martedì 28 febbraio 2017

Posti di lavoro fuori azienda

(Fonte: "Italia Oggi")

C’è chi prevede che il lavoro dipendente finirà. Infatti, negli Stati Uniti, non è mai stato così massiccio il ricorso all’outsourcing da parte dei grandi gruppi con molti dipendenti, da Google a Wal-Mart, che da tempo stanno cercando in maniera pesante di appaltare all’esterno molte parti della propria attività. Nessuno, nel settore del trasporto aereo si avvicina al grado di efficienza
raggiunto dalla compagnia Virgin America quanto a rapporto fatturato-dipendente. E questo perché la consegna del bagaglio, la manutenzione pesante, le prenotazioni, la ristorazione e molte altre funzioni non sono realizzate dai dipendenti dell’aerolinea, ma invece affidate a contraenti esterni. In
pratica date a lavoratori che sono fuori dall’azienda. Sono esternalizzate, come si dice con una brutta parola. Date in outsourcing. «Noi esternalizziamo ogni lavoro possibile che non sia a contatto diretto con la clientela», ha spiegato David Cush, ad della compagnia aerea agli investitori lo scorso
marzo, secondo quanto ha riportato il Wall Street Journal.
 

Mai prima d’ora le aziende americane hanno cercatodi impiegare così poche persone. L’ondata di outsourcing che ha interessato in passato la produzione di abbigliamento in Cina e le operazioni realizzate attraverso i call-center in India ora è probabile che andrà a interessare tutta l’industria
degli Stati Uniti, in quasi tutti i settori.
Gli uomini e le donne che scaricano container nei magazzini di Wal-Mart Stores sono forniti dalla società per le operazioni di logistica Schneider National, che a sua volta subappalta alle agenzie
di lavoro temporaneo. Pfizer ha utilizzato contraenti per eseguire la maggior parte dei suoi studi clinici sui farmaci l’anno scorso.
Il modello del contraente è così prevalente che Google, che fa capo alla holding Alphabet, classificata dalla rivista Fortunecome il posto migliore dove lavorare negli ultimi sette anni del decennio scorso, conta approssimativamente lo stesso numero di lavoratori in outsourcing rispetto a quello dei dipendenti a tempo pieno. Circa 70 mila Tvc, un’abbreviazione per indicare i lavoratori occasionali (venditori, verificatori dei test drivers, revisori di documenti legali, quelli che rendono più facile l’uso dei prodotti, quelli che gestiscono progetti di marketing) svolgono tante altre
mansioni e funzioni. Indossano distintivi rossi sul posto di lavoro, mentre sono bianchi quelli dei dipendenti.
Questo sistema garantisce alle imprese una maggiore flessibilità anche in relazione alla domanda e
permette loro di rimpiazzare i lavoratori controllando i costi.
Al momento nessuno sa quanti siano i lavoratori saltuari perché non sono stati ancora censiti, ma secondo le stime degli economisti sarebbero all’incirca intorno a 20 milioni di persone. In pratica
dal 3 al 14% della forza lavoro degli Stati Uniti. Bank of American Verizon Communications Procter&Gamble, Fedex hanno migliaia contraenti. Nel settore dell’oil & gas e in quello farmaceutico il rapporto è di due a uno.
Nei prossimi anni i dipendenti saranno ridotti al minimo. Una rilevazione della società di consulenza
e di outsourcing Accenture aveva previsto che una fra le 2 mila più grandi società globali non avrebbe più assunto dipendenti nei prossimi dieci anni. Pochi economisti ritengono che l’outsourcing sarà un trend dal quale si potrà tornare indietro.


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lunedì 27 febbraio 2017

Il mondo in mano ai robot ma il lavoro resisterà all’automazione

(Fonte: "Affari&Finanza")

L’hi-tech brucia posti e ciò alimenta previsioni catastrofiche ma si stanno anche prendendo misure adatte a gestire una complessa fase di transizione. La Daimler su alcune linee produttive riduce le macchine e rimette gli uomini

Hal lo ammette, “ho paura”. È un sentimento umano, privilegio dei computer più sofisticati. Comincia a cantare, “giro giro tondo”. Sempre più lentamente, finché si spegne. E Frank torna padrone dell’astronave. È una delle scene più inquietanti di “2001 Odissea nello spazio”. L’astronauta che vince sulla macchina che lo voleva uccidere è la catarsi tipica di uno sterminato filone letterario e cinematografico.
Il film di Stanley Kubrick assorbiva nel 1968, nel periodo cruciale dell’uomo sulla luna e della sfida nello spazio tra Usa e Urss, l’angoscia atavica del fantascientifico darwinismo postindustriale. La paura della rivolta delle macchine e della sostituzione degli esseri umani attraverso l’intelligenza artificiale. Sconfiggendo HAL, Frank ristabiliva la famosa prima legge della robotica del grande scrittore di fantascienza Isaac Asimov: “Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno”. 
Oggi quella legge sembra di nuovo in pericolo.

A rischio uno su due
Gli studiosi più pessimisti dicono che negli Stati Uniti, nei prossimi vent’anni, un posto di lavoro su due sarà spazzato via dalle macchine. La sfida dei robot all’uomo è tornata più attuale che mai. Non c’è bisogno di spingersi sul terreno di chi teme che in futuro i computer possano prendere il controllo degli esseri umani come nel capolavoro di Kubrick; e tra loro figurano non aspiranti stregoni ma il fondatore di Microsoft, Bill Gates, e il fisico Stephen Hawking, secondo il quale siamo alla vigilia “di un evento che potrebbe essere il più importante nella storia umana ma anche l’ultimo, se non impariamo ad evitarne i rischi”. Ma vale la pena analizzare uno dei fenomeni più studiati negli ultimi anni, quello dell’impatto dei robot sull’occupazione.
Innumerevoli ricerche, ormai, calcolano il possibile tasso di sostituzione dei lavoratori attraverso le macchine, cercano di stimare la perdita di posti di lavoro nel vecchio e nel nuovo mondo a causa del progresso tecnologico. Ed è un discorso che ha moltissimo più a che fare con il tema deflagrato durante la Grande crisi, quello del declino della classe media e delle diseguaglianze, di quanto non si pensi.
A metà gennaio, all’ultimo Forum economico mondiale di Davos, c’era anche il consigliere economico di Donald Trump, Anthony Scaramucci. E mentre sulle Alpi svizzere rimbalzavano notizie confuse di top manager che si affannavano a promettere di spostare le fabbriche in America e creare posti di lavori nel Paese che ha annunciato una feroce crociata contro la globalizzazione, un moderatore gli ha fatto la domanda più azzeccata.

Uffici de-umanizzati
“Scusi”, ha chiesto a Scaramucci, “voi vi occupate del lavoro delocalizzato in altri Paesi, ma cosa farà Donald Trump con i milioni di posti di lavoro che spariranno nei prossimi anni in America per la digitalizzazione?”. Imbarazzato silenzio.
Lo spettro delle fabbriche e degli uffici de-umanizzati è antico anche nell’economia più potente del mondo. Nel 1940, nel discorso dello Stato dell’Unione, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt disse che la disoccupazione ancora alle stelle - dopo il decennio della Grande Depressione - era dovuta al fatto che “riusciamo a creare posti di lavoro più lentamente di quanti l’innovazione ne faccia sparire”. Nei decenni successivi, le paure di Roosevelt e le previsioni apocalittiche dei più pessimisti non si sono mai avverate.
L’economia è cambiata, l’industria e la finanza hanno continuato a garantire milioni di posti di lavoro, e anche oggi, nel mezzo di una nuova rivoluzione, quella tecnologica, non tutti concordano con una delle stime più citate.
Due studiosi di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, hanno calcolato che nei prossimi due decenni, il 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbe essere spazzato via dai robot. E anche chi non concorda con questa devastante previsione, ammette che ormai nessuno è al riparo dalla digitalizzazione. Quella di pensare che il lavoro in fabbrica sia più a rischio che quello alla scrivania è una pia illusione. Nell’elenco dei mestieri che sono minacciati dall’automazione ce ne sono di “insospettabili”: il farmacista, l’avvocato, il giornalista, il baby sitter, il chirurgo, il soldato. Nessuno è al riparo.
Quanto ai numeri complessivi, Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn hanno curato uno studio per l’Ocse in cui arrivano a conclusioni molto diverse da quelle dei colleghi di Oxford. Appena il 9% dei posti nei 21 Paesi più industrializzati al mondo sarebbe a rischio, con un picco del 12% in Austria e il record negativo in Corea (7%). L’Italia sarebbe nella media: poco sotto il 10%. Ma l’aspetto interessante è che il loro dato rispecchia una riflessione condivisibile: “il lavoro include sempre una serie di compiti che sono difficili da automatizzare tutti”. Inoltre i cambiamenti tecnologici “creano anche nuovi lavori, perché nascono nuovi prodotti e servizi e perché le aziende diventano più competitive e creano nuove tecnologie”.

Il caso tedesco
Un esempio viene dalla Germania, che è fra i cinque Paesi che assorbono la stragrande maggioranza, ossia il 70%, dei robot industriali al mondo (gli altri sono la Cina, il Giappone, gli Usa e la Corea). La prima economia europea è esemplare anche perché è trainata dall’industria dell’automobile, che è anche quella che ha comprato il maggior numero di macchine, al livello globale, tra il 2010 e il 2014, e ad un ritmo di crescita da capogiro: in media +27% all’anno. Ma alla Daimler, negli ultimi anni, il prevalere del modello Toyota, dell’automobile “on demand”, ha costretto i manager ad un ripensamento. Le ordinazioni che arrivano al colosso dell’automobile, sono le più bizzarre: Swarowski sui fari o rifiniture speciali in oro o chissà. Così, nel tratto finale della catena di montaggio delle Mercedes i robot sono stati sostituiti degli operai. Per venire incontro alle richieste dei singoli clienti ci vuole la mano dell’uomo. I robot non sono abbastanza flessibili. Intelligenti, si potrebbe quasi dire.

La Grande Ristrutturazione
L’economia, insomma, cambia e non imbocca mai una direzione sola. Nell’Ottocento l’agricoltura dava lavoro all’80% degli americani; oggi è il 2%. Ed è una rivoluzione che non ha provocato né pesti né carestìe, ma un mondo nuovo. Però Eric Brynjolfson e Andrew McAfee, autori di “La nuova rivoluzione delle macchine” (Feltrinelli), uno dei maggiori best seller degli ultimi anni su come le tecnologie stanno ridisegnando il mondo, avvertono: “la radice del nostro problema è che non siamo in una Grande Recessione o una Grande Stagnazione, ma nella prima fase di una Grande Ristrutturazione. Le tecnologie corrono e molti dei nostri lavori e delle nostre organizzazioni restano indietro”. Per loro è “urgente” che se ne discuta e che gli uomini “riconquistino la guida della corsa”.
Uno dei problemi principali posto dalla scomparsa del lavoro è quello poco discusso delle ripercussioni sociali. Richard Freeman, economista di Harvard, parla del rischio di un “feudalesimo dell’età delle macchine”. La robotizzazione, afferma non senza un’eco marxiana, “rischia di dividere le società tra i proprietari dei robot da una parte e i lavoratori dall’altra”.
Insomma, “il maggiore rischio non è un futuro senza lavoro, bensì un futuro in cui i salari saranno in calo o stagnanti (perché le macchine si prenderanno la quota maggiore di lavori ad alta produttività) e la fetta di guadagno che andrà ai proprietari, aumenterà”. La robotizzazione rischia dunque di aumentare ulteriormente le diseguaglianze. E questo è un problema centrale, che bisogna cominciare a porsi sin d’ora.
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venerdì 24 febbraio 2017

Specializzazioni ma non troppo

(Fonte: "Italia Oggi")

Specializzazioni professionali da maneggiare con cura. La parola d’ordine è polivalenza, valorizzando la formazione professionale continua. La scelta di un settore specifico deve essere solo successiva a un’ampia preparazione di base che permetta di adattare la propria attività alle
esigenze di mercato. Deve, infatti, essere scongiurato il rischio che i professionisti specializzati si trovino espulsi dal mercato professionale nel caso in cui i trend dovessero cambiare. 


In base alla ricognizione effettuata da ItaliaOggi Sette è questa la strategia di base che le professioni tecniche (ingegneri, periti industriali, architetti, geometri, periti agrari, agronomi, chimici, tecnologi
alimentari e geologi) in Italia stanno mettendo in campo per affrontare i continui cambiamenti del mercato professionale.
In controtendenza rispetto al mondo economico-giuridico che, invece, spinge sempre di più verso la specializzazione professionale, l’atteggiamento delle professioni tecniche, pur con qualche differenza
tra le categorie, risulta essere di maggior prudenza.
Le specializzazioni, infatti, possono rivelarsi un’arma a doppio taglio. Fermo restando che, per qualsiasi tipologia di attività, il professionista cosiddetto generalista è una realtà che non può più trovare un eccessivo campo di azione, è pur vero che chiudersi in un settore di nicchia rischia di esporre i professionisti al rischio di fare estrema fatica a reinventare l’attività.
Dinamica che rischia di essere tanto più evidente nelle realtà economiche distanti dalle grandi città. Meglio, quindi, valorizzare la formazione professionale continua attraverso la quale ciascun
soggetto può, sulla base delle esigenze di tempo e di luogo, acquisire quelle competenze certificate e necessarie ad emergere nel settore di interesse. Delineata una linea comune di azione, però, non
mancato le differenze di opinione non solo tra le professioni aderenti alla Rpt, ma anche all’interno delle stesse categorie e tra generazioni.
Ad esprimere maggiore cautela nei confronti delle specializzazioni sono, ad esempio, i Giovani ingeneri guidati da Marco Cantavenna ad avviso del quale «spingere verso un’eccessiva specializzazione è rischioso, soprattutto per i giovani professionisti. In un momento in cui non è ancora chiaro l’andamento del mercato libero professionale del settore, anche alla luce delle continue novità in campo tecnologico, è importante che i giovani che si affacciano alla professione lavorino per avere una preparazione di base che sia più ampia e articolata possibile in modo da
potersi adattare alle mutevoli esigenze di mercato. Più che sulle specializzazioni», ha sottolineato Cantavenna, «è importante lavorare sulla certificazione delle competenze che permetterebbero di avere un quadro più completo della realtà professionale». 

Non dello stesso avviso, invece, il rispettivo Consiglio nazionale di categoria (Cni) che, tramite
il consigliere Luca Scappini, ha posto l’accento «sul fatto che il mercato ingegneristico è ampio e articolato ed è necessario fare una distinzione tra quelle che sono piccole realtà e quello che le dinamiche internazionali ci chiedono. Se si guarda a questo secondo aspetto», ha sottolineato il consigliere, «è innegabile che il mercato chieda una specializzazione ed è proprio in questa
direzione che dobbiamo lavorare». Tesi a grandi linee condivisa anche dagli architetti ad avviso dei quali visto e considerato che la formazione di base offerta dai percorsi universitari è omogenea sul territorio i professionisti sono al riparo dal rischio di non sapersi adattare ad esigenze di mercato differenti. Inoltre, alla luce dell’ampia concorrenza esistente nel settore è importante lavorare sia
sulle specializzazioni professionali, sia su una miglior qualificazione professionale grazie alla formazione professionale continua come elemento da valorizzare.
Di diverso avviso, invece, i geometri. «La parola chiave che ha permesso alla categoria di non soccombere al periodo di crisi economica è polivalenza», ha spiegato il vicepresidente del Cngegl Antonio Benvenuti, «siamo fortemente convinti che serva una formazione di base estremamente ampia, articolata e soprattutto strutturata che permetta ai futuri professionisti di applicarsi in tutti i settori a seconda di quelle che sono le richieste del territorio e del mercato. E il valore aggiunto
in questo caso», ha spiegato Benvenuti, «è la formazione professionale continua che se applicata a delle solide radici completa il professionista». 

Peculiare, invece, la situazione dei periti industriali che considerano il tema della specializzazione, in realtà, un falso problema. «La specializzazione per la categoria, infatti, è sempre stata e continua a essere un valore aggiunto e una risorsa, considerando che l’albo è composto da oltre 27 specializzazioni diverse, che ha permesso ai periti industriali di essere presente nelle diverse aree del sapere e quindi di coprire diversi settori di mercato», hanno fatto sapere dal Cnpi, «nello stesso tempo la tecnica e le sue evoluzioni normative sono così rapide che non consentono ad alcun professionista di avere una conoscenza completa del settore di attività. L’idea, quindi, è che sia necessario avere una preparazione generalista con una spinta decisa verso la specializzazione. Per
il professionista di area tecnica vale la pena ricordare il tema della progettazione integrata che si caratterizza per la condivisione dei sistemi, l’interazione delle competenze e la multidisciplinarietà». Allineati invece, periti agrari, chimici e agronomi. «Nel nostro settore», ha sottolineato il presidente del Conaf, Andrea Sisti, «il mercato cambia rapidamente, così come le esigenze del territorio e dobbiamo evitare che i professionisti rischino l’esclusione dal mercato chiudendosi in una sola nicchia. Per noi la strategia vincente è l’adattabilità unita alla formazione». Tesi condivisa anche dai
chimici, che sono tornati a porre l’accento sulla formazione professionale continua e dai periti agrari per i quali, «le competenze specifiche devono, eventualmente», ha sottolineato il presidente del Collegio nazionale Lorenzo Benanti, «solo essere successive a una preparazione di base ampia e
articolata». Infine, differenti le dinamiche dei tecnologi alimentari e dei geologi. I primi tramite la presidente Carla Brienza hanno posto l’accento sulla necessità, per la categoria, di riuscire a tornare ad una formazione universitaria su base quinquennale che sia omogenea sul territorio. I secondi, invece, hanno evidenziato la necessità di «avvicinare il percorso accademico alle esigenze del mondo professionale per arrivare, poi», ha precisato Francesco Pedutopresidente del Consiglio nazionale dei geologi, «ad affrontare il tema delle specializzazioni».


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giovedì 23 febbraio 2017

Mettersi in proprio

Io mi limito a riportare eh... ;)

(Fonte: "Italia Oggi")

Contributi a fondo perduto e finanziamenti a tasso zero sono le opportunità a disposizione dei giovani che vogliono crearsi un’opportunità di lavoro. Chi vuole affrontare una sfida
imprenditoriale, soprattutto se giovane, può contare su una vasta gamma di incentivi a vari livelli, sia nazionale che locale. Invitalia rappresenta sicuramente il punto di riferimento per queste misure di aiuto visto che gestisce più incentivi validi su tutto il territorio nazionale o su gran parte di esso.
 

Tra le misure attive per la creazione d’impresa a livello nazionale, sono operative SELFIEmployment e Smart & Start Italia. È anche possibile presentare richiesta di accesso allo strumento «Nuove imprese a tasso zero», anche se i fondi sono attualmente insufficienti per nuove domande.

SELFIEmployment è il fondo rotativo nazionale istituito dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l’incentivazione dell’autoimpiego destinato alle categorie di soggetti svantaggiati sul
mercato del lavoro. Questo strumento finanzia l’avvio di piccole iniziative imprenditoriali ed è rivolto ai giovani dai 18 fino a 29 anni, iscritti al programma Garanzia Giovani, disoccupati e non impegnati in percorsi di studio, non inseriti in tirocini curriculari e/o extracurriculari (i Neet). Il Fondo è gestito da Invitalia nell’ambito del Programma Garanzia Giovani.
I programmi di spesa finanziabili sono inclusi tra 5 mila e 50 mila euro e possono essere agevolati attraverso la concessione di finanziamenti a tasso zero non assistiti da alcuna forma di garanzia
reale /o di firma. I finanziamenti sono concessi secondo la regola comunitaria del «de minimis» ai sensi del Reg. 1407/2013. La domanda può essere inviata esclusivamente online, attraverso
la piattaforma informatica di Invitalia, con modalità a sportello. Al 1° gennaio 2017, dopo pochi mesi dall’avvio, sono state finanziate 75 iniziative per un’agevolazione concessa pari a 2,4 milioni
di euro.
 

Nuove imprese a tasso zero è un’agevolazione a beneficio dei giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni e delle donne che vogliono avviare una micro o piccola impresa.
Le agevolazioni sono valide in tutta Italia e finanziano progetti d’impresa con spese fino a 1,5 milioni di euro e prevedono un finanziamento a tasso zero della durata massima di otto anni, che può coprire fino al 75% delle spese totali. Le imprese devono garantire la rimanente copertura finanziaria e realizzare gli investimenti entro 24 mesi dalla firma del contratto di finanziamento.
Sono finanziabili le iniziative per la produzione di beni nei settori industria, artigianato e trasformazione dei prodotti agricoli, la fornitura di servizi alle imprese e alle persone, il commercio di beni e servizi e il turismo.
Possono essere ammessi anche i progetti nei seguenti settori, considerati di particolare rilevanza per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile: filiera turisticoculturale, intesa come attività per la valorizzazione e la fruizione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico, nonché per il
miglioramento dei servizi di ricettività e accoglienza e innovazione sociale, intesa come produzione di beni e fornitura di servizi che creano nuove relazioni sociali o soddisfano nuovi bisogni sociali. La presentazione del business plan e della documentazione avviene esclusivamente online, attraverso
la piattaforma informatica di Invitalia. 

Attualmente le risorse finanziarie assegnate a questa misura non sono sufficienti a coprire il fabbisogno potenziale delle domande presentate ed è stata quindi sospesa l’attività di valutazione delle richieste risultate potenzialmente eccedenti. Tuttavia lo sportello di presentazione delle
domande rimane aperto e in caso di ulteriori stanziamenti l’attività di valutazione delle domande riprenderà.
Al 1° gennaio 2017, risultano finanziate 143 iniziative per un’agevolazione concessa pari a 35 milioni di euro.


Smart & Start Italia finanzia le start-up innovative. La nascita e la crescita delle start-up innovative in tutta Italia è sostenuta dallo strumento Smart & Start. Ha una dotazione complessiva di circa 200 milioni di euro e finanzia progetti con spese fino a 1,5 milioni di euro. Per accedere agli incentivi la
start-up innovativa non deve essere costituita da più di 48 mesi e deve essere di piccole dimensioni e avere sede legale e operativa in Italia.
Possono richiedere le agevolazioni anche le persone fisiche che intendono costituire una start-up innovativa, compresi i cittadini stranieri in possesso del visto startup. Le imprese devono essere
iscritte obbligatoriamente al registro delle Imprese come start up, non essere sottoposte a procedure concorsuali e in liquidazione volontaria, non devono essere in difficoltà e non devono aver ricevuto fondi e agevolazioni poi revocati per ordine del Ministero. La misura prevede un finanziamento a tasso zero da restituire entro otto anni che potrà arrivare fino al 70% dell’investimento totale, elevabile all’80% in particolari casi. Gli incentivi previsti dal programma Smart and Start, gestiti da
Invitalia, saranno operativi fino al 31 dicembre 2020. Le domande di agevolazione potranno essere presentate solo on line, utilizzando la procedura informatica messa a disposizione sul sito
internet www.smartstart.invitalia.it, con modalità a sportello.


Al 1° gennaio 2017, risultano finanziate 720 iniziative per un’agevolazione concessa pari a 211 milioni di euro.

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mercoledì 22 febbraio 2017

La rivincita degli antipatici

"Il Corriere della Sera" ci racconta che gli antipatici sono spesso impopolari tra i colleghi ma portano efficienza e meritocrazia.
Voi cosa ne pensate?

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martedì 21 febbraio 2017

Ricette per lavori soddisfacenti

(Fonte: "Internazionale")

E' abbastanza corretto dire che l’economia è vicina alla massima occupazione”, ha dichiarato di recente Janet Yellen, la presidente della Federal reserve, la banca centrale statunitense, in vista di un prossimo innalzamento dei tassi d’interesse. Ma la massima occupazione, come la pornografia, è negli occhi di chi guarda. 
Gli adulti statunitensi, che solo nel 69 per cento dei casi hanno un lavoro, sembrano lontani
dall’occupazione massima. In passato i governi parlavano di “piena” occupazione, oggi di “massima” occupazione: il concetto è lo stesso e ha bisogno di essere aggiornato.


Yellen ha in mente una definizione particolare di massima occupazione, costruita a partire dall’esperienza degli ultimi cinquant’anni. Negli anni sessanta e settanta molti pensavano che i tentativi del governo di stimolare la domanda potevano far abbassare il livello di disoccupazione solo fino a un certo punto. Al di sotto di quel “tasso naturale”, la disoccupazione sarebbe tornata a crescere nel giro di poco tempo e l’inflazione avrebbe registrato un’accelerazione. 


I tassi naturali del mondo ricco si sono spostati nel corso del tempo, passando da cifre inferiori al 5 per cento dopo la seconda guerra mondiale a livelli più alti negli anni settanta e ottanta, per poi tornare di recente verso percentuali più basse.
Gli economisti sostengono che il tasso naturale dipende dalla “disoccupazione frizionale”. Ogni mese milioni di lavoratori lasciano il loro impiego e milioni di altri lavoratori ne trovano un altro, e per una parte di loro c’è una pausa tra un lavoro e l’altro: questa è la disoccupazione frizionale. 


Alcuni fattori bloccano i posti di lavoro e aumentano la frizione. Il tasso di disoccupazione
frizionale più alto negli anni settanta e ottanta era in parte dovuto al fatto che i buoni posti di lavoro nelle fabbriche diminuivano mentre esplodeva l’impiego a bassi salari nel settore dei servizi. I lavoratori che avevano perso un buon impiego restavano più a lungo disoccupati nella speranza che prima o poi si sarebbe presentata un’opportunità migliore. Anche l’imposizione di ostacoli al cambiamento di lavoro, come le licenze o le abilitazioni per determinati lavori, può far aumentare il tasso naturale.
 

Altri fattori invece facilitano il processo.
Il tasso naturale più basso degli anni novanta potrebbe essere stato la conseguenza di processi di assunzione resi più efficienti dalla tecnologia informatica o dell’aumento dei posti di lavoro a tempo determinato che hanno assorbito alcuni lavoratori in una fase di transizione professionale.

Ma se l’obiettivo della piena occupazione è una società felice, i politici dovrebbero prestare attenzione alla qualità dei posti di lavoro, non solo alla quantità. Molte più persone sarebbero in attività se i governi eliminassero i sussidi alla disoccupazione e il salario minimo. Ma in questo modo la società se la passerebbe molto peggio.
I cambiamenti tecnologici complicano ulteriormente le cose. Una carenza di lavoratori potrebbe accelerare l’investimento nelle macchine e perfino la piena automazione. 


In un nuovo saggio Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, due economisti del Massachusetts institute of technology, sottolineano che le economie caratterizzate dall’invecchiamento della popolazione e da una forza lavoro sempre meno numerosa non sembrano crescere più lentamente di quelle giovani, a differenza da quello che sostengono molti economisti. In questi casi è cresciuta l’automazione. E tuttavia, se i robot possono compensare gli alti tassi di pensionamento, quanti giovani lavoratori
potrebbero essere a loro volta superflui?
Non è imminente un’era di disoccupazione di massa dovuta alla tecnologia. La deinizione di occupazione massima, però, dovrebbe prendere in considerazione qualcosa in più dell’andamento del tasso d’inflazione. I governi dovrebbero tenere in considerazione le opzioni a disposizione dei lavoratori: il punto non è solo con quanta facilità riescono a trovare il lavoro che desiderano, ma anche quanto serenamente possano rinunciare a un lavoro che invece non desiderano. Eliminando gli ostacoli al cambiamento di occupazione e offrendo ai lavoratori una rete di sicurezza sociale che
gli consenta di riiutare gli impieghi più scadenti,  le  società  possono  promuovere un’occupazione che sia non solo piena, ma anche soddisfacente.


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lunedì 20 febbraio 2017

Metalmeccanici: diritto alla formazione

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Il nuovo Ccnl dei metalmeccanici investe in maniera decisa sulla formazione continua, strumento essenziale per adeguare le competenze dei lavoratori ai rapidi cambiamenti imposti dalla
rivoluzione digitale. Questo investimento si traduce nel riconoscimento di un diritto individuale alla formazione: ciascuna azienda dovrà erogare a tutti i dipendenti a tempo indeterminato (con le
modalità individuate da Fondimpresa) un percorso formativo della durata di 24 ore procapite
nell’arco di un triennio.
Se l’impresa non eroga la formazione, il lavoratore, che entro la fine del secondo anno non è stato coinvolto in alcun percorso e non ha programmato il suo coinvolgimento per l’anno successivo, ha diritto a partecipare a iniziative formative esterne all’azienda (finalizzate ad acquisire competenze trasversali, linguistiche, tecniche e gestionali) della durata di 24 ore, con costi a carico del datore per i due terzi (entro un importo massimo di 300 euro). 


Il nuovo accordo collettivo riforma in maniera decisa anche la disciplina dei permessi per l’assistenza di familiari con problemi di disabilità grave, materia regolata dalla legge 104/1992.
Il nuovo accordo collettivo introduce un obbligo di programmazione delle assenze: il lavoratore che intende fruire dei permessi deve presentare un piano mensile, con un anticipo di 10 giorni rispetto al mese di fruizione. Così, ad esempio, per i permessi da fruire a marzo, il piano deve essere presentato entro il 18 febbraio.
La norma non chiarisce le conseguenze del mancato rispetto di questo termine. Sembra logico ipotizzare che, in caso di presentazione tardiva del piano, il lavoratore dovrà negoziare con l’azienda le modalità di fruizione dei permessi nel mese di riferimento.
Il termine di 10 giorni non deve essere rispettato da chi è in grado di dimostrare l’esistenza di ragioni di «necessità e urgenza» con qualsiasi mezzo idoneo a confermare la veridicità delle motivazioni addotte.
 

L’onere di programmazione viene introdotto anche per i congedi parentali, in caso di utilizzo su base oraria o giornaliera. In questo caso il dipendente deve presentare al datore di lavoro un piano di programmazione mensile, entro 7 giorni prima della fine del mese antecedente a quello di
fruizione (il termine è di 15 giorni prima dell’assenza, se l’utilizzo non è su base oraria o giornaliera).
Il lavoratore deve indicare il numero di giornate equivalenti alle ore richieste nel periodo e il
calendario dei giorni in cui sono collocati i permessi. Sono stabiliti termini ridotti a fronte di impedimenti oggettivi (in tal caso sono sufficienti 2 ore prima dall’inizio del turno e la documentazione attestante l’impedimento deve essere fornita entro i 2 giorni successivi).
La norma collettiva precisa, infine, che l’utilizzo dei congedi parentali su base oraria è frazionabile solo per gruppi di 2 o 4 ore giornaliere (1 o 2 ore per i part time pari o inferiori a 20 ore).

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venerdì 17 febbraio 2017

Fare team building nel 2017 (2)

(Fonte: "Business People")

Continuiamo il discorso che abbiamo iniziato ieri sul team building, cercando di capire perché le organizzazioni dovrebbero puntare su questo strumento, almeno secondo la rivista "Business People".
  1. Favorisce e sviluppa all'interno del gruppo un clima relazionale fondato sulla fiducia, la valorizzazione delle differenze e delle specificità e la reciprocità, in particolare nelle fasi di cambiamento, trasformazione e riorganzizazione;
  2. Sviluppa e potenzia un sistema di competenze personali e organizzative adatte a costruire gruppi di lavoro orientati al compito;
  3. Incrementa competenze di gruppo come problem solving e decision making, gestione dei conflitti e negoziazione;
  4. Promuove processi rapidi di integrazione e cooperazione nei gruppi di lavoro (gruppi di progetto, task force, ecc.);
  5. Favorisce processi di integrazione su valori e culture organizzative di lavoro coinvolti in processi di fusione e acquisizione;
  6. Aiuta a conoscere e riconoscersi nella mission e nei valori aziendali, soprattutto quelli etici e sociali

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giovedì 16 febbraio 2017

Fare team building nel 2017

(Fonte: "Business People")

(...)

Le esperienze di team building non sono una grande novità. La "costruzione del gruppo" fa riferimento a tecniche mirate a sviluppare la cooperazione e il lavoro di squadra. 
Per costruire un team efficace, i suoi membri devono condividere un obiettivo, avere fiducia e rispetto ed essere motivati a utilizzare i punti di forza di ogni singolo per raggiungere il traguardo prefissato.

Negli Stati Uniti e in Nord Europa è dagli anni '50 che vengono adottate queste tecniche e anche in Italia sono ormai diffuse e praticate. Molte aziende ne sfruttano le potenzialità quando si trovano di fronte a un gruppo costituito da poco o quando la squadra è in crisi, o ancora quando è sotto stress o semplicemente non rende come ci si attende.
Il team building ha quindi preso in prestito e rielaborato alcune attività ludiche, sportive, teatrali, musicali e così via, divenendo sempre più un contenitore flessibile e articolato.

Gli interventi più efficaci vengono effettuati con metodologie esperenziali. 

Il presupposto è che le situazioni di maggior impatto e, quindi, di miglior apprendimento sono quelle sperimentate con tutti e cinque i sensi.
E' tuttavia necessario distinguere tra esperienze formative e d'incentivazione. 
Prima di decidere quale attività svolgere è fondamentale definire con la'zienda gli obiettivi che si vogliono raggiungere. (...) Se si punta sulla formazione, quindi con la volontà di analizzare e modificare le dinamiche di interazione tra le persone o i gruppi, si sceglieranno modalità di team building adeguate con precisi momenti di debriefing, altrimenti, se si opta per esperienze di mera incentivazione, si privileggeranno attività ludiche. Nel caso di eventi formativi, l'obiettivo è la consapevolezza nei partecipanti di poter cambiare atteggiamento e modalità di relazione, nel secondo caso è l'esperienza in sé.

(...)

Molti dipendenti ritengono che le attività di team building siano una perdita di tempo. La maggioranza ha dichiarato che simili esperienze non offrano alcun aiuto nel migliorare le relazioni tra colleghi. Saltare con il bungee jumping, ma anche farsi afferrare dal compagno mentre si cade indietro, sono considerati metodi inefficaci. 
Invece di sprecare denaro in cose del genere , gli intervistati pensano che bisognerebbe concentrarsi su altre priorità come il miglioramento dell'ambiente di lavoro, la comunicazione interna e l'adozione di maggiore flessibilità. 

Voi cosa ne pensate? ce lo raccontate qui sul forum?

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mercoledì 15 febbraio 2017

L'industria 4.0 distrugge posti di lavoro?

(Fonte: "Italia Oggi")

La quarta rivoluzione industriale potrebbe anche far crescere, e non ridurre, i posti di lavoro: è vero, potrebbe». Serena Sileoni, vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni, cioè della roccaforte italiana del pensiero economico liberista, vuole stonare nel coro degli apprensivi, di tutti coloro che - nell’industria come nel mondo accademico - accreditano un’equazione da brivido: più robot, meno operai nell’industria 4.0. E commenta la soprendente dichiarazione di un industriale classico come
Franco Gussalli Beretta, che invece, in una recente intervista all’Agi, ha dichiarato: «Sono ottimista di natura e penso che la rivoluzione industriale detta Industry 4.0 non soppianterà il lavoro umano: indurrà i lavoratori a riqualificarsi su livelli professionali più alti, ma il saldo finale tra posti distrutti e posti creati potrebbe essere ancora una volta positivo. Da un lato ci sarà più automazione, dall’altro serviranno molti più tecnici digitali, programmatori, esperti d’informatica».
 

Domanda. Professoressa Sileoni, Beretta ha ragione?
Risposta. Beretta ha espresso un concetto giusto: non è detto che ci sia un saldo occupazionale negativo con l’Industry 4.0, nessuno lo può sapere, soprattutto perchè si parla d’innovazione, nel senso più ampio possibile. Nell’era del progresso digitale, si possono fare previsioni a breve termine, a un anno. Quelle a lungo termine no. 

Negli Anni Novanta - ricorda il film 2001, Odissea nello spazio? - eravamo convinti che il futuro sarebbe stato la colonizzazione dell’universo, ma sbagliavamo: il futuro è stato internet. Quindi dove andrà il futuro del lavoro non lo possiamo sapere, però sappiamo che il futuro non lo fermiamo».
 

D. Quindi, da brava economista liberista, lei dice: non disturbiamo il corso naturale del mercato?
R.Non sono un’economista: sono laureata in giurisprudenza. Ma credo che arginare il progresso con le trincee, i sacchi di farina ammassati alle finestre, le leggi, le norme non abbia senso. È un assurdo soltanto pensare che l’innovazione vada contrastata perché minaccia di bruciare posti di lavoro.
Io non arrivo a dire che non sarà così, affermo invece che, per ora, l’innovazione sta eliminando i lavori pesanti, faticosi e ripetitivi, e creando nuovi lavori intellettuali, come la programmazione e la gestione dei robot. Appaganti e meno faticosi. Regalando alla gente più tempo libero. Non so quanti posti di lavoro in meno siano stati determinati e quanti nuovi, so che però facciamo lavori migliori.
 

D. Già: ma se si dovessero bruciare molti posti, chi mai avrebbe il reddito necessario per acquistare i prodotti realizzati dai robot?
R.Allora forse si produrrà di meno. Il mercato ha i suoi sistemi di compensazione. Con l’automazione il produttore non ha più problemi di sovrapproduzione...


D. Comunque bisognerà riconvertire i posti perduti con più formazione professionale.
R.Sì, questo è un tema scottante, ma io so che l’offerta di formazione si modula in base alla domanda. Il problema semmai si pone quando la formazione è costretta a seguire linee guida di ministeri sistematicamente in ritardo rispetto alla realtà. E quando l’offerta formativa è in mano ai monopoli, è sempre inadeguata. Un’offerta formativa aperta invece si adegua alla domanda.
 

D. E il problema della riconversione dei lavoratori non più giovani, che pure Beretta segnalava?
R.È un problema effettivo ma in Italia mi preoccupa meno, da noi è ben più grave il problema della disoccupazione giovanile. Anche con l’ultima riforma del mercato del lavoro è più facile ricollocare lavoratori maturi, senior, che creare occupazione giovanile.


(...)

D. L’economista Jerry Kaplan ha scritto un saggio su «Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza articiale» in cui afferma che «il mercato del lavoro non si aggiusterà da solo e auspica che gli esseri umani tengano fermamente le mani sul timone del progresso». Che ne pensa?
R.Sono d’accordo se parliamo al plurale: tenere le mani sui timoni del progresso mi sta bene, significa che molti essere umani gestiscono molti filoni di progresso, Al singolare invece mi spaventa: voglio capire di chi sono le mani e qual è questo timone. Se c’è una sola mano su un solo timone, e magari sbaglia, il suo diventa un errore pericolosissimo per tutti. Il progresso dev’essere pluralista. Un errore è positivo quando c’è la possibilità di emendarsi, e ciò accade quando coesistono vari
timoni nell’indirizzare il processo, per questo il sistema dev’essere plurale.



(...)

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martedì 14 febbraio 2017

Occhio al vostro tipo di umorismo...potrebbe influire sulla carriera

Divertire capi e colleghi, mostrando il proprio aspetto simpatico e ironico, può aiutare a salire la scala gerarchica dell'azienda. A dirlo, uno studio pubblicato dal Journal of personality and social psychology, secondo cui fare battute al momento giusto è sinonimo di sicurezza, intelligenza e competenza. Ma attenzione: se non fanno ridere, si peggiora la propria condizione.

Ce ne parla "la Repubblica".

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lunedì 13 febbraio 2017

Introvabile un lavoratore su cinque

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Passano gli anni, cambiano i governi, ma l’Italia ancora non è riuscita a trovare un “link stabile” per collegare (e bene) richieste delle aziende e competenze dei candidati. Un «mismatch» tra domanda e offerta di lavoro che continua a interessare i profili tecnici e qualificati, e che invece di regredire, segna un nuovo balzo in avanti: nei primi tre mesi dell’anno, infatti, quasi un’assunzione programmata su cinque (il 19,9%, per l’esattezza) è considerata dagli stessi imprenditori «di difficile reperimento» (nel 2016 le figure “introvabili” si attestavano al 12% del totale degli ingressi previsti).

Ciò significa che ancora oggi si fa fatica a trovare ingegneri, architetti, specialisti in scienze economiche e gestionali d’impresa; ma anche periti, dirigenti, operai specializzati; e a tutti, oltre a una preparazione scolastica di qualità (che spesso “non emerge” durante le selezioni), viene richiesta, pure, un’esperienza lavorativa precedente (per due candidati su tre è considerata dai datori di lavoro «un requisito fondamentale» per l’inserimento in azienda).
 

A rilanciare l’urgenza di un dialogo, più stretto e proficuo, tra istruzione e mondo produttivo, sono gli ultimi dati pubblicati ieri da Unioncamere, tramite il servizio informativo Excelsior, realizzato in collaborazione con il ministero del Lavoro.
Ai primi posti, per difficile reperimento del candidato giusto, ci sono regioni come Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Liguria e Lazio (in pratica una buona fetta del Centro-Nord più industrializzato); ma, anche, in Puglia, Sicilia e Campania la percentuale di
“introvabili” supera la doppia cifra.
A essere penalizzate «sono soprattutto le piccole e medie imprese impegnate, in questa fase, a introdurre elementi di innovazione per superare la crisi e ripartire - spiega l’economista del Lavoro, Carlo Dell’Aringa -. Non c’è dubbio che l’alternanza obbligatoria potrà aiutare, ma bisogna che si faccia anche nelle università. E vanno rafforzati gli Its, che stanno funzionando piuttosto bene».
 

Del resto, gli imprenditori stanno cercando sempre più profili con un livello di formazione adeguato
(il 41% delle assunzioni previste nel primo trimestre 2017 è rivolo a diplomati, il 17% sono laureati, il 16% candidati in possesso di qualifiche professionali). «Ciò accade perchè, sotto la spinta di Industria 4.0, la manifattura sta cambiando velocemente e c’è necessità di collaboratori in linea con i mutamenti in atto - sottolinea il vice presidente di Confindustria per il Capitale umano, Giovanni Brugnoli -. Il tema è centrale. Se non vogliamo accrescere il numero di inoccupati è imprescindibile che scuola e università ascoltino aziende, categorie e territori, nel disegnare l’offerta didattica: con questi numeri non possiamo più permetterci una formazione slegata dalle reali necessità
del mondo produttivo»


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venerdì 10 febbraio 2017

Le professioni più gettonate nel 2017

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Anche nel 2017 saranno le professioni legate alla digitalizzazione  e  all’innovazione tecnologica le più richieste dal mercato del lavoro. In particolare il settore informatico già l’anno scorso ha avuto un incremento del 10% nell’offerta di opportunità di lavoro. Secondo l’agenzia di comunicazione Usa Good Call l’information technology dovrebbe continuare a crescere fino al 2024.
 

È comunque certo che, l’Italia, nel 2107 segnerà un ulteriore incremento di richieste di professionalità più o meno esperte. Più in generale, oltre all’It, secondo la multinazionale statunitense delle risorse umane Kelly  services, saranno otto quest’anno le professioni più
richieste nel nostro Paese.


— «Analista»: sa orientarsi tra milioni di informazioni dei sistemi aziendali individuando i dati utili per risolvere ogni problematica.  Deve  avere  un background nel settore ingegneristico e informatico.
—  «Business  intelligence manager»: supporta i processi di  decision  making  monitorando lo scenario competitivo e  raccogliendo  informazioni utili per capire il mercato, i consumatori e le opportunità future di business.
—  «It  Security  manager»: garantisce e protegge i dati su Internet, Intranet e reti, elabora e adopera tecniche di analisi dei rischi per prevedere le situazioni di pericolo.
— «Area supply manager»: interagisce con la produzione, la vendita e la distribuzione e riporta direttamente alla direzione aziendale.
—  «Area  sales  manager»: ha la responsabilità dei risultati economici della sua area, gestisce figure commerciali e definisce la strategia commerciale dell’area.
— «Field manager»: estende le vendite dell’area assegnata seguendo in prima persona gestione e sviluppo dei clienti.
— «Controller»: è il responsabile del controllo di gestione. È generalmente laureato in Economia.
—  «Consultant»:  inserito nelle  società  di  consulenza manageriale,  deve  avere  una
visione interfunzionale e interaziendale  delle  problematiche amministrative, finanziarie e di controllo, conoscere gli strumenti It e le metodologie di analisi del business.


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giovedì 9 febbraio 2017

Gli stipendi? Un italiano su dieci guadagna sotto il minimo

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Il 10% dei dipendenti in Italia  ha  uno  stipendio  più basso dei minimi contrattuali.
Più basso di quanto? Del 20% in media. Questo ha verificato sul campo Andrea  Garnero,
economista Ocse, con uno studio il cui titolo è già una valutazione dell’efficacia dei contratti nazionali: «Il cane che non abbaia non morde». Come dire: tanto parlare e difendere i contratti nazionali (anche contro l’idea di un minimo salariale fissato per legge) per poi scoprire che in realtà questi minimi non vengono garantiti a tutti.
 

I penalizzati sul fronte delle retribuzioni hanno nomi e cognomi. Si tratta dei dipendenti delle  piccole  imprese,  delle donne, dei lavoratori del Sud, dei dipendenti con contratti a termine di vario tipo. Va rilevato, poi, che non tutti i settori sono  uguali.  Quelli  con  la maggior  quota  di  lavoratori pagati  sotto  i  minimi  sono l’agricoltura (31,6% dei dipendenti) e le professioni legate a
cultura, arte e sport (30.9%) seguite da chi opera nell’alberghiero  e  nella  ristorazione (20,7%),  dall’immobiliare (15,5%). Quelle dove il divario è minore sono la pubblica amministrazione (4,15%), le telcomunicazione (7%), le costruzioni (7,4%) e i trasporti (7,9%).


Garnero  ha  utilizzato  tre fonti per il suo studio: rilevazione sulle forze di lavoro Istat dal 2008 al 2015, dichiarazioni dei datori di lavoro relative al 2010 e dati Inps sulle comunicazioni delle imprese per il pagamento dei contributi (2008 -2014). Lo studio calcola anche i salari reali definiti dai minimi  contrattuali  nelle  diverse Regioni (i valori nominali dei minimi parametrati ai prezzi nei vari territori). Si evidenzia così come il salario reale nelle regioni del Sud sia più elevato.
Dalla Campania in giù il minimo  contrattuale  garantisce circa 9,8 euro l’ora contro i 9 dall’Emilia Romagna in su. Garnero evidenzia poi come i  salari  minimi  definiti  dai contratti in Italia siano relativamente elevati (il 75-80% del valore mediano degli stipendi pagati dalle aziende). Inoltre
chi è pagato sotto il minimo di solito non ha alcun adeguamento quando viene firmato un nuovo contratto. 


«È urgente mettere mano alla contrattazione  collettiva»,  osserva Garnero. Che propone tre strade a costo zero: «Diminuire il numero dei contratti. Assicurare che siano firmati solo da organizzazioni  rappresentative. E renderli noti a tutti».

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mercoledì 8 febbraio 2017

Gli algoritmi provano a sostituire gli head hunters

(Fonte: "Affari & Finanza")

Non è tanto una questione di costi, quanto di qualità della ricerca e di oggettività della selezione. Da settimane sulle riviste internazionali e sui canali dei social network dedicati alle risorse umane è aperto il dibattito sulla capacità degli algoritmi di sostituire l’attività   tradizionalmente   svolta   dagli  head hunter. Perché se i software sono da tempo ampiamente utilizzati nella selezione di profili impiegatizi, la situazione è ben diversa nel campo dell’executive search, date la delicatezza delle
mansioni da svolgere e le potenziali ricadute sul business aziendali.



“Do   we   still   need   head   hunters?”,  cioè Abbiamo ancora bisogno di cacciatori di teste? Si chiede su LinkedIn Daren Yoong, oggi relationship manager del social network, con un lungo
passato come head hunter. Partendo da una ricerca dell’Università di Harvard sulla disruption nel mercato della ricerca e selezione, l’esperto fa alcune annotazioni: molte aziende del settore sono specializzate su particolari funzioni o settori e inoltre il cacciatore di teste è un mestiere fatto di relazioni e di scambi di favori che rinsaldano relazioni, un approccio che rischia di annacquare la qualità del risultato.
 

Riflessioni in parte condivise da Pasquale Natella, amministratore delegato di Exs, società di executive selection di Gi Group. «Un algoritmo costruito su basi scientifiche rende la  valutazione da
soggettiva (tratto caratteristico del lavoro dell’uomo) a oggettiva e consistente nel tempo, vale a dire con una capacità di apprendimento degli errori molto più rapida di quelli umani». In questo senso
si esprime anche una ricerca condotta dall’Università di Cambridge, che evidenzia   come   nella   valutazione   delle competenze soft anche un selezionatore esperto porti con sé una serie di potenziali trappole di valutazione, dettate dalle esperienze pregresse e delle convinzioni personali. L’algoritmo può aiutare a rende oggettiva la valutazione, ma per farlo è necessario anche che sia testato su un campione rappresentativo per la sua validazione. «Altrimenti - ricorda Natella - rischia solo di rendere le valutazioni omogenee». 

Se un algoritmo soddisfa questi criteri, migliora la qualità e velocizza le attività, quindi riduce il tempo impiegato dal professionista e riduce i costi a carico dell’azienda. Anche se il budget di spesa non può essere il principale metro di valutazione. Del resto, le società che hanno budget  contenuti, già da tempo puntano sul fai da te anche nella ricerca dei profili manageriali, confidando sull’ampia
disponibilità di informazioni presenti oggi  sul Web.  Ma  assumendosi  il  rischio di una scelta non accurata.Gabriele Ghini, managing director di Transearch,   diffida dell’uso estensivo dei software. «Se Zara può utilizzare processi standard e fortemente automatizzati, lo stesso non può funzionare quando si tratta di capi di haute couture. Lo stesso vale quando si confronta la selezione di middle management con l’executive search». Un parallelismo richiamato per rimarcare come nel secondo
ambito la professionalità ‘umana’ sia ancora in grado di fare la differenza. «Lavorando con soluzioni automatizzate si rischia di far emergere come ‘fenomeni’ persone brave solamente a valorizzarsi nello scrivere il proprio cv e non per le loro reali competenze. Abbiamo tutti sotto
gli occhi i danni causati da amministratori delegati non all’altezza. Affidare la selezione di questa tipologia di persone a un algoritmo rischia  di  provocare  conseguenze economicamente devastanti».
 

Francesca Contardi, managing director di EasyHunters, ha una posizione intermedia. Riconosce l’importanza del filone di business noto come hr tech (2,4 miliardi di investimenti nel 2016) e ritiene che l’automazione abbia vantaggi innegabili, a cominciare «dalla velocità e facilità di estrarre e razionalizzare i dati». Il riferimento è in particolare agli algoritmi che, attraverso la ricerca semantica, permettono di razionalizzare i database di curriculum ed estrarre le informazioni necessarie da ogni candidato in modo automatico, anche quando non compaiono le parole chiave classiche. Anche se ricorda che la capacità di interpretare i dati resta decisiva.
Anche Stefano Giorgetti, amministratore delegato di Kelly Services Italia, vede nei software uno strumento di supporto al lavoro degli head hunter, ma vede limiti evidenti nella misura in cui non possono sostituire la sensibilità  del professionista, «che conserva un valore insopprimibile nella selezione dei manager».
 

Piuttosto scettico si mostra Pierpaolo Dalzocchio, partner di Mid Up, che riconosce alla tecnologia un ruolo di supporto  al  lavoro  dell’head  hunting, ma sottolinea come per la ricerca di professionalità elevate sia fondamentale   «la  ricerca  diretta in  aziende target, spesso definite e concordate con il committente, e su persone talvolta ignote all’informatica e non necessariamente alla ricerca di un nuovo lavoro».
 

In definitiva si va profilando uno scenario in cui tendono a calare gli spazi di mercato per chi si occupa di executive search e anche i guadagni medi, ma con la professione che continuerà in ogni caso a esistere. A fare la differenza sarà la capacità di assicurare al tempo stesso la padronanza dei
nuovi strumenti offerti dalla tecnologia e l’abilità nel confidential search, quel delicato lavoro di individuare e contattare persone della concorrenza che richiede esperienza, sensibilità e un’ampia rete di contatti.


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martedì 7 febbraio 2017

LinkedIn: mai più solo curriculum

(Fonte: "Affari & Finanza")

Linkedin cambia look. Il social network per i professionisti, lanciato nel 2003 e acquistato l’anno scorso da Microsoft per 26 miliardi di dollari, rivoluziona l’interfaccia grafica aggiungendo
anche nuove funzioni, dalle news feed alla ricerca, fino all’introduzione  dei  chatbot,   i  programmi
che simulano una conversazione tra robot  ed esseri umani. 


«È la più  importante  riprogettazione della nostra architettura dal lancio della piattaforma. L’obiettivo è offrire maggiore valore ai nostri iscritti e garantire l’accesso migliore ai contenuti e alle opportunità offerte sia via app mobile, sia da computer»,  spiega   Chris Pruett, responsabile del team che ha ridisegnato LinkedIn.
 


Ma quali sono le novità sostanziali  della  rete  professionale  più diffusa al mondo con oltre 400 milioni di iscritti? 
Guardando la nuova home page, la prima cosa che salta  all’occhio  è la  somiglianza con Facebook, non solo per quanto riguarda l’organizzazione  dei  contenuti.   Rispetto alla  vecchia versione di  Linkedin,  i cambiamenti sono tanti, e vanno tutti nella direzione del social network a
tuttotondo. Intanto la navigazione è più semplice: la barra è divisa in sette aree principali – home, messaggi, lavoro, comunicazioni e profilo personale – e con un click sull’icona “più” si possono provare altre   esperienze come  Linkedin  Learning, che offre agli iscritti 9mila corsi su business, tecnologia e competenze creative. 

La sezione messaggistica consente l’apertura a nuove opportunità di lavoro e scambi professionali, con l’utente che può inviare un messaggio ovunque si trovi nel social, senza dover abbandonare   i   contenuti  principali. 

Il nuovo Linkedin prevede una serie di consigli utili per aiutare “a rompere il ghiaccio in
qualsiasi conversazione”, si legge ancora nel sito. Un esempio? Se l’utente è interessato a una nuova
proposta di lavoro, la piattaforma gli suggerisce come contattare  chi, all’interno del network, lavora presso la società offerente. Non solo,  grazie  ai chatbot, l’iscritto  può chattare con un interlocutore
virtuale dotato di intelligenza artificiale, pronto a rispondere a vari tipi di esigenze.
 

Tra   le   novità   ci   sono   anche  feed più ricchi per tenere informati gli utenti: grazie all’incontro di algoritmi e redattori umani, che lavorano insieme, Linkedin ha  creato feed personali in grado di
mostrare i contenuti più rilevanti provenienti da persone ed editori con cui l’utente è connesso, in modo da portarlo a “seguire le storie di tendenza”.
 

Non cambia la vocazione principale della piattaforma, la ricerca del lavoro e delle professioni, che nella nuova versione si fa più dettagliata  e  intuitiva, dando  la  possibilità all’iscritto non solo di
scoprire l’identità degli utenti che hanno letto il suo profilo, ma anche di interagire con loro condividendo i contenuti, come le informazioni sulle società per cui lavorano, i titoli professionali, le posizioni occupate.
 

Non è finita. Linkedin ha migliorato i suggerimenti che riguardano il profilo personale dell’iscritto,
in modo che lo stesso possa riassumere al meglio carriera e abilità professionali, rendendoli più visibili all’interno del network.
Da questo punto di vista, ogni anno la società fornisce un valido aiuto ai professionisti, diffondendo la top ten delle buzzword, le parole  più  utilizzate  nei  profili e  quindi «assolutamente da evitare,
perché altrimenti gli utenti non si distinguono dalla massa, condizione necessaria al fine di rendere
appetibile il proprio profilo ai recruiter», come spiega Marcello Albergoni, capo per l’Italia del network. Tra le parole più inflazionate in Italia troviamo specializzato, leadership, strategico, concentrato ed esperto, seguiti da appassionato,  responsabile,   innovativo,  con esperienza e master. «Storicamente - dice Albergoni - questo è il  momento   dell’anno   in   cui  la  maggior parte delle persone aggiorna il proprio profilo: apportare qualche cambiamento può offrire l’opportunità di raggiungere risultati eccezionali»


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lunedì 6 febbraio 2017

Il lavoro piace agile (2)

(Fonte: "Italia Oggi")

Lavorando da casa il rischio è di non staccare mai la spina

Mentre il governo italiano si appresta a varare la legge che incentivi lo smart working, nei paesi anglosassoni (che di questa forma di lavoro ne hanno fatto un «must» da anni) cominciano a manifestare qualche preoccupazione sul rischio salute degli smart worker. Secondo lo studio condotto da Gail Kinman, psicologa della salute sul lavoro presso l’Università di Bedfordshire e Psychological Association britannica, lavorare in modalità agile renderebbe difficile per i
lavoratori «staccare la spina», finendo per incoraggiare i dipendenti a rimanere sempre connessi e attivi. 


Lavorare al di fuori dell’ufficio può comportare isolamento dei dipendenti e limitarne le opportunità
di carriera. Ovvio poi che tutto dipende anche dal tipo di lavoro che si svolge. Tra i rischi si evidenziano inoltre la preoccupazione di non riuscire a separare in maniera netta lavoro e vita familiare e questo può risultare particolarmente stressante per alcune persone.
Considerazioni che pesano ancor di più se correlate ai risultati di un rapporto Ofcom del 2015 secondo il quale, in media, gli adulti trascorrono ogni giorno più tempo usando la tecnologia che a
dormire. Immaginiamo cosa accadrebbe se gli adulti in questione dovessero essere smart worker, che necessitano più degli altri delle nuove tecnologie. 


Le perplessità della Kinman trovano riscontro anche nel recente sondaggio condotto da Houzz, la piattaforma online dell’arredamento, progettazione e ristrutturazione d’interni e di esterni, nell’ambito della propria community. Il «lavoro agile» aumenterebbe sì l’efficienza, riducendo i tempi morti. Il 56% degli intervistati ha optato (o opterebbe, se potesse) per l’home working, una delle possibili declinazioni del «lavoro agile». Lavorare da casa propria tuttavia
significherebbe non porre più confini tra lavoro e vita privata. Ed è forse anche per questo che il 44%, invece, continua a preferire l’ufficio, che consente di stare in mezzo alla gente e confrontarsi
facilmente con i colleghi, stimolando la competitività.


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venerdì 3 febbraio 2017

Il lavoro piace agile

(Fonte: "Italia Oggi")

Il mondo del lavoro sta cambiando. Non è un luogo comune, ma uno stato di fatto. Che accomuna 250 mila lavoratori cosiddetti «agili», ovvero circa il 7% di tutti gli impiegati, quadri e dirigenti secondo i dati delll’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano. 

Lavoratori che stanno abbandonando l’ufficio in favore di luoghi più informali e decentrati, dai bar ai parchi, dalle sale condivise al salotto di casa propria. Chiamati a rispettare obiettivi e scadenze,
restando comunque in contatto con i propri colleghi e i propri capi attraverso i più disparati dispositivi tecnologici messi a loro disposizione. 


Nel principio della flessibilità che incalza. In un’ottica cosiddetta smart. 
Parliamo di smart working, appunto. In soli tre anni il numero di coloro che praticano lo smart working è cresciuto del 40%. Un fenomeno che va legiferato e presto, dicono gli esperti.
 

(...)
 

Ad oggi la contrattazione sul tema offre un ventaglio già abbastanza ampio, soprattutto sul piano aziendale. Tuttavia dall’analisi pubblicata nel 2016 dei 915 i contratti contenuti in Banca dati Adapt e 20 Ccnl, ciò che resta limitata, secondo i ricercatori di Adapt, è la dimensione quantitativa degli accordi.
Sono solo otto i casi di intese aziendali. Un dato che potrebbe essere interpretato, da un lato, come una spia del limitato interesse delle parti a presidiare la materia.
Ma potrebbe essere sintomatico di una mancanza di certezza del quadro normativo di riferimento che scoraggia i negoziatori d’azienda ad avventurarsi nella regolazione di un modello organizzativo dirompente rispetto ai canoni tradizionali di svolgimento, misurazione e valorizzazione economica della prestazione lavorativa. 


Gli accordi specificano il campo di applicazione della sperimentazione o del programma di lavoro
agile, delineandone le caratteristiche e individuando i lavoratori che ne possono beneficiare. L’individuazione dei soggetti coinvolti è operata attraverso diversi parametri che vanno dalle esigenze connesse al tipo di prestazione svolta dal lavoratore alle strumentazioni necessarie per
l’adempimento. 

Prendiamo ad esempio l’Accordo Snam. L’adesione alla modalità smart working è correlata alla disponibilità di una linea di connessione dati veloce presso il luogo in cui si intende svolgere l’attività. Alle condizioni tecniche si affiancano condizioni di tipo organizzativo rispetto al ruolo svolto in azienda.
Nella stessa logica possono leggersi quegli accordi che prevedono limitazioni a particolari categorie di lavoratori: alcuni riservano il lavoro agile soltanto ai quadri direttivi (Banca Etica); altri, viceversa, accettando impiegati, quadri, dirigenti, aprono l’accesso sostanzialmente a tutta la
compagine lavorativa (vedi il caso Bnp).
 

Incidono scelte di politica gestionale o di sostenibilità del lavoro, in sostanza.
Pensiamo alla possibilità di inserire dei parametri che permettano di privilegiare nell’accesso soggetti che presentano determinate condizioni di salute o gestione dei tempi.
Barilla, ad esempio, che si è posto l’obiettivo entro il 2020 di offrire lo smart working al 100% degli impiegati d’ufficio, prevede modalità di svolgimento più favorevoli (tempi maggiori) per soggetti interessati da invalidità, impegni di cura propri o di terzi, o con figli in tenera età. Al di là dell’orario di lavoro, le forme retributive sono da stabilire in funzione dei risultati, a prescindere dalla minore o maggiore presenza fisica in un determinato luogo. 


Produrre, in sintesi, è ciò che si chiede allo «smart worker».

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giovedì 2 febbraio 2017

Bocciato chi arriva in ritardo al colloquio

(Fonte: "Italia Oggi")

Bocciatura senza appello per chi arriva in ritardo a un colloquio di lavoro. È questa infatti una delle
principali cause che frenano l’assunzione di un candidato.
Secondo Hays Response, la divisione di Hays Professional Services dedicata ai profili più junior, alcuni partono proprio con il piede sbagliato e vengono scartati per banalità e mancanza di attenzione: per esempio, arrivando in ritardo all’appuntamento, presentandosi senza essersi minimamente preparati sull’azienda o con un look non consono al tipo di ruolo per cui si stanno candidando. 


Altri, quando si trovano vis-à-vis con il recruiter, sbagliano completamente atteggiamento dimostrandosi o troppo remissivi o troppo arroganti.
Attenzione infine all’incoerenza: a un cv impeccabile deve corrispondere un candidato preparato e con una forte expertise.


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mercoledì 1 febbraio 2017

Intelligenza artificiale e produttività

Robot che pensano (e agiscono) come gli umani. Se l’intelligenza artificiale porterà gli umanoidi a delineare strategie industriali indossando la giacca e cravatta, porterà anche a un aumento della produttività del 40%.

Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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