martedì 31 ottobre 2017

Una rivoluzione per i manager delle risorse umane

(Fonte: "Affari&Finanza")

Nel 2020 il manager delle Risorse  umane (human resourcese, Hr) non avrà più un ruolo “amministrativo”, ma diventerà  il  leader  del  cambiamento  in  azienda.  Conoscerà bene il mondo digitale e meno quello legale. Preferirà la gestione della diversità, alle relazioni industriali. Ad anticipare il futuro  dei  dirigenti  delle  risorse umane è un’indagine di Aidp e dell’Università Cattolica di Milano: «L’Hr manager si troverà ad affrontare  uno  scenario  molto complesso e sarà sempre più un generatore di intelligenza interna  all’azienda, diventerà un crocevia  di  informazioni,  colui  che promuove lo sviluppo del sapere dell’azienda e affianca i singoli manager nella loro crescita».
La  prospettiva è  stimolante, gli obiettivi sono ambiziosi, ma la strada è ancora lunga. Sempre secondo l’indagine, il ruolo attuale dell’Hr manager continua ad essere più operativo che
strategico, mentre gli stessi direttori del personale chiedono un maggiore coinvolgimento nelle
attività aziendali.
In realtà anche qui l’Italia si divide in due: ci sono le Pmi, ancora legate al ruolo tradizionale
dell’Hr manager, e le multinazionali dove il futuro è già una realtà.  Pino  Mercuri,  direttore
delle Risorse Umane di Microsoft  Italia,  racconta,  ad  esempio, uno scenario Hr modificato
profondamente  dal  maggiore impatto  della  tecnologia:  «Il 50% del tempo di un uomo di
azienda  si  spende  davanti  a smartphone, tablet o strumenti come  le  videoconferenze.
L’85% delle ‘top 500’ aziende statunitensi usano strumenti di social networking per la comunicazione, il co-design e la co-creazione e per la ricerca dei talenti.
Oggi abbiamo a disposizione sistemi che permettono di analizzare una mole infinita di informazioni  dando  intelligenza  ai dati. Molte aziende sfruttano efficacemente la ricchezza offerta dalla tecnologia per fare corsi in mobilità, per gestire online il piano delle ferie e le note spese. Tutto questo modifica radicalmente il lavoro dell’Hr manager».
Stiamo parlando di una figura che aiuta l’azienda a vivere nel mondo digitale. E’ un abilitatore del cambiamento. Attiva le funzioni di digital recruiting per una parte del personale,  crea  delle  learning community, utilizza software simili  all’intelligenza  artificiale per la selezione iniziale ma anche  per  i  processi  di  carriera all’interno delle aziende. Insomma, è un interlocutore privilegiato che interpreta le nuove aspettative e trova le soluzioni.
Ad esempio, si utilizzano già strumenti di intelligenza artificiale in fase di selezione. I candidati neolaureati registrano  delle video interviste, un algoritmo le classifica e valuta le risposte e
questo è un esempio di integrazione tra uomo e macchina per ottenere risultati migliori. 


L’Hr manager deve pensare anche ai nuovi modelli di lavoro, come lo smart working. Smart working
significa pensare e organizzare gli spazi sulla base delle attività da svolgere. Ovvero, non esiste
più la postazione della persona singola, ma uno spazio dove si lavora insieme, un altro dove potersi isolare per fare una telefonata,  e  un’area  che  ricorda  il concetto della casa, per rilassarsi, condividere idee, e agevolare la creatività. Molte multinazionali lo hanno già implementato,
anche se per ora ha una veste solo sperimentale. Ma siamo ancora all’inizio: l’utilizzo di strumenti tecnologici e lo smart working  sono  solo  alcuni  degli esempi di come si può anticipare il cambiamento in azienda. Per  farlo  abbiamo  bisogno  di HR manager illuminati e innovatori.


E i vostri responsabili del personale come sono? Pronti per questo cambiamento?

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lunedì 30 ottobre 2017

Come dovranno cambiare le aziende

(Fonte: "L'Impresa")

Qual è, com’è fatta “l’azienda dei sogni”? È quella che paga di più, quella che offre più
strumenti di welfare, o ancora quella che favorisce un clima collaborativo? Forse tutte queste cose
insieme, verrebbe da dire. Ciò che è certo è che se si interrogano sul tema i referenti Hr, si scopre che hanno le idee chiare su quali siano le caratteristiche per definire l’azienda migliore, quali i valori alla base di tale scelta e le azioni necessarie per superare il gap tra la realtà e l’azienda dei sogni.
 

(...)

Un’indagine su un campione di 241 referenti Hr (tra cui 90 quadri e dirigenti) ha cercato di capire quali fossero gli elementi che contraddistinguono l’azienda dei sogni.
Ne è emerso un quadro composito e interessante, a partire da un dato: per il 70% dei quadri e dirigenti intervistati (e per il 74% del totale dei referenti Hr), quella in cui lavorano non è affatto l’azienda dei sogni.


(...)

Priorità: sviluppare il talento
Tra le caratteristiche fondamentali dell’azienda dei sogni, al primo posto c’è la possibilità di esprimere il proprio talento.
Ha risposto così il 35% dei dirigenti, il 27% nel caso del referenti Hr. Il messaggio è chiaro e
cioè che tra le prime necessità oggi c’è quella di poter sviluppare il proprio talento e vedersi valorizzati per quello che si è, un aspetto che è arrivato a contare più delle prospettive di carriera. E infatti se combiniamo questa prima risposta con quella classificata al quarto posto (“possibilità di crescita e di carriera”, 10% degli intervistati) si delinea un cambio di passo netto rispetto al passato.
E, infatti, se si guarda la risposta alla domanda “Qual è il punto debole della sua azienda?”, al primo posto ci sono proprio le carriere bloccate e il poco spazio alla crescita personale (27% per quadri e dirigenti e 31% per referenti Hr). 


Il quando che emerge è chiaro: c’è una comune sensazione di blocco, di impossibilità di essere professionalmente se stessi, i manager insomma si vedono tarpare le ali. E le vedono tarpare anche ad altre figure dentro l’impresa, tant’è che anche i referenti Hr confermano il problema.
Per costruire un’azienda dei sogni, in poche parole, più che mettere acceleratori basterebbe togliere freni. Di questo dato, tuttavia, esistono letture differenti. 


Troppo controllo, poco sviluppo
 

(...)

Quando un manager viene chiamato da un’azienda, si definiscono ruolo e contratto ma, poi, nella quotidianità le cose vanno diversamente: il dirigente si scontra con l’azione invasiva dell’imprenditore e della famiglia proprietaria, ritrovandosi con uno spazio di manovra molto limitato sulla direzione generale, sugli obiettivi e le scelte strategiche. Questa è la prima vera
fonte di insoddisfazione.
D’altronde non è un mistero che in ampi strati del tessuto imprenditoriale italiano la sensibilità sul tema dell’espressione del talento sia ancora scarsa.
 

A volte l’attenzione degli Hr è rivolta alla conoscenza delle persone nel contesto imprenditoriale in cui si trova l’impresa, proprio per fattori relazionali o di amicizia, e solo raramente ai fattori di crescita e alle competenze in modo che si determini un preciso piano di sviluppo.
 

Perché investire in un clima positivo
Nell’azienda dei sogni non poteva mancare un clima aperto e collaborativo, caratteristica individuata dal 20% di quadri e dirigenti e chi si è piazzata al secondo posto delle risposte più accreditate. È noto che valorizzare la positività in termini di qualità della vita interna, e quindi di
clima, in azienda, è un fondamentale parametro di una cultura molto radicata in Europa, ma che in Italia fa fatica ad affermarsi.
 

In Italia c’è un ritardo su questo importante tema: per motivare i dipendenti, oltre a valorizzare la carriera i vertici valorizzano l’appartenere a una grande azienda, meritocratica e capace di dare
tranquillità. È su questo che si orienta il mercato. Avere un clima positivo in azienda costa molto, e si tratta di investimenti con cui il ritorno non è assicurato, né scontato sul breve periodo. In questo
aspetto, se si analizza cosa vogliono fare le imprese per essere l’azienda dei sogni, è da notare che i referenti Hr tendono a essere magnanimi nella valutazione. Ritengono infatti di promuovere un clima
di positività tra i dipendenti, prevalentemente attraverso tre azioni: “favorisco la valorizzazione delle competenze e dell’impegno dei collaboratori” (44%), “condivido best practice per stimolare
crescita e miglioramento nei collaboratori” (28%), “organizzo momenti di condivisione e ascolto (es. incontri, workshop, coaching…)” (20%).
Dichiarazioni che si scontrano con il malcontento di quadri e dirigenti rispetto alla possibilità di sviluppare il proprio talento. 


Smart working poco conosciuto
L’azienda dei sogni, rivela il sondaggio è anche quella che favorisce la flessibilità di orari e luoghi di lavoro (12%). E quindi lo smart working, prima di tutto, che per il 62% degli intervistati
manca nella propria impresa. Ed è curioso notare come alla domanda “i tuoi dipendenti apprezzerebbero il regime di smart working?”, il 27% risponde “non so”. È il segno di una scarsa conoscenza dell’argomento, ma anche di un certo livello di sfiducia da parte di molte società.
Eppure sono tanti, tra i dipendenti, a pensare che lo smart working possa favorire la qualità della vita senza compromettere quantità e qualità del lavoro.
 

Il problema è che tutti parlano dello smart working ma in pochi sanno davvero come funziona
e sono attrezzati per farlo. Non è adatto a tutti i ruoli, come ad esempio il front office, e non è nemmeno un semplice lavoro da casa, come a volte si crede. Ha delle sue logiche e ha bisogno di regole, tali da dare garanzie sia alle imprese, preoccupate per la mancanza di controllo diretto del
lavoratore; sia ai sindacati, che temono un boom di straordinari non pagati.
 

Il welfare piace a tutti
E non sarebbe un’azienda dei sogni, se non ci fosse il welfare aziendale, che per il 60% dei quadri e dei dirigenti porta vantaggi concreti in termini di fidelizzazione. Secondo loro, le azioni più apprezzate dai collaboratori sono sicuramente i benefit per la famiglia (43%), seguiti dai
benefit medici (27%), benefit ricreativi come viaggi e biglietti degli spettacoli (22%). Risultati assai simili alle azioni che gli stessi quadri e dirigenti indicano come utili per loro stessi: benefit per
famiglia (46%), benefit medici (30%) e benefit ricreativi (20%).
 

La vera sfida è culturale
Tutti ingredienti che però non bastano, secondo la maggior parte degli intervistati, a far decollare un’azienda se manca quel motore che è la possibilità di esprimere il proprio talento, di dare
all’azienda il massimo secondo ciò che si è e nel modo in cui lo si fa. L’azienda dei sogni deve avere «gli obiettivi chiaramente definiti e stigmatizzati da subito che non siano solo numerici, ma legati anche alla crescita personale e professionale, ed è questo il vero obiettivo del manager nella
creazione dell’azienda dei sogni. La sfida è fare in modo che soci, imprenditori e manager comincino a pensare in termini di creazione del valore aziendale, e quindi non sul breve periodo ma sul medio e
lungo periodo.


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venerdì 27 ottobre 2017

Licenziato chi copia i dati aziendali

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Legittimo il licenziamento del dipendente che copia su una pen drive personale, senza autorizzazione del datore di lavoro, alcuni dati aziendali riservati, anche se queste informazioni non vengono divulgate a terzi.
La violazione dei doveri contrattuali, infatti, si verifica anche quando una certa condotta, pur
non producendo un danno concreto, ha una intrinseca potenzialità lesiva degli interessi del datore
di lavoro.
La Corte di cassazione (sentenza 25147/2017), con un ineccepibile rigore interpretativo, ricostruisce alcuni principi importanti in tema di sicurezza dei dati aziendali, una questione sempre più rilevante per le imprese nell’attuale contesto tecnologico, dove è molto facile sottrarre e spostare grandi quantità di informazioni riservate.
La vicenda riguarda il licenziamento di un dipendente che ha trasferito su una pen drive di sua
proprietà (poi smarrita e ritrovata casualmente nei locali aziendali) un numero rilevantissimo di
dati appartenenti all’azienda. Il dipendente ha contestato la legittimità del licenziamento, sostenendo di essersi limitato a copiare i dati, senza diffonderli in alcun modo; il lavoratore, inoltre, ha
evidenziato che i file in questione non erano protetti da password e non erano coperti da specifici
vincoli di riservatezza.
La Suprema corte ha rigettato queste argomentazioni, ritenendo che la condotta del dipendente
sia riconducibile all’ipotesi – sanzionato dall’articolo 52 del Ccnl del settore aziende chimiche con
il licenziamento – della grave infrazione alla disciplina o alla diligenza del lavoro. Il Ccnl riconduce a tale fattispecie alcune condotte quali il furto, il danneggiamento volontario del materiale di impresa e il trafugamento di schede, disegni, utensili e materiali affini.
In coerenza con questa impostazione, la Corte ha escluso che la semplice copiatura dei file aziendali sia collocabile nell’ipotesi meno grave dell’utilizzo improprio degli strumenti di lavoro
aziendali (per la quale il Ccnl prevede solo sanzioni conservative).
Ciò in quanto la condotta del dipendente è comunque connotata dalla finalità di sottrarre informazioni a prescindere dall’effettiva divulgazione dei dati, mentre la fattispecie dell’uso improprio si può applicare a condotte nelle  quali manca tale finalità.
La sentenza chiarisce anche che è irrilevante, ai fini della valutazione disciplinare, la circostanza che i dati sottratti siano protetti oppure no da specifiche password; il fatto che l’accesso ai dati
sia libero, precisa la Corte, non autorizza un dipendente ad appropriarsene per finalità proprie, né
consente di farli uscire dalla sfera di controllo del datore di lavoro


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giovedì 26 ottobre 2017

Chilogrammo "cambia peso"

(Fonte: "Il Fatto Quotidiano")


Il chilogrammo ‘cambia peso’. E non sarà una passeggiata. Ce ne parla "Il Fatto Quotidiano".

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mercoledì 25 ottobre 2017

Il colloquio? A intervistarvi potrebbe essere un robot

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Volete il posto? Preparatevi a scrivere un curriculum a prova di algoritmo, a registrare un video per l’Hr, a chattare con un robot. Prima di arrivare al colloquio «tradizionale», la selezione passa sempre più da tecnologia e intelligenza artificiale.
La videopresentazione sta prendendo piede. In molti Paesi è utilizzata in modo sistematico. Ma anche in Italia c’è interesse (...). 


Il meccanismo è semplice: il datore di lavoro invita il candidato a rispondere a qualche domanda e il candidato deve svolgere il «compito» in pochi minuti, ma ha la possibilità di scegliere il momento più opportuno per farlo. Serve per le valutazioni delle soft skill (...)

Il videocolloquio sta diventando un fenomeno a 360 gradi, che riguarda datori di lavoro di tutti i settori (a cominciare da grande distribuzione e retail dove il volume di candidature da vagliare è enorme) e candidati con età e profili diversi. Ma nel cuore delle aziende alla ricerca di talenti (e di
un modo più veloce, meno costoso e possibilmente più efficiente per individuarli) stanno entrando anche altre tecnologie. Se state scrivendo il cv, attenzione alle parole chiave: i tool che combinano automaticamente domanda e offerta per una rapida «prima scrematura» sono già una realtà e,
anzi, si stanno sempre più affinando. E se qualcuno vi scrive chiedendo com’è il vostro livello d’inglese o cose simili, mettete in contoche si possa trattare di un Hr virtuale: esistono sistemi di chat a risposta (e domanda) automatica per cominciare a valutare i candidati. E girano anche in Italia dove, ad esempio, c’è un’agenzia per il lavoro molto grossa che sta utilizzando il chatbot (...) 


L’ultima frontiera è la lettura automatizzata di linguaggio del corpo ed espressioni facciali che sta iniziando ad essere sperimentata, insieme a giochi online e video, per selezionare neolaureati. E pare
funzioni.


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martedì 24 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata (7)

Aumentare la motivazione

Nei classici team fissi, i membri sono motivati da un forte senso di coesione e di identità di gruppo. In un contesto multiteaming, però, i leader devono incentivare soprattutto un rapporto di scambio. 

La capacità di entusiasmarsi per un progetto viene naturalmente meno quando i membri di un team gli dedicano solo una piccola parte del loro tempo. Il ragioniere che è in loro si chiede: "Se da questa cosa ottengo solo il 10% del merito, quanto tempo ed energie gli devo dedicare?" Fate vedere loro quanto vale realmente il 10%, così imposteranno lo sforzo sulla base di quelle ricompense. Per esempio, se avete un millenial ansioso di sviluppare competenze trasferibili, potreste occasionalmente prevedere, durante le riunioni, degli spazi in cui i membri del team condividono e imparano qualcosa di nuovo, o tenere un seminario di formazione incrociata a fine progetto.

Ricordate anche che molti comportamenti sono ispirati da un senso di giustizia. Se uno pensa di fare la sua parte mentre altri battono la fiacca, ben presto perderà la motivazione. Quando i membri di un team vengono tirati in tante direzioni diverse, spesso è difficile riconoscere e apprezzare l'impegno profuso dagli altri. Come leader, dovete riconoscere pubblicamente i contributi dei vari membri in modo che siano visibili a tutta la squadra, creando una maggiore consapevolezza degli sforzi collettivi.

Potreste trovare stressante il fatto di dover condividere talenti preziosi con altri gruppi. Prima di raggiungere il punto di rottura, adottate queste misure per chiarire e gestire la vostra interdipendenza con altri gruppi. Vi aiuteranno a evitare i conflitti quando è possibile e a disinnescarli quando non lo è, e rappresenteranno un modello per migliorare la collaborazione con gli altri team leader, che affrontano le vostre stesse difficoltà.

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lunedì 23 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata (6)

Creare un contesto che favorisca l'apprendimento

L'apprendimento dà più senso al lavoro e dovrebbe essere uno dei maggiori vantaggi del multiteaming; spesso, però, i tempi ristretti non consentono di approfondire questo aspetto. 
Ma ci sono altri ostacoli: anche se vi siete impegnati per costruire fiducia e legami personali, chi fa parte di vari team ha più difficoltà a fornire riscontri adeguati rispetto a chi partecipa a uno solo, perché dividendo il tempo fra diversi progetti di solito ha meno occasioni di osservare regolarmente l'operato e i propri compagni di squadra o di essere presente al momento giusto per fare qualche osservazione. A volte i membri che vedono solo una piccola fetta del progetto non hanno il contesto per fornire il tipo di riscontro adeguato. Inoltre tendono a concentrarsi su compiti a breve termine e a comunicare fra loro solo quando è espressamente richiesto. 
Per cambiare registro, provate a elaborare un sistema per scambiarsi richieste d'aiuto e consigli in maniera costruttiva. Cercate di craere un contesto in cui le persone condividano le loro preoccupazioni e ricevano aiuto ogni volta che ne hanno bisogno. Potete anche assegnare parti del progetto a più membri del team, con diverse funzioni o incarichi, per poter sfruttare meglio il contatto incrociato; con un incarico formale saranno più inclini a imparare gli uni dagli altri. Allo stesso modo, potete affiancare un membro con una grande esperienza a qualcuno meno navigato e aiutarli a capire cosa possono guadagnare dallo scambio: l'apprendimento non è un flusso unidirezionale che va dall'alto verso il basso, a beneficio esclusivo dei meno esperti. Stimolate la curiosità con domande del tipo: "Cosa succederebbe se...?", nei casi in cui è probabile che il diverso background dei membri di un team possa offrire nuovi spunti. Se viene posta una domanda a cui sapete che un altro membro, dall'alto della sua esperienza, potrebbe rispondere in modo più esaustivo, indirizzate il richiedente verso l'esperto e spronate quest'ultimo a fare un po' di tutoraggio.

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venerdì 20 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata (5)

Gestire il tempo fra più team

Quando formate un team, parlate esplicitamente, e in anticipo, delle priorità contrastanti di ciascuno. Individuando prima le fasi di ogni progetto in cui c'è bisogno di dare il massimo, potrete modificare le scadenze o partecipare più attivamente in prima persona a determinati passaggi. Se aprite le porte alla discussione in modo che le persone non si sentano in colpa per eventuali conflitti, la squadra gestirà questi problemi in modo aperto e produttivo nel momento in cui si presenteranno.

Impostare il ritmo giusto delle riunioni renderà più facile gestire il tempo fra i team e affrontare il problema delle priorità contrastanti. 
All'inizio dovrete programmare diverse riunioni con il team al completo nei momenti critici. La partecipazione a queste riunioni dev'essere obbligatoria, e un modo per assicurarvi che sia effettivamente così è incaricare ogni membro del team di condurre una parte della riunione, anche solo per 10 minuti. Verificate tempestivamente che tutti i membri abbiano definito le date delle riunioni con gli altri team di cui fanno parte. In teoria, la cultura aziendale dovrebbe dare alle riunioni formali di controllo una priorità elevata. Se non è così, potrebbe essere necessario coordinarvi con i leader di altri team prima di fissare insieme una tabella di marcia.

Quando pianificate altre riunioni di gruppo, invitate esclusivamente le persone necessarie e nessun'altra, per ridurre al minimo i conflitti organizzativi con gli altri team.
Il più delle volte non ci sarà bisogno che tutti siano presenti. Incontratevi in sottogruppi ogni voltà che è possibile. Non dimenticate di sfruttare la tecnologia: invece di utilizzaqre il tempo prezioso facendo una riunione dal vivo per gli aggiornamenti, inviate una mail di tre righe o mantenete aggiornate le dashboard online, in modo che le persone possano monitorare l'avanzamento del progetto alla bisogna. Anche se la tecnologia non sostituisce l'interazione faccia a faccia, può aiutarvi a superare un ostacolo quando fare una riunione vera e propria sarebbe troppo costoso. E siate creativi: di solito i membri più giovani di un team preferiscono guardare un aggiornamento video di 30 secondi che leggere un promemoria di dieci pagine. 

Controlli brevi e spontanei possono mantenervi aggiornati sulle loro scadenze contrastanti; questa interazione visiva, inoltre, vi aiuterà a cogliere meglio segnali sui loro livello di stress e motivazione.

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giovedì 19 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata (4)

Mappare le competenze di ciascuno

Dovete cercare di portare alla luce la gamma completa delle capacità che ogni persona apporta al progetto, sia le competenze tecniche che le conoscenze più in generale, come la familiarità con il processo decisionale del cliente, o la capacità di negoziare, o intuizioni su un importante mercato di riferimento.

Assicuratevi che tutti sappiano quale contributo apporta ogni compagno di squadra, perché questo consente ai membri di imparare più facilmente l'uno dall'altro. L'orgoglio che provano le persone nel condividere le proprie conoscenze e la coesione promossa dal tutoraggio fra pari spesso sono elementi preziosi quanto l'effettiva condivisione delle conoscenze.

Come per il lancio, se molti membri hanno già lavorato insieme la tentazione di saltare questa fase è forte. Si è scoperto, però, che anche team che già si conoscono possono non essere aggiornati sui potenziali contributi dei singoli membri, e spesso non concordano sulle competenze dei loro compagni. Questo, a volte, porta a discussioni sui ruoli da assegnare ai diversi membri o a irritarsi per la ripartizione degli incarichi, considerata ingiusta o inadeguata. Capita anche che le persone perdano tempo a cercare risorse esterne quando un compagno di squadra possiede già le competenze necessarie, e questo demotiva quella persona che si sente sottovalutata.

(...)

Operare una mappatura delle competenze può evitare queste incomprensioni. Inoltre è un metodo che ottimizza la comunicazione (se sapete chi si occupa effettivamente di un problema, non c'è bisogno di fare un "rispondi a tutti"). 

(...)

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mercoledì 18 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata (3)

(...)

Esistono diversi modi in cui i leader dei team e quelli delle organizzazioni possono ridurre i costi del multiteaming e sfruttare meglio i suoi vantaggi. Passiamo a illustrarli.

Priorità per i team leader
Coordinare gli sforzi dei membri (sia all'interno di un team che fra i vari team) e promuovere l'impegno e l'adattabilità sono le sfide principali per un team leader. Concentrarvi su questi obiettivi in anticipo, ancora prima che il vostro team si riunisca per la prima volta, vi aiuterà a stabilire relazioni più forti, ridurre i costi del coordinamento, facilitare gli attriti generati dalle transizioni, evitare le schermaglie politiche e individuare i rischi per poterli contenere meglio.

Ecco come fare: lanciate il team con l'atteggiamento giusto, per creare un clima di fiducia e familiarità. Quando si dedicano completamente a un team, le persone imparano a conoscere la vita dei propri compagni di squadra al di fuori del lavoro: famiglia, hobby, eventi della vita e quant'altro. 

(...)

Soprattutto, crea quei legami forti e quella fiducia interpersonale necessari per cercare e fornire feeback costruttivi, scambiarsi legami di rete preziosi e fare affidamento sulle rispettive competenze tecniche.
Quando fanno parte di più team, invece, le persone di solito sono molto concentrate sull'efficienza e meno inclini a condividere informazioni personali.
Se non siete voi a organizzare per loro momenti di interazione personale, probabilmente avranno una visione anemica dei loro compagni di squadra, e questo può generare diffidenza sulla tempestività degli altri nel rispondere, sul loro impegno per la squadra e così via. Perciò assicuratevi che nella fase iniziale i membri del team trascorrano un po' di tempo a familiarizzare tra loro. Questo permetterà in futuro, anche a persone che collaborano a distanza, di concedersi reciprocamente il beneficio del dubbio.

(...)

Lanciare formalmente il team (...) aiuta molto, specialmente se i membri sono espliciti sui loro obiettivi di sviluppo.

(...)

Se le persone già conoscono e sono pronte a gettarsi a capofitto nel progetto, il lancio può sembrare una perdita di tempo, ma alcune ricerche dimostrano che questi "calci d'inizio" possono migliorare i risultati anche del 30%, in parte grazie al fatto che accrescono la rendicontabilità fra pari. 

Chiarendo in anticipo ruoli e obiettivi e stabilendo norme di gruppo, date modo alla gente di sapere cosa aspettarsi dai colleghi. E' una cosa di cui tutti i team hanno bisogno, ovviamente, ma è particolarmente importante nelle organizzazioni in cui i dipenenti fanno parte di più team nello stesso momento e devono assorbire molte regole, obiettivi e norme diversi per fare un buon lavoro su tutti i fronti.

Nei team in cui le persone vanno e vengono continuamente, dovrete periodicamente rifare questi "calci d'inizio" per accogliere nella squadra i nuovi membri e valutare se i processi e le aspettative concordati all'inizio hanno ancora senso. E' buona norma farlo ogni volta che cambia il 15% del team.

Domani vedremo qual è la seconda cosa da fare.

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martedì 17 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata (2)

Se i vantaggi sono evidenti e quantificabili, i costi sono notevoli e devono essere gestiti (...)
Le organizzazioni corrono il rischio di trasmettere gli shock da un team all'altro, perché i dipendenti che fanno parte di più gruppi creano un legame tra progetti altrimenti indipendenti. E i team scoprono che il costante via vai dei membri indebolisce la coesione del gruppo e l'identità, rendendo più difficile costruire fiducia e risolvere i problemi. Anche il prezzo pagato dai singoli dipendenti è alto: sforzandosi di dedicare tempo e impegno ai vari progetti, spesso finiscono per sentirsi stressati, affaticati ed esauriti.

(...)

Assegnare i dipendenti a più progetti contemporaneamente non è certo una novità, ma oggi è una pratica particolarmente diffusa. In un sondaggio condotto su oltre 500 manager di aziende di tutto il mondo, si è scoperto che l'81% di quelli che lavorano in team lavorano in più team nello stesso momento. Altre ricerche forniscono percentuali ancora più alte: per esempio, nei settori a forte intensità di conoscenza si arriva al 95%.

Perché il multiteaming è così diffuso? Per diverse ragioni.
In primo luogo, le organizzazioni devono ricorrere a conoscenze specialiste che riguardano più discipline per risolvere molti problemi grandi e complessi. 

(...)

In secondo luogo, con l'affollamento e la riduzione delle barriere geografiche e di settore, oggi le organizzazioni sono maggiormente spronate a ridurre i costi e spalmare le risorse. 

(...)

Anche i dirigenti di alto livello si devono barcamenare fra sette o più progetti al giorno (...). Oltretutto, la tecnologia rende più facile tracciare i tempi di inattività, anche quando si tratta solo di pochi minuti, e assegnare lavoro aggiuntivo ai dipendenti o spostarli su altri progetti durante una fase di stallo.

In terzo luogo, i modelli organizzativi si stanno allontanando da una gestione gerarchica e centralizzata del personale, dando ai dipendenti maggiore scelta sui loro progetti e migliorando lo sviluppo del talento, l'impegno e la fedeltà all'azienda.

(...)

Sempre più persone hanno contratti precari e lavorano non soltanto su più progetti, ma anche per più organizzazioni; in molti casi, le aziende condividono il tempo e l'intelligenza dei membri di un team con le aziende rivali.

Anche se la maggior parte dei manager riconosce riconosce la crescente diffusione del multiteaming, pochi hanno una visione completa di come influisce sulle organizzazioni, i team e i singoli dipendenti. 
(...)
Da alcuni colloqui è emerso che lavorare con più team è stressante (...) nonostante alcuni vantaggi come il fatto di poter usare in un progetto gli insegnamenti appresi in un altro.

(...)

In linea di massima, i vantaggi del multiteaming sono l'efficienza e il flusso di conoscenze, mentre i costi sono in gran parte di natura intrapersonale o interpersonale e psicologica. Forse è per questo che i costi sono monitorati e gestiti con meno attenzione, e a volte ignorati completamente; e forse è per questo che molto spesso questi costi annullano i vantaggi, senza che i leader se ne rendano conto.

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lunedì 16 ottobre 2017

L'organizzazione troppo impegnata

(Fonte: "HBR Italia")  
 
(...)

In tutto il mondo, alti dirigenti e team leader sono sempre più frustrati dai conflitti causati dal fenomeno del multiteaming, cioè la prassi di assegnare a un dipendente più progetti contemporaneamente.
Ma il multiteaming, visti i notevoli vantaggi che comporta, ormai è diffusisssimo all'interno delle organizzazioni, in particolare nei lavori legati alla conoscenza. Consente di utilizzare il tempo e le risorse intellettuali dei singoli individui in diverse funzioni e settori, e aumenta l'efficienza.

Sono poche le organizzazioni che possono permettersi di lasciare che i loro dipendenti si concentrino solo su un progetto alla volta e stiano a girarsi i pollici fra un incarico e l'altro. Perciò le aziende ottimizzano il capitale umano un po' come si faceva un tempo con le macchine nelle fabbriche, spalmando risorse costose su team che non hanno bisogno del 100% di queste risorse il 100% del tempo.
In questo modo evitano costosi tempi morti quando i progetti vanno a rilento e possono permettersi di mantenere in azienda esperti altamente specializzati da spostare da un progetto importante all'altro, a seconda delle necessità.

Il muktiteaming rappresenta anche un importante canale per trasferire la conoscenza e diffondere le migliori prassi all'interno delle organizzazioni.


Continueremo il discorso domani. Nel frattempo avete voglia di raccontarci se qualcuno di voi ha sperimentato il multiteaming e come si è trovato?


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venerdì 13 ottobre 2017

Quando la compassione confligge con l'essere onesti


(Fonte: "HBR Italia")

Immaginate che un subordinato vi abbia consegnato un lavoro mediocre. Come suo superiore avete il dovere di rivolgergli una critica costruttiva, ma pare proprio che lui attraversi un brutto momento. Così alleggerite il tenore del vostro feedback.
Tecnicamente state mentendo, anche se motivati da compassione e dal desiderio di evitare di urtare i sentimenti di un'altra persona.

Si tratta di un esempio di menzogna pro-sociale, comportamento pervasivo, eticamente ambiguo e complesso.
Il primo studio che ne affronta le radici emotive ha previsto tre esperimenti per verificare in che modo la compassione influenzi la tendenza alla menzogna pro-sociale. Più inclini a essa si sono rivelati i soggetti manipolati in modo da provare compassione (in un caso, era stato detto loro che la persona aveva appena subito un lutto familiare; in un altro avevano appena visto un film sui bambini che muoiono di fame), oppure coloro che si autovalutavano come altamente compassionevoli in tutte le situazioni.

Riconoscere il nesso tra compassione e menzogna pro-sociale può essere importante per i manager, poiché quest'ultimo comportamento può interferire con la capacità di restituire un feedback diretto in grado di aiutare le persone a rendere al meglio.


Cosa ne pensate?


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giovedì 12 ottobre 2017

Un lavoratore su 5 soffre di “stress da lavoro”

Ecco i dati diffusi dalla Società italiana di psichiatria. Ce ne parla "La Stampa".

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mercoledì 11 ottobre 2017

Manager anglosassone o mediterraneo?

Ok, non ridete...
Pronti?

(Fonte: "Uomo & manager")

Trasformazione e incertezza. Se è vero che le aziende sono continuamente sottoposte a cambiamenti in termini tecnologici ed economici, è anche vero che questi non vengano colti nel breve periodo e che le classi dirigenziali possano avere qualche problema di gestione.
In tutti i settori, dal pubblico al privato, dalle banche alle assicurazioni, dalle piccole aziende
alle multinazionali, sono spesso necessari dei processi di ristrutturazione che richiedono
risorse dedicate e impegno costante. In primis l’obiettivo è raggiungere risultati economici ma per farlo è necessario che siano applicati modelli di business moderni, gestibili a prescindere dal management che li ha impostati. Essere troppo focalizzati sull’ottenimento di risultati nel breve periodo il più delle volte si rivela una scelta superficiale che non può cogliere i profondi meccanismi
di relazione con gli stakeholder ma orientarsi troppo al futuro rischia di trascurare mile stones necessarie da raggiungere per poter avanzare. 


Cosa fare dunque?

IL GIUSTO TRADE-OFF TRA AZIONI DI BREVE DURATA E CAMBIAMENTI STRUTTURALI
 

(...) Un processo di trasformazione efficace richiede al management almeno 5 capacità fondamentali:
 

1
Logico, forse banale, ma essenziale è avere una Visione di cambiamento con un orizzonte temporale di almeno 5-10 anni sullo scenario di riferimento e sul posizionamento strategico. La chiarezza verso gli stakeholder e in particolare gli azionisti è un passaggio chiave per permettere al management di implementare il nuovo sistema di valori e il posizionamento che si intende perseguire.
 

2
Per rendere concreta una visione è necessario ripensare le Regole di funzionamento dell’organizzazione ed essere rigorosi nel farle rispettare in un’ottica di coerenza, secondo priorità, che evidenzi lo stile di leadership.
 

3
Per il successo di un qualsiasi programma di trasformazione, è fondamentale incontrare il Consenso
interno ed esterno intorno alla visione, attraverso un piano di stakeholder engagement che va costantemente manutenuto. Dipendenti, clienti, fornitori, partner di business, autorità e istituzioni politiche, media, comunità di riferimento devono essere gestiti in un’ottica di confronto.


4
Tra gli aspetti soft del cambiamento è bene ragionare in termini di Simboli. Un programma di
trasformazione richiede azioni simboliche, in particolare riguardo alle scelte inerenti le
persone. Premiare in modo visibile l’impegno ed il merito e isolare la resistenza al cambiamento.
 

5
Poter garantire all’azienda una solidità duratura al di là della propria presenza fisica, è necessario
diventare manager generativi, guardando oltre il proprio ruolo per lasciare in eredità una buona gestione e lasciare la propria impronta di cambiamento senza che questa abbia bisogno di lui per essere sviluppata. Tuttavia, la Generatività in Italia è rara e culturalmente ancora distante.
 

LA CLASSE DIRIGENTE IN ITALIA: MANAGER ANGLOSASSONE O MEDITERRANEO?
 

In Italia il management si polarizza su due profili contrapposti: il manager anglosassone e
quello mediterraneo. Il primo, specializzato sugli aspetti hard del cambiamento (visione e regole), è più carente sul fronte della sensibilità emotiva-relazionale e debole sugli aspetti soft (consenso e simboli). Lucido e determinato rispetto al processo di trasformazione, può rischiare di restare distaccato dalla struttura operativa, a prescindere dai risultati conseguiti. Il manager mediterraneo ha una forte sensibilità politica ed è capace di ottenere risultati a breve grazie ad una
spiccata gestione del consenso e di team building, ma risulta essere poco efficace nei
cambiamenti strutturali. Se da un lato è in grado di attivare un processo di trasformazione, dall’altro lo fa solo in superficie, lasciando che la sua visione strategica si esaurisca con il suo mandato personale. Una classe manageriale in grado di integrare le capacità di entrambi i profili è la chiave
del successo per ottenere risultati e cambiare in profondità le grandi aziende.


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martedì 10 ottobre 2017

Resistere all'abbiocco in ufficio

11 consigli per resistere all'abbiocco in ufficio: ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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lunedì 9 ottobre 2017

Che procrastinatore pensi di essere?

Non tutti coloro che hanno la tendenza cronica a rimandare sono uguali: ci sono intenzionali e non-intenzionali, attivi e passivi. Un comportamento sulle cui cause c’è discussione, che potrebbe svelare importanti meccanismi all’origine delle dipendenze. Ce ne parla "Il Corriere della  Sera".

E voi che procrastinatori siete?

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venerdì 6 ottobre 2017

In ufficio l'open space non funziona

Quanti di voi odiano l'open space? Bene, adesso potete dire che avevate ragione! Ce ne parla "la Reepubblica".

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giovedì 5 ottobre 2017

Nessun problema, solo soluzioni

I manager più dinamici e tesi al miglioramento continuo e rapido amano spesso ripetere che non vogliono che i collaboratori entrino nel loro ufficio portando problemi ma soluzioni.
Questo modo di porsi indica che persone del genere non pensano minimamente che i problemi possano esistere, semplicemente perché li vedono come sfide da affrontare e superare brillantemente. Là dove la maggioranza delle persone vede una soluzione a un problema, questi manager vedono semplicemente una risposta alla sfida che si è presentata.

Non è sempre facile - però - per i collaboratori adattarsi a questa visione delle cose, soprattutto se sono stati abituati a ricercare e individuare le problematiche per ipotizzare come porvi rimedio.

Negare, dunque, che esistano i problemi davanti a persone che non solo li vedono chiari e lampanti davanti a loro ma sono anche convinte che molti di essi siano irrisolvibili, non è sempre l'approccio vincente.

Se l'obiettivo è quello di avere dai collaboratori soluzioni, è bene testare se l'approccio condotto è il migliore per ottenere i risultati auspicati. In molti ambienti muoversi in questo modo paga...è questo il caso? Se la risposta è "no", meglio abbozzare e riflettere sul fatto che, in fondo, i problemi sono un buon punto di partenza per arrivare alla famosa soluzione che auspicate.
Provate a pensare al problema come a un gap, l'espressione della differenza tra ciò che avete e ciò che vorreste. Identificare questo gap è importante e va assolutamente incoraggiato.

Un buon modo di procedere una vota individuato il problema è quello di chiedere a chi l'ha individuato cosa vorrebbe cambiare rispetto alla situazione che presenta la problematica. Se volete, è un modo per descrivere in modo positivo il gap tra ciò che vediamo e ciò che vorremmo. Fatto questo, il primo importantissimo passo - quello di vedere il problema in maniera positiva e non negativa - è stato compiuto.

A questo punto, si deve passare all'individuazione e all'analisi delle possibili soluzioni per eliminare o ridurre questo gap. Lasciate che i collaboratori si prendano il loro tempo per riflettere e ordinare le idee, non pretendete soluzioni immediate.

Una volta presentate le possibili soluzioni, chiedete a ogni persona di scegliere le tre preferite e di associare ad ognuna i pro e i contro. Se strutturerete il percorso in questo modo, sarà più semplice scegliere la soluzione migliore e, in breve tempo, otterrete soluzioni e non problemi.

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mercoledì 4 ottobre 2017

Sviluppo sostenibile (4)

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Cinque P per salvare il pianeta

La sfida della salvaguardia ambientale passa anche dalle interrelazioni con le altre variabili della sostenibilità


Prima i numeri. Si stima che in Italia siano presenti 2.700 specie viventi aliene, che non significa extraterrestri come nei filmacci di serie b bensì specie non originarie dell’Italia. Insetti, piante, mammiferi, pesci: la biodiversità italiana si arricchisce e al tempo stesso è minacciata, come insegna l’aggressivo scoiattolino grigio importato dagli Stati Uniti, che nei nostri boschi sta danneggiando gli alberi e scacciando lo scoiattolo europeo dal pelo fulvo e dalla coda imponente.
Nel 2014 sono stati investiti 740 milioni di euro in politiche a tutela della biodiversità. Basteranno? Ancora numeri: 6,1 milioni di abitanti vivono in zone a rischio di alluvione. Un milione gli italiani esposti al rischio di frane.
Sono questi alcuni dei dati di partenza per programmare lo sviluppo sostenibile nel campo dell’ambiente. Di più: la componente ambientale è centrale nella locuzione sviluppo sostenibile. Questa locuzione ha una storia lunga di decenni e la sua definizione è andata modellandosi nel tempo con l’evolversi della sensibilità sociale. Ma l’ambiente è il minimo comun denominatore delle diverse versioni di sviluppo sostenibile: l’ambiente è la radice dello sviluppo sostenibile fin dal 1972, quando il Club di Roma e il Massachusetts Institute of Technology presentarono il rapporto «I limiti dello sviluppo». È ancora l’ambiente al centro della definizione ormai più consolidata data nell’87 dal rapporto Brundtland: lo sviluppo sostenibile non è una «condizione di armonia», invece è
un «processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli
investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali».
Su questa base nasce la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, in fase di lancio da parte del Governo italiano. Tra i punti del nuovo documento italiano, presentato in estate all’Onu e presto in Consiglio dei ministri, vi sono un risparmio di risorse, la tutela dell’ambienta e della biodiversità intesi anche come capitale immateriale, la riduzione delle emissioni e dell’inquinamento, la propensione verso la cosiddetta economia circolare. Princìpi meravigliosi nella teoria, ma
assai difficili da coniugare nella pratica. Soprattutto quando l’applicazione di questi concetti ha effetti immediati sull’economia e quindi sul portafoglio delle aziende e dei consumatori. L’ambiente è una risorsa, è un’opportunità ed è un costo. Secondo i casi e le situazioni, alcuni ne percepiranno la risorsa, alcuni l’opportunità e altri ne vedranno solamente il costo.
Quali i punti della strategia? Sono quelli dettati dal buonsenso. Fare quanto più possibile ricorso all’economia circolare, cioè quella che riutilizza le risorse in un circolo virtuoso come il ricupero delle materie prime riutilizzando i rifiuti. Ridurre e se possibile eliminare l’uso di combustibili di origine fossile (in ordine di inquinamento: carbone, petrolio, metano). Alzare l’efficienza energetica e il risparmio, in modo da produrre di più con meno energia. Invogliare le persone e le aziende verso la mobilità sostenibile per spostarsi e per muovere le merci. Ridurre l’inquinamento. Tutelare la biodiversità. Proteggere gli ambienti naturali. 


Il piano italiano è ancora tratteggiato per linee guida; i documenti ufficiali non sono ancora stati riempiti con i numeri e con i valori in euro, valori sui quali potranno accendersi battaglie aspre. Ma uno degli aspetti più forti è l’integrazione fra elementi interrelati in modo strettissimo. Un esempio: il
rapporto fra la mobilità sostenibile e i divari economici che spingono le persone a spostarsi fra aree diverse (per esempio nell’emigrazione ma anche nel pendolarismo quotidiano). Manca «una prospettiva complessiva e convincente per il futuro del nostro Paese», avverte per esempio un’analisi degli esperti di sviluppo sostenibile del grande network ASviS di associazioni, istituti di ricerca, Università, non profit. «I media tendono spesso a presentare le singole “emergenze” come se fossero totalmente indipendenti le une dalle altre», scrive l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, nel suo rapporto annuale presentato domani. Ecco perché le pagine della Strategia declinano la
dipendenza reciproca tra le cinque P dello sviluppo sostenibile (oltre a pianeta, partnership, pace, persone, prosperità).


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martedì 3 ottobre 2017

Sviluppo sostenibile (3)

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Tre pilastri per lo sviluppo sostenibile economico

Welfare pubblico e privato, conciliazione vita-lavoro, formazione continua: Governo e imprese
stanno lavorando a nuovi strumenti di sostegno ai cittadini, con primi effetti positivi misurabili


La compensazione tra l’arretramento del welfare pubblico, ormai parte della nostra quotidianità, e l’avanzamento del welfare privato arriva, in parte, sul fronte fiscale. E cerca un suo spazio tra
le righe delle 5P (persone, pace, pianeta, prosperità, partnership) che sono state indicate nella
Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, in fase di approvazione. Da qualunque angolatura
si affronti il tema del welfare, il nodo delle risorse è quello più difficile da sciogliere e si intreccia
sempre con quello della sostenibilità. Tutti gli attori, dai corpi intermedi fino ai politici, quando si
avvicinano al welfare sanno bene che il conto di qualsiasi iniziativa è sempre molto salato e quindi prima ancora di discuterla ci sono due ragionamenti che devono scorrere paralleli: il primo riguarda l’utilità sociale, il secondo la sostenibilità in termini economici.


L’attivismo di imprese, sindacati e politici per poter portare al mulino dei lavoratori un risultato che vada al di là del denaro si misura in numerosi accordi. A diversi livelli. In molti contratti
collettivi nazionali di lavoro le imprese, d’intesa con i sindacati, hanno deciso di investire sulla sanità integrativa e sulla previdenza complementare, visto che con l’allungamento dell’età pensionabile, salute e sicurezza economica sono diventati una preoccupazione per i lavoratori. Ci
hanno pensato categorie come chimica, farmaceutica, meccanica, tessile, gomma plastica, solo
per citare l’inizio di un lungo elenco.
Passando dal livello nazionale a quello aziendale e territoriale parlano chiaro gli accordi sui
premi di produttività. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero del Lavoro in settembre, sono
25.658 i contratti aziendali e territoriali depositati; la grande maggioranza si riferisce a contratti
aziendali mentre sono 2.319 i contratti territoriali.


Entrando nel merito dei contenuti delle intese attive nel 2017, 10.209 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 7.413 di redditività, 6.188 di qualità, mentre 1.740 prevedono un piano
di partecipazione e 4.024 prevedono misure di welfare aziendale. Il meccanismo che questi accordi hanno sviluppato, allo stato attuale, appare molto virtuoso. Non si può dimenticare il ruolo del decreto interministeriale (in attuazione della norma contenuta nella legge di Stabilità 2016), che prevede una tassazione agevolata con imposta sostitutiva del 10% per i premi di risultato (con limiti per il premio e per il reddito), e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa e che prevede inoltre che l’eventuale scelta del lavoratore di convertire premi di risultato agevolati nei benefit ricompresi nel welfare aziendale comporti una detassazione completa. Tutto questo però a fronte di risultati oggettivi. Di qui la forte attenzione ai criteri di misurazione degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione.Sulla detassazione del welfare le parti sociali hanno trovato una forte sintonia e l’escalation degli accordi mostra
l’interesse forte tanto nelle grandi imprese quanto nelle Pmi, come testimonia la crescita degli accordi territoriali (cui aderiscono soprattutto Pmi prive di rappresentanza sindacale). Quando si
parla di welfare si affronta un tema sempre molto complesso e non manca qualche preoccupazione, soprattutto in casa Cgil. Che la sperimentazione della detassazione vada proseguita non vi è
dubbio, ma il timore è che il capitolo previdenza e collettività, in futuro, ne facciano le spese. La detassazione dei premi avviene attraverso l’uso di risorse pubbliche, ma per la Cgil non si deve incorrere nell’errore di mettere in contrapposizione welfare contrattuale e welfare pubblico e soprattutto non si possono utilizzare risorse pubbliche per finanziare il welfare aziendale sottraendo risorse al sistema universale di welfare perché questo produrrebbe diseguaglianze.
Sempre rimanendo al livello aziendale c’è un altro intervento sul fronte fiscale da citare. E cioè
il decreto che riconosce sgravi contributivi ai datori di lavoro privati che abbiano previsto, nei
contratti collettivi aziendali, istituti di conciliazione tra vita professionale e privata dei lavoratori. La sperimentazione, prevista dal decreto legislativo n. 80/2015, consentirà di destinare 110 milioni per il biennio 2017 e 2018, a valere sul Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per
incentivare la contrattazione di secondo livello.
Welfare, conciliazione vita-lavoro, ma anche formazione continua. Lo sviluppo sostenibile
non può trascurare questo tassello. Con l’approvazione della legge n. 388/2000 sono nati i Fondi
interprofessionali, organismi bilaterali con il compito di favorire la formazione e l’occupabilità dei lavoratori. In questa fase di svolta tecnologica, i progetti di formazione non mancano, come mostrano le domande che arrivano ai bandi.
Non si può però dire lo stesso delle risorse, dopo il passaggio del contributo dello 0,30% della massa salariale lorda che alimenta i fondi allo 0,19%, a favore in una prima fase degli ammortizzatori
sociali e poi della fiscalità generale. La coperta, già corta, negli anni è stata accorciata ancor di
più, ma il ruolo strategico della formazione continua per l’occupabilità è rimasto immutato.


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lunedì 2 ottobre 2017

Sviluppo sostenibile (2)

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

La pubblicazione lo scorso marzo, ad opera del ministero dell’Ambiente, della Strategia nazionale
per lo sviluppo sostenibile e la presentazione della stessa alle Nazioni Unite a luglio sono buone notizie. L’idea forza del corposo documento è la presa d’atto (finalmente!) dell’urgenza di affrontare e risolvere il trilemma politico che fino ad ora ha bloccato ogni seria discussione intorno al grande tema dello sviluppo sostenibile. Si tendeva a pensare, infatti, che non fosse possibile avviare il Paese
lungo un sentiero dove crescita economica, tutela ambientale, inclusione sociale fossero congiuntamente perseguibili. Due soli di questi tre obiettivi – si riteneva – si sarebbero tutt’al più potuti conseguire. Ebbene, la novità, non da poco, del Documento in questione è quella di riconoscere esplicitamente che così non è, perché con una strategia adeguata è possibile tenere in armonia i tre obiettivi. Il che è quanto già raccomandava l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, per dare risposta al “grido del pianeta” – per usare le parole di papa Francesco – che è diventato altrettanto forte di quello dei poveri e degli “scartati”.


Come fare per riuscire nell’impresa? Il Documento avanza una strategia che fa riferimento a cinque “P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership.
Partnership tra enti pubblici (in primis, il governo), mondo della business community ed Enti di terzo settore (Ets), come ora, dopo la recente pubblicazione del codice del terzo settore (2 agosto 2017), vengono denominate le organizzazioni della società civile (oltre trecentomila in Italia). Non è per caso che nei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite si parli molto di più che non in passato del ruolo e dell’azione della società civile organizzata. In buona sostanza, il senso della partnership è quello di dare concreta applicazione al principio di sussidiarietà circolare, articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, mercato, comunità. Giova non confondere quella circolare
con le sussidiarietà orizzontale e verticale. Mentre con queste due ultime si ha una cessione di quote di sovranità dallo Stato agli altri due soggetti del triangolo sociale, con la sussidiarietà circolare si realizza una condivisionedi quote di sovranità.
“Non faccia lo Stato ciò che meglio possono fare gli enti inferiori e i soggetti della società civile”, è lo slogan della sussidiarietà orizzontale (e di quella verticale); “Faccia lo Stato assieme alle imprese e agli Ets” è invece lo slogan della sussidiarietà circolare (gli italiani mai dovrebbero dimenticare che la nozione circolare di sussidiarietà venne elaborata e messa in pratica, dapprima in Toscana, all’epoca dell’Umanesimo civile nel XV secolo).
Perché – sorge spontanea la domanda – la partnership, cioè la progettualità organizzativa partecipata, è fattore di decisiva rilevanza ai fini della risoluzione del trilemma di cui sopra? Una prima ragione chiama in causa la conoscenza. Come noto, questa è di due tipi: codificata l’una, tacita l’altra. Ora, mentre per acquisire e diffondere la prima è sufficiente servirsi dei codici (o protocolli) in cui essa è incorporata, la conoscenza tacita si trasmette solo per via di prossimità in modo relazionale.
Se dunque nella Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile non vengono coinvolte tutte le classi di stakeholders per una carenza di partecipazione ai processi decisionali, è evidente che verrà a determinarsi una scarsità di tacit knowledge, con le conseguenze che si possono immaginare (si consideri che nelle condizioni odierne è la conoscenza tacita a fare aggio su quella codificata). Come spesso si legge, si dirà poi che i magri risultati conseguiti sul fronte dello sviluppo sostenibile sono da attribuirsi alla carenza di risorse o all’elefantiasi burocratica, ignorando la vera causa: la non volontà di siglare patti o stipulare alleanze tra enti pubblici, imprese, Ets. Per fare cosa? Primo, per fissare le regole del gioco, in particolare per definire le priorità degli interventi: quando le regole vengono fissate prescindendo dalle capacità effettive delle persone chiamate ad applicarle quasi mai i risultati sono soddisfacenti. Secondo, per decidere in merito ai modi di gestione dei progetti stabiliti.
Una seconda ragione che dice dell’importanza della partnership deriva dal fatto che in tutte le situazioni di interdipendenza, come sono quelle che concernono lo sviluppo sostenibile, sorge il problema del coordinamento delle decisioni prese dai vari attori. Come le scienze dell’organizzazione insegnano da tempo, il coordinamento richiede, per essere efficace, quella forma di comunanza che è propria delle azioni cooperative: ci si considera l’un l’altro come agenti internazionali e liberi di agire e, pertanto, capaci di accordarsi per un fine condiviso e di impegnarsi reciprocamente, rifiutando di porre in atto comportamenti opportunistici.
Quando un’azione, alla quale concorrono diverse azioni individuali, è comune occorre dare vita ad un’organizzazione speciale basata sull’autogoverno, che limiti il più possibile il principio di autorità a vantaggio del principio di ragionevolezza. L’istanza partecipativa non può dunque essere declinata dalle istituzioni come mera consultazione o concertazione di tipo “neo-corporativo”, e neppure come semplice informazione ai cittadini in forme top-down, tanto spesso attivate per giustificare decisioni già prese. Queste forme di coinvolgimento delle imprese e degli Ets – purtroppo ancora troppo praticate nel nostro Paese – ben poco hanno a che vedere con l’autentica partnership di cui parla il Documento.
In definitiva, è urgente che nel nostro Paese possa aprirsi una nuova stagione di dibattito pubblico in cui si chiarisca, una volta per tutte, che partnership non significa né consociativismo per conservare posizioni di rendita parassitaria, né assemblearismo, sul modello praticato dai movimenti sociali negli ultimi decenni; un modello quest’ultimo che, mentre non assicura una reale democraticità, si rivela inefficace come forma ordinaria di governo. Piuttosto, la partnership è l’unica via pervia per
accrescere il tasso di civilizzazione della nostra società. Quella della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile può costituire un’occasione preziosa e irripetibile a tale riguardo.


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