati è al 93% a cinque anni dal titolo di primo livello, mentre la retribuzione netta viaggia sopra i 1.600 euro dopo il biennio di magistrale. Eppure la quota di immatricolati di entrambe non si spinge oltre a una
percentuale di nicchia: il 4,8% del totale, equivalente a un terzo di quelli registrati da ingegneria (14,5%) nello stesso anno.


Il destino è analogo a quello dell’area chimico-farmaceutica, ferma all’1,5% delle immatricolazioni nonostante svetti tra i gruppi con più chance a livello di impiego e remunerazione (oltre 1.500 euro netti dopo il biennio, contro una media di 1.400).
Francesca Contardi, esperta di risorse umane, attribuisce il “blocco” per certi curricula a fattori che vanno dalle attitudini personali ai pregiudizi su corsi ritenuti «più complessi e tecnici di altri, almeno sulla carta». Contardi pensa che la formazione scientifica andrebbe rinforzata fin dagli anni delle scuole secondarie superiori, creando magari «dei percorsi ad hoc più orientati verso queste materie». Il tutto senza scadere, però, nella convinzione che si tratti di ambiti riservati solo a determinati indirizzi liceali e tecnici: «Questo – precisa – naturalmente non significa che
chi fa ad esempio il liceo classico non possa accedervi. Significa semplicemente che avrà bisogno di integrare le proprie conoscenze in ambito scientifico». La maggiore domanda di profili si rispecchia in offerte con condizioni più appetibili anche quando si parla di formule contrattuali. 


Sono ancora i dati Almalaurea a evidenziare che gli occupati in arrivo da lauree del gruppo scientifico e statistico sono assunti in oltre 6 casi 10 con rapporti a tempo determinato, contro una media degli altri gruppi disciplinari di poco superiore al 50%. Il meccanismo è facile da intuire: la
scarsità di profili spinge ad alzare, da subito, il livello dell’offerta per conservare risorse che possono essere contese da più aziende. Anche se gli standard restano distanti da quelli che si raggiungererebbero inviando un curriculum in Francia, Germania e Regno Unito. «Proprio data la
scarsità di candidati – spiega Contardi – si tratta spessissimo di assunzioni a tempo indeterminato da subito, con retribuzioni mediamente più alte rispetto alla media»


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giovedì 24 agosto 2017

Apocalittici e integrati

Qualche giorno fa su: "Il Corriere della Sera" ho letto la seguente riflessione e mi è venuta voglia di condividerla con voi:

Eco, più di cinquant’anni fa tratteggiò un mondo diviso tra «apocalittici e integrati»: apocalittici gli
intellettuali antimoderni che individuano nelle novità una catastrofica e irrecuperabile caduta; integrati gli ottimisti che accolgono a braccia aperte il nuovo, vi partecipano gioiosamente e
acriticamente. 


(...)

Ciò che allora valeva per la cultura di massa vale ancora oggi per le nuove tecnologie: demonio o
liberazione democratica? Il sospetto è che se ci siamo evoluti sul piano scientifico, fatichiamo a
liberarci di certi paraocchi mentali.
Non è vero che esistono solo i nostalgici consolatori e i progressivi beceri ed entusiasti.
Esistono delle vie di mezzo che coincidono, appunto, con uno sguardo più sfumato, più cauto, critico e disincantato.
E poi esistono anche i nostalgici progressivi e i critici beceri.



Cosa ne pensate?

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mercoledì 23 agosto 2017

Torna la voglia di assumere

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Torna la voglia di assumere tra le imprese italiane. Per ora si tratta solo di una stima preliminare,
che dovrà essere confermata dai dati definitivi attesi a settembre, ma il numero dei posti vacanti rilevati dall’Istat, quelli per i quali le aziende sono a caccia di candidati, sembra preannunciare un effetto positivo sul mercato del lavoro. Nel secondo trimestre dell’anno, dopo una lunga stasi, durata dalla primavera del 2015 all’autunno 2016 e l’incremento costante degli tempi, il tasso totale dei posti vacanti è arrivato a toccare lo 0,9% (+0,1 sul trimestre precedente), il massimo da quando
l’Istat ha iniziato la serie storica, nel 2010.


Un piccolo boom, per la ricerca di nuovi dipendenti da parte delle imprese, che interessa in particolare il settore dei servizi, dove il tasso è cresciuto ad 1 punto percentuale, confermando una crescita costante iniziata nel terzo trimestre 2016, mentre è rimasto stabile allo 0,7% nel settore industria, in linea con il dato rilevato a partire dal II trimestre 2015. Nel lessico degli statistici i “posti vacanti” sono quei posti di lavoro retribuiti, nuovi o già esistenti, purché liberi o sul punto di esserlo, per cui il datore di lavoro cerchi attivamente un candidato adatto al di fuori dell’impresa e sia disposto a fare uno sforzo supplementare per trovarlo. Per questo, un incremento del tasso di riferimento - che riguarda solo le imprese con più di 10 dipendenti – “anticipa” una buona notizia per il mercato del lavoro, indicando una prospettiva positiva di assunzione di nuovo personale. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: in alcuni casi, infatti, un valore alto del tasso di rifermento può nascondere uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro. In altre parole, le imprese cercano
personale che non trovano sul mercato del lavoro, perché magari le competenze richieste sono differenti da quelle disponibili. Però, in linea di massima, quando il tasso dei posti vacanti si alza vuol dire che si sta innescando una ripresa e viceversa.


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martedì 22 agosto 2017

Donne e manager


Un articolo pubblicato su: "la Repubblica" ci parla di donne manager.

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lunedì 21 agosto 2017

Quali caratteristiche ha un buon fornitore?

Quali sono le caratteristiche che, a vostro giudizio, identificano un buon fornitore? Noi, girovagando in rete e leggendo quello che scrivono i colleghi, ne abbiamo raccolta qualcuna:

L'affidabilità

La vostra reputazione presso il cliente dipende anche dalla capacità dei fornitori di soddisfare le esigenze che avete. Se loro sbagliano, vi creano problemi e ne creano alla vostra clientela ecco perché è fondamentale scegliere fornitori che siano affidabili.

La tolleranza

Siccome nessuno è perfetto, nemmeno voi, è bene cercare fornitori che non siano troppo rigidi davanti ai vostri errori e che sappiano gestire le telefonate con cui chiedete di mettere a posto al volo una problematica che si è creata per colpa vostra.

La qualità

Quando e dove sia possibile, cercate sempre di acquistare il meglio. Non incoraggiate i fornitori a prendere scorciatoie per diminuire i costi ma collaborate con loro per vedere insieme come ridurli non diminuendo la qualità di ciò che forniscono.

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venerdì 18 agosto 2017

I ricavi dell'industria

(Fonte: "La Stampa")

La crisi non è stata ancora superata:  il  fatturato  dell’industria  italiana  è  sceso  del  2% nel  2016  per  il  quarto  anno consecutivo. Un calo che senza l’auto sarebbe stato ancora più marcato e su cui ha pesato la  difficile  congiuntura  del settore  energia.  A  scattare questa  fotografia  dell’industria Made in Italy è la tradizionale  ricerca  sui  «Dati  cumulativi di 2065 imprese italiane»  presentata  dall’Area Studi  di  Mediobanca,  che  la aggiorna dal 1961.
In  dettaglio  il  rapporto, che ha analizzato società che rappresentano il 51% del fatturato  industriale,  il  50%  di quello manifatturiero, il 35% dei  trasporti  e  il  37%  della grande  distribuzione,  rivela che a tirare il freno quest’anno sono stati il comparto petrolifero  (-19,5%)  e  dell’energia (-7,1%). A salire sono invece  le  vendite  delle  imprese manifatturiere  (+1,9%)  per  il
terzo  anno  consecutivo.  Le grandi imprese sono cresciute del 4,4% e quelle medie dell’1,3%. Per le prime è stato il quarto rialzo in 4 anni, mentre le seconde non hanno mai perso ricavi in 7 anni.
A  spingere  l’industria  manifatturiera,  secondo  l’area studi  di  Mediobanca,  è  stata l’auto  cresciuta  del  9,5%  e, senza  l’apporto  delle  attività  italiane di Fca, si sarebbe limitato al +2,2%. Bene anche le tv, cresciute del 58% grazie al canone in bolletta per la Rai, segno meno invece per gli elettrodomestici  (-8,1%),  a  causa della  concorrenza  estera  e  dei tagli alla produzione italiana. In
ripresa  gli  investimenti,  saliti del 4,9% tra le imprese private e del 7,3% tra quelle manifatturiere, che hanno raggiunto il massimo dal 2010, mentre restano ancora  indietro  il  settore  del
terziario (-13,4%) e, soprattutto, il pubblico (-26,9%).
 

Le  cattive  notizie  balzano agli occhi se si guarda ai livelli pre-crisi del 2008: il fatturato è
ancora  sotto  del  6,4%,  soprattutto per le imprese pubbliche (-17,8%),  anche  se  terziario
(+2,8%)  e  manifattura  (+0,8%) hanno  fatto  meglio  grazie  anche al sostegno delle medie imprese  (+6,7%).  Inferiori  del 15,9%,  poi,  i  margini  operativi (Mol) rispetto al 2007. In questo
caso pubblico (-15,1%) e privato (-16,2%) si sono sfidati a chi ha fatto  peggio  e  la  manifattura
(-7,5%) è andata un po’ meglio.
Si salvano solo le medie imprese,  il  cui  Mol  è  cresciuto  in  10 anni del 9,5%. Mediobanca punta poi il dito sugli investimenti, in  calo  del  25,8%  rispetto  al 2007, con un’influenza negativa
del  13,4%  sulla  competitività delle  aziende  ed  un  invecchiamento degli impianti del 43%.
Anche  il  Financial  Times certifica che le ferite della crisi finanziaria  non  si  sono  ancora
rimarginate. In una analisi sottolinea  come  l’Italia,  assieme alla  Grecia  e  al  Portogallo,  sia
tra  i  pochi  Paesi  a  non  essere tornati ai livelli del 2007. Tra i più  lenti  a  recuperare  ci  sono
infatti  il  Portogallo,  con  un  Pil inferiore  del  2,4%  rispetto  al 2007,  l’Italia  (-6,2%)  e  soprattutto la Grecia (-24,8%).


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giovedì 17 agosto 2017

Agosto in ufficio

Agosto in ufficio è meno stressante. Ce ne parla "la Repubblica".

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mercoledì 16 agosto 2017

Le caratteristiche di un buon cliente (3)

E veniamo ad altre due caratteristiche tipiche dei "buoni" clienti:

La rete

Il cliente che abbia una buona rete di contatti passerà il vostro nominativo a suoi "amici". Lavorare bene per lui, in sostanza, vi darà la chiave d'accesso a tutta la sua rete di contatti. Un modo semplice per ampliare il vostro parco clienti. Il rovescio dlela medaglia è che, se lavorerete male, non avrete mai più la possibilità di accedere a tutta questa gente e che i vostri limiti professionali non resteranno confinati all'interno di una sola azienda.

I soldi

Può sembrare ovvio ma è bene ricordarlo: un cliente economicamente poco stabile vi creerà problemi e patemi d'animo. Meglio puntare su qualcuno che possa essere considerato buono anche in tal senso! ;)

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lunedì 14 agosto 2017

Le caratteristiche di un buon cliente (2)

Altre due caratteristiche che, a nostro giudizio, sono associate ai "buoni" clienti sono:

Il potenziale

Un cliente che ha del potenziale e che vede in noi altro potenziale ci permette di crescere insieme a lui e di impostare un rapporto di lungo termine nel quale entrambe le parti possono ottenere vantaggi e migliorare insieme.

Lo status

Se si lavora con i migliori sul mercato, è abbastanza logico che si venga considerati come facenti parte di questo gruppo e che si faccia di tutto per rimanerci. Un gran lavoro, certamente, ma anche una sfida a migliorarsi in maniera continua e la possibilità di apprendere dai migliori.

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venerdì 11 agosto 2017

Le caratteristiche di un buon cliente

Quali sono le caratteristiche che - a vostro giudizio - contraddistinguono un buon cliente? Se doveste individuarle e ordinarle in una vostra personalissima lista, quale "classifica" traccereste?

Nell'attesa di avere un vostro riscontro, iniziamo ad elencarne qualcuna tra quelle che abbiamo individuato in rete facendo qualche ricerca e leggendo quello che scrivevano un po' di persone:

La fiducia

La cosa migliore che può darci un cliente è la sua fiducia. Ovviamente, questa fiducia va ripagata SEMPRE e per continuare a meritarcela dobbiamo essere onesti con la nostra clientela e, a nostra volta, fidarci. Del resto, c'è qualcosa di peggio di un cliente che si avvicina a noi con preconcetti e che imposta tutto il rapporto sulla difensiva?

La tolleranza

Un altro buon segnale che indica che stiamo conducendo una trattativa con un buon cliente è la sua tolleranza. Attenzione perché "tolleranza" non significa ignorare i problemi e non rompere le scatole ma affrontarli con serenità e risolverli nel modo più amichevole possibile, cercando di venirsi reciprocamente incontro. Questo vale, naturalmente, da entrambe le parti.

Vi viene in mente altro?

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giovedì 10 agosto 2017

L'ape regina in ufficio

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Sono le donne le peggiori nemiche delle donne sul posto di lavoro? La domanda è antica almeno quanto il diffondersi delle carriere femminili, tanto che negli Anni 70 un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan ha coniato un’espressione apposita: la «sindrome dell’ape regina»,
secondo la quale le donne che hanno raggiunto posizioni di vertice si distanziano dalle altre (e quindi le ostacolano) per mantenere lo status di sole che ce l’hanno fatta tra i maschi.
 

A rispolverare il dubbio e l’appellativo arriva ora Olga Kazhan, giornalista del mensile statunitense The Atlantic, che distingue tre tipi di «stronze» sul lavoro—l'aggressiva, la passivo-aggressiva,
l’indifferente— a partire dal post del 2011 di un’ex avvocata diventata mamma a tempo pieno. In comune avrebbero il fatto di trattare malissimo le colleghe, seppure con stili diversi, invece di solidarizzare con loro. «Molte donne mi hanno detto che anche gli uomini le hanno ostacolate—
scrive Khazan —, ma in qualche modo questa cosa pesa di più quando avviene per mano di una donna, che dovrebbe comportarsi da alleata». Una convinzione condivisa da parecchie lavoratrici: una ricerca del 2011 dell’Università della California a Los Angeles su 60 mila persone ha rivelato infatti che le donne preferiscono i capi maschi a quelli femmine.
Permolte delle intervistate queste ultime sono «emotive», «insidiose» e «cattive».
«È una reazione da manuale, è toccata anche aHillary Clinton — dice Chiara Volpato, ordinaria di Psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano —: le donne leader sono spesso percepite come antipatiche e arroganti e le ricerche mostrano che il medesimo comportamento viene giudicato più negativamente se lo mette in atto una donna».


Ha a che fare con gli stereotipi diffusi: «Se identifichi la donna con il calore e la cura — spiega Volpato —, quando assume atteggiamenti da capo, impositivi o di “autorità”, stridono e feriscono di più».
È anche però una questione di stile di comando: «Le donne tendono a essere mediamente più puntuali e a mettere più trasporto in quello che fanno», dice Luisa Corvino
dell’associazione ValoreD, responsabile delle Risorse umane per il colosso del commercio online ePrice. «Gli uomini mettono meno emotività in campo, mentre le donne hanno spesso una passione che le può portare a sembrare aggressive. Ma le rende anche più affidabili».


Il mondo del lavoro inoltre, di solito, è improntato su uno stile «virile», perché a lungo è stato dominato dagli uomini: «C’è un enorme problema rispetto al potere —dice la sociologa Anna Maria Ponzellini —: la leadership delle donne è sostanziale e poco formale, meno legata a una posizione
di comando. Questo la rende anche più sofferta e difficile da affermare in un contesto in cui il potere a cui siamo abituati è quello “maschile”. Quindi molte donne scelgono la via più immediata e introiettano stili e modi da uomo. Che però in loro vengono considerati aggressivi perché le aspettative sono diverse».


La sindrome dell’ape regina si può spiegare in parte anche così. Una ricerca condotta nei Paesi Bassi e in Italia nel 2004 da Naomi Ellemers dell’Università di Utrecht ha dimostrato che le dottorande e i dottorandi che si impegnavano nel lavoro allo stesso modo venivano considerati in modo diverso: le donne erano percepite come meno impegnate, soprattutto dalle professoresse e
in particolare da quelle più anziane. «L’università è un ambiente molto segregato: all’epoca in Olanda solo il 5% dei professori ordinari e l’11% degli associati erano donne (poco di più in Italia: il 7% e il 27%) — dice ancora Chiara Volpato —.
Le donne, soprattutto le più anziane che in passato sono riuscite a fatica a entrare nella
roccaforte maschile, lo hanno fatto ponendosi come eccezioni, dissociandosi dall’universo
femminile e accettando gli stereotipi sulle donne. E continuavano a farlo». Non è un caso che Carol Tavris, una dei ricercatori a cui dobbiamo il termine «ape regina», lo abbia sconfessato fino a «odiarlo»: come si comportano le donne al lavoro — ha detto all’Atlantic —dipende «da quantosi
sentono sicure nella carriera», dal fatto di avere «la possibilità di crescere».


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mercoledì 9 agosto 2017

Si lavora per niente


(Fonte: "Il Fatto Quotidiano")

Ormai non ci facciamo più caso, prenotare le nostre vacanze dal pc è una consuetudine, fare il check-in online una routine, pagare con l’home banking una necessità. Un tempo tutti questi
lavori erano retribuiti, oggi siamo noi a farli gratuitamente. 


Craig Lambert, dopo una serie di articoli pubblicati su Harvard Magazine, ha scritto  Il lavoro ombra (Baldini & Castoldi), un saggio illuminante per aiutarci a capire le sfumature oscure di questo processo in atto, inesorabile. L’autore definisce queste attività  “lavoro ombra” o, senza troppi giri di parole, “la schiavitù della classe media” e individua la loro nascita nell’invasione della robotica nei nostri spazi quotidiani.
Secondo Lambert  tutto ha avuto inizio negli Anni Cinquanta negli Stati Uniti, complice un imprenditore di nome Bill Handerson e la sua azienda di distribuzione di benzina, un  “cane sciolto”
perennemente in guerra con i colossi petroliferi Texaco, Shell ed Esso. L’innovatore Handerson studiava nuove strategie per ridurre il prezzo del carburante, eliminando ogni intermediario per acquistare direttamente dalle raffinerie. Il colpaccio fu il progetto, poi realizzato, di un sistema in
grado di trasmettere dalla pompa i dati sul prezzo della benzina e sul numero di galloni erogati e inviarli  – in seguito  – alla postazione di un impiegato. Attraverso un tubo pneumatico, l’addetto
poteva prelevare il denaro dal cliente e restituire il resto: è stato il primo distributore self-service della storia.
In breve la parabola è questa: noi facciamo benzina da soli e un paio di addetti perdono il lavoro, questa  – in sintesi – è la tara.


Nel 2012 le Poste portoghesi hanno ristrutturato un ufficio fornendolo esclusivamente di sportelli elettronici; prima del restyling per tutti i servizi c’era un impiegato. I McDrive di McDonald’s hanno inserito i touchscreen per le ordinazioni, riducendo del 25% il personale necessario al funzionamento dei ristoranti.


Ma l’autore non vuole addentrarsi in questo delicatissimo punto, il libro non è una critica al progresso e non ci sono lezioni moralistiche. I riflettori sono puntati su di noi, i “consumatori” o gli “utenti”, per accendere la consapevolezza che esiste ancora un confine tra lo svago e il lavoro, tra oziare e lavorare senza accorgersene.
Oggi riteniamo – a torto o a ragione  – normale e inevitabile passare una decina di minuti al telefono a digitare asterischi e altri tasti per avere una risposta da un operatore in carne e ossa, ma non è stato sempre così. È normale rimettere a posto il carrello della spesa in un parcheggio fuori da un supermercato oppure l’azienda ha scaricato su di noi l’incombenza a costo zero? La
consolazione è che in fondo a fare un simile gesto ci sentiamo educati.
Lambert si sofferma soprattutto sulla meccanicità di certi comportamenti, quelli che ci fanno sentire in una strada senza uscita ogni qualvolta ci ritroviamo a tu per tu con una macchina (senz’anima).


All’aeroporto di Amsterdam la giornalista Freke Vuijst si è resa conto che a differenza dello sportello elettronico, l’impiegata in carne e ossa non le ha fatto pagare il sovrapprezzo sul bagaglio.  “Ha usato la sua discrezione, una capacità tutta umana”, sottolinea la giornalista.
Questa discrezione sta lentamente scomparendo attraverso l’abolizione di quella che l’autore chiama
“la scomparsa del personale di supporto”. Fateci caso, quando andate in un grande magazzino di elettronica di consumo per acquistare una televisione o una lavatrice, faticate non poco a trovare
un commesso libero per richiedere informazioni o un consiglio.


“La tecnologia digitale non serve a molto quando si devono risolvere problemi analogici, ossia percepire le similitudini”, scrive Craig, eppure i segnali percepiti sono quelli di un aumento nel prossimo futuro dell’e-commerce, eliminando così ogni rapporto umano, sostituito da un clic.
Del resto gli smartphone bastano da soli a svolgere buona parte del lavoro di
un’assistente di direzione ma il software che crediamo di possedere in realtà è condiviso con lo sviluppatore: ogni aggiornamento è  “lavoro ombra” (pensiamo solo agli upgrade delle app
dell’iPhone).
Quando Facebook mette sul mercato i nostri dati (per non parlare dei contenuti, tutti gratuiti) il nostro apparente  “svago” assume i contorni di  “lavoro ombra”. Ci carichiamo sulle spalle una
mole di piccole mansioni invisibili facendo evaporare il nostro tempo libero.
Il principale imputato  – nel libro – sono le multinazionali, sempre più propense ad accelerare lo  “scarico” sugli utenti del cosiddetto “lavoro ombra ”, creando piattaforme nelle quali siamo noi i protagonisti ma senza compensi.


Un caso  a parte è l’Ikea, l’azienda svedese con la quale ci siamo confrontati praticamente tutti: al termine del libro potrebbe nascere il primo dubbio del lettore. In fondo ci piace l’idea di avere
un mobile a buon prezzo e siamo disposti per questo a portarcelo a domicilio e a perdere delle ore per inserire i bulloni nel legno. C’è anche una perversione umana nel voler metterci alla prova e, forse, persino un pizzico di divertimento.
Un altro dubbio riguarda le casse automatiche dei supermercati: mi sono accorto di comprare un’orata senza che venisse detratto lo sconto del 50% indicato nella confezione. Ho dovuto
chiamare l’assistenza (umana) ed è stato inserito. Una goccia nell’oceano, ma un segnale preciso che nelle macchine è ancora presto per la formazione di una coscienza.


Cosa ne pensate?



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martedì 8 agosto 2017

Quantità o qualità delle ore lavorate? (3)

(Fonte: "Business People")

La stessa filosofia produttiva è stata adottata alla Graph Studio di Pordenone, società con 200 dipendenti specializzata nella realizzazione e nel confezionamento di album fotografici (...). 
Alla Graph Studio, che è un'impresa manifatturiera, gli orari e i turni sono addirittura aboliti del tutto e si lavora per obiettivi, Niente badge o cartellini da timbrare, fatta eccezione per il personale amministrativo, che deve gestire rapporti con banche e fornitori. I dipendenti che si occupano della produzione, invece, sono divisi in team a cui viene assegnato un risultato da raggiungere. Certe giornate possono dunque essere più brevi delle classiche otto ore, purché sia mantenuto un orientamento agli obiettivi. Chi non si adopera per raggiungere il rusultato, oltre a non rispettare l'azienda, fa dunque un torto ai colleghi, visto che il lavoro si svolge in team.

(...)

Dunque, ha ragione in pieno il numero 1 di Panasonic? Sostanzialmente sì. (...) Gli orari prolungati debbano essere considerati una risorsa soltanto quando ci sono picchi di attività che li giustifichino. (...) Insomma, il tirar tardi in ufficio non deve diventare un'abitudine, soprattutto se non è veramente correlato a esigenze produttive. A volte, infatti, la prolungata permanenza sul lavoro può esser dovuta a diversi motivi che poco hanno a che fare con la produttività, per esempio a una cultura aziendale che identifica questo atteggiamento con una dedizione all'impresa. In altri casi, invece, la presenza oltre l'orario normale può essere l'effetto di un atteggiamento troppo ansioso dello stesso lavoratore rispetto ai compiti ricevuti o indice di scarsa efficienza operativa, sia di un singolo dipendente che di un team. Non è detto, insomma, che un dipendente abituato a stare molto in azienda sia sempre e comunque da prendere a modello.

La stanchezza può ridurre la lucidità nelle scelte e nell'operato di un lavoratore ed è solitamente controproducente (...), inoltre, minori spazi di vita privata e di riposo possono rappresentare un fattore demotivante nel medio e lungo periodo.

(...) C'è poi un altro aspetto: spesso, più degli orari prolungati, a far aumentare la produttività del lavoro sono soprattutto le motivazioni intrinseche. C'è per esempio il piacere di contribuire ai risultati (...) o il desiderio di crescita professionale, il senso di appartenenza e il buon clima aziendale, oltre a fattori come il prestigio, la sicurezza e la vicinanza a casa.

Belle parole, ma come si fa a gestire al meglio il tempo e a essere più produttivi? (...) 
Spesso il tempo viene trattato come se fosse un valore in sé e non come una risorsa che possiamo utilizzare al meglio soltanto se ci è chiaro ciò che vogliamo ottenere e come. In altre parole (...) la produttività è legata alla definizione degli obiettivi che il dipendente sta cercando di raggiungere e come questo risultato si concilia con i suoi valori, la sua vita personale e familiare. Solo dopo aver definito questi aspetti e identificato le prioprità, il lavoratore può ottenere una gestione del tempo "efficace" ancor prima che "efficiente".


(...)

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lunedì 7 agosto 2017

Quantità o qualità delle ore lavorate? (2)

(Fonte: "Business People")

 Nel suo appello ai dipendenti, il numero uno di Panasonic si è rivolto non soltanto ai manegr o ai quadri ma a tutto il personale dell'azienda, a qualunque livello e mansione. Per questo, sorge spontaneo un  interrogativo: è possibile adottare orari di lavoro flessibili, in nome della produttività, anche tra i dipendenti che svolgono lavori manufatturieri o artigianali, nelle fabbriche o nei laboratori, e perciò impegnati a rispettare modalità di produzione a catena?

Analizzando le innovazioni di processo e di gestione delle risorse umane adottate da diverse aziende manifatturiere, anche italiane, viene da rispondere di sì.
Oggi, infatti, anche nel settore manifatturiero si tenta di adottare metodologie operative che vanno ben al di là del lavoro impostato su turni e orari fissi, prediligendo una maggiore concentrazione sugli obiettivi. Lo sa bene chi lavora in imprese del distretto meccanico emiliano come la Tetra Pak di Modena o il noto produttore di motociclette Ducati. Negli stabilimenti di queste due aziende, per esempio, la produzione è divisa in aree diverse, dove ciascun operaio o un team di dipendenti deve completare autonomamente la costruzione di un determinato pezzo. C'è, dunque, un'organizzazione del lavoro decentrata che permette anche a chi sta in fabbrica di gestirsi gli orari settimanli con una certa flessibilità, purché vengano rispettate le scadenze prestabilite per la consegna del materiale lavorato. L'importante è aver raggiunto l'obiettivo, insomma, non quanto tempo si sta in azienda.

Domani vedremo insieme un altro esempio di azienda italiana che si sta muovendo in questa direzione.

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venerdì 4 agosto 2017

Quantità o qualità delle ore lavorate?

(Fonte: "Business People")

Kazuhiro Tsuga, manager di razza e presidente della giapponese Panasonic, è uno che di solito non va tanto per il sottile. Lo sa bene chi lavora con lui da cinque anni, ovvero da quando Tsuga ha assunto l'attuale carica e ha messo in atto una cura lacrime e sangue per risanare la multinazionale, riducendo del 10% il personale, tagliando gli stipendi dei top manager e disboscando una fitta selva di filiali estere del gruppo, ben 560 in tutto il mondo.
Pochi mesi fa, tuttavia, ha pronunciato alcune frasi che sono apparse quasi rivoluzionarie: "Lavorate meno per essere più produttivi", rivolgendosi ai propri dipendenti e invitandoli a non trattenersi in ufficio dopo le 8 di sera. Dichiarazioni che, ovviamente, non sono passate inosservate in un Paese come il Giappone, dove la popolazione è tradizionalmente stacanovista e dove si registra la più alta percentuale al mondo di impiegati che lavorano oltre 49 ore a settimana.

Le parole di Tsuga, per quanto possano apparire sconvolgenti perché pronunciate da un capo-azienda, sono in realtà di buon senso anche per un manager. Per rendersene conto, basta guardare alle classifiche sulla produttività delle maggiori nazioni industrializzate e confrontarle con quelle sulle ore lavorate diffuse ogni anno dall'Ocse.
I Paesi dove si lavora meno, infatti, sono spesso quelli dove si registra una maggiore produttività. In Germania e nel Nord Europa, per esempio, la media ore lavorate varia tra le 26 e le 30 settimanali, contro le 33 dell'Italia: un'ora di lavoro tricolore produce in media un pil pari a circa 47 dollari ontro gli oltre 60 della Germania.


Continueremo il discorso la prossima settimana perché, più del concetto in sé che abbiamo esaminato insieme più volte su queste pagine, ho trovato innovativa l'idea che l'invito a lavorare meno fosse esteso anche al personale più produttivo perché non è affatto scontato.

Lo vedremo insieme lunedì.


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giovedì 3 agosto 2017

Good boss vs. bad boss

(Fonte: "Il Dirigente")

Quali sono i comportamenti dei manager efficaci? 

La ricerca Gallup 2009, che misura il grado di onestà ed etica attribuito dagli intervistati alle diverse professioni, riporta i manager in penultima posizione, appena poco più onesti dei rivenditori di macchine usate. In altre parole, se volessimo conoscere la felicità di un collaboratore all’idea di trascorrere del tempo con il proprio capo, scopriremmo che è mediamente bassissima: preferirebbe
passare del tempo con chiunque altro o addirittura stare da solo. 


Il polso italiano non è molto diverso: i primi dati della ricerca di Cfmt e Aiads (Associazione italiana di analisi dinamica dei sistemi), svolta in collaborazione con il Clep (Centro di ricerca sul cambiamento, la leadership e il people  management  dell’Università Liuc) e la London business school, mostrano che solo il 23% dei collaboratori intervistati se la sentirebbe di promuovere il proprio capo come una persona con cui lavorare.


Odio il mio capo!

 
Su un campione di 248 rispondenti, il 45% rappresenta la popolazione dei cosiddetti “detractors”, ovvero persone infelici e insoddisfatte, non propense a dare un giudizio positivo sul proprio capo e molto pericolose per l’azienda:  contribuiscono  a  più dell’80% del passaparola negativo nei confronti dei manager e dell’azienda, non mostrano passione per ciò che fanno, sono demotivati e il loro atteggiamento condiziona i colleghi, deteriorando il clima del gruppo e generando ulteriore scontentezza. Il 25% del campione invece rappresenta i “neutral”, i collaboratori passivamente soddisfatti, che mediamente lavorano senza particolare entusiasmo e motivazione, ma non sono nocivi alla reputazione dell’azienda.


Questi risultati sono un chiaro segnale del fatto che le competenze e i comportamenti manageriali non rispondono adegua tamente alle esigenze dei collaboratori.


(...)

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mercoledì 2 agosto 2017

Sei un leader?

(Fonte: "Il Dirigente")

Cinque domande sulla leadership e il suo ruolo nel management a George Kohlrieser, professore di leadership e comportamento organizzativo alla business school svizzera Imd, nonché autore, relatore e consulente con più di quarant’anni di esperienza come negoziatore di ostaggi.  

Cosa caratterizza un buon leader?
 
«Un buon leader è colui che è capace di creare una visione, che sa dove vuole arrivare ed è in
grado di guidare anche gli altri membri dell’azienda verso la stessa meta. I leader sono essenzialmente persone autentiche e umili, curiose e creative, che si pongono sempre nuove domande col desiderio di imparare. La leadership può essere appresa: non ci sono prove che dimostrano che essa sia qualcosa di genetico o ereditario».


Perché tutti noi abbiamo bisogno di leader nella nostra vita? 

 
«Le persone hanno la necessità di contare su una guida che faccia sentire loro sicure, ed è per
questo motivo che i leader diventano così potenti da ispirare e condurre le persone nella direzione giusta. Inoltre i leader sanno ascoltare i propri seguaci; si tratta perciò di un processo collettivo, nonostante la psiche umana sia fondamentalmente orientata a contare su autorità.
Ciò non significa però che i leader debbano adottare un comportamento autoritario, ma instaurare fiducia nelle persone affinché diventino seguaci».


Crede che la leadership orizzontale possa avere successo, nonostante non venga rispettata la forma tradizionale di gerarchia?

 
«In vari casi il leader emerge a seguito di un processo psicologico che influenza le altre persone.
Queste tendono ad avere bisogno di un leader per poter spingere l’energia nella giusta direzione. Per essere un leader con un’elevata capacità di performance, bisogna quindi canalizzare questa energia in modo che  riesca a raggiungere la visione dell’impresa».
 

Crede che esistano dei leader negativi?
 
«Assolutamente sì. Esistono molti leader distruttivi, come i narcisisti, ai quali interessa solo apparire
come i più intelligenti. La principale differenza tra un leader distruttivo e un leader positivo è che
il primo è focalizzato sul proprio ego, mentre il secondo è interessato principalmente a imparare
sempre cose nuove. Esiste un pericoloso segnale che consente di riconoscere un leader distruttivo:
la resistenza all’ascolto e il disinteresse a imparare. Invece i grandi leader sono e saranno sempre assetati di conoscenza, creatività e curiosità».


Come riescono i leader a massimizzare il talento del proprio team?

 
«In primo luogo simulando ciò che fanno i negoziatori di ostaggi: fare domande per capirne le motivazioni. Una volta identificati i talenti, un buon leader deve essere in grado di creare un clima di sicurezza all’interno del proprio team, in modo tale che le persone si sentano libere di osare, fare ciò che normalmente non farebbero e dare libero sfogo alla propria creatività. 


I grandi leader fanno principalmente tre cose: ispirano, creano e cercano talenti, dando vita a team
dall’alto rendimento e guidando l’inevitabile cambiamento».


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martedì 1 agosto 2017

Stage: le nuove regole contro gli abusi

 (Fonte: "La Stampa")

Da  opportunità  formativa  sono  diventati  l’icona  della  precarietà  e degli  abusi.  Stage  e  tirocini conquistano la cronaca di giornali e mass media solo quando scoppiano  evidenti  violazioni,
ma se gestiti come prevedono le norme sono uno trampolino per portare i giovani nel mondo  del  lavoro.  Dopo  l’accordo tra Stato e Regioni del 25 maggio, ora le amministrazioni regionali hanno tempo fino al 25 novembre per recepire le nuove Linee guida per la realizzazione di stage e tirocini.
 

Il  nuovo  testo  contiene  disposizioni  importanti.  Innanzitutto vanno distinti tra di loro  i  tirocini  curriculari  da quelli  extracurricolari.  La nuova  normativa  riguarda questi ultimi, vale a dire stage che  vengono  realizzati  dopo l’acquisizione del titolo di studio, e non come parte del programma  di  studi.  Si  calcola che gli stage di questo tipo realizzati  in  Italia  coinvolgano
ogni anno oltre 300 mila giovani, ma se si aggiungono i tirocini offerti al di fuori delle norme, al nero o senza rispettare i requisiti richiesti, si stima che il popolo degli stagisti arrivi a superare  le  500  mila  unità.


L’avvertenza è quella di riportare  la  trasparenza  in  questo mondo  e  stroncare  gli  abusi,
uno dei quali riguarda l’indennità di partecipazione e un altro  la  presenza  di  due  tutor, uno  da  parte  dei  promotori, l‘altro  da  parte  dell’azienda ospitante.
Gli stage non possono essere proposti da singoli individui o autoproposti, anche perché è
prevista  la  presenza  di  una convenzione e di una polizza di assicurazione  contro  gli  incidenti  sul  lavoro  e  per  la  responsabilità  civile.  Nel  documento  di  23  pagine  stilato  da Stato e Regioni vi sono anche gli allegati che servono per la stesura del progetto formativo dello  stage  (www.cliclavoro.gov.it,  Formazione).  


L’indennità mensile minima è stata confermata a 300 euro, ma in  diverse  regioni  si  pagano
400-500  euro.  Piemonte  e Abruzzo pagano di più (fino a 600 euro), ma ci sono aziende che  pagano  mille  euro.  Sono previste  sanzioni  per  chi  non rispetta  le  linee  guida.  Per esempio,  la  mancata  corresponsione dell’indennità comporta  una  sanzione  amministrativa da un minimo di mille ad un massimo di 6 mila euro.
La  durata  minima  è  stata portata a due mesi, salvo le attività  stagionali  (un  mese), mentre quella massima è di 12 mesi, estesi a 24 mesi per i disabili.  Per  tirocini  in  mobilità interregionale,  dovrà  essere applicata  la  normativa  regionale in cui si colloca il soggetto ospitante.  Rimane  salva  la
possibilità  di  accentramento per i datori di lavoro pubblici e privati con sedi in più regioni, che  possono  fare  riferimento alla sola normativa della regione dove è collocata la sede legale. Sono previste anche quote di stagisti a seconda delle dimensioni aziendali: in generale uno stagista sotto i 5 dipendenti, due fino a 20, il 10% sopra i 20 dipendenti. 


Nell’ambito del programma nazionale  Garanzia  Giovani possono essere promossi tirocini  extracurriculari  di  orientamento,  inserimento  o  reinserimento e tirocini in mobilità geografica nazionale e transnazionale. Inoltre, il 1° marzo 2016 è stata avviata la misura Super  Bonus  occupazionale trasformazione  tirocini,  che sostiene la trasformazione dei tirocini  in  contratti  di  lavoro attraverso  un  incentivo  per  i datori di lavoro.


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