mercoledì 31 maggio 2017

In Italia manca il talento?

"La Stampa" ci racconta che molte aziende non riescono a trovare le persone giuste da inserire nell'organico. Sarebbero addirittura 4 milioni le posizioni in cerca del professionista più adatto!

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martedì 30 maggio 2017

Essere irrazionali serve...

(Fonte: "Il Venerdì")

Gli italiani sono i peggiori guidatori d'Europa - secondo gli altri europei - ma al tempo stesso ritengono di guidare meglio di tutti. 
Il paradosso del rapporto 2017 "Les Européens au volant" della Fondation Vinci Autoroutes illustra un fenomeno individuato nel 1999 dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger: sono sempre i meno competenti a sopravvalutarsi, perché le lacune che condannano a un esito insoddisfacente sono le stesse che impediscono di riconoscere la povertà dei propri risultati. Solo i già competenti sanno abbastanza da accorgersi delle proprie manchevolezze. 

Un abbaglio che però, in certi casi, si trasforma in un vantaggio. 
Lo dicono le ricerche di Ryan McKay, docente di psicologia alla Royal Holloway University di Londra (...) "Nell'ambito di scuola, lavoro e sport, dove le prestazioni sono ben misurabili, una percezione di sé falsata porterà delusioni", spiega McKay. "Ma per qualità più soggettive, come il fascino o la moralità, un'autostima ingiustificata aiuta, perché riduce lo stress".

Potere delle "illusioni positive", false credenze che sono state promosse, anziché rimosse, dall'evoluzione. Perché favoriscono la specie. "Di fronte a una persona che ci interessa, possiamo fare due errori: pensare di piacerle, quando invece non è affatto così. O convincerci - a torto - di non avere speranze e lasciar perdere" sottolinea McKay. "Nel primo caso rischiamo solo qualche imbarazzo, nel secondo invece sfuma un'occasione d'oro per formare una coppia: un costo molto più alto in termini evolutivi. Per questo è motlo utile illudersi di essere irresistibili".

(...)

E' una riflessione interessante, non trovate?
Cosa ne pensate?

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lunedì 29 maggio 2017

Come riattivare l’energia in azienda

(Fonte: "L'Impresa")

Finora le imprese hanno affrontato il tema del mix generazionale con un approccio più organization driven che people driven, spesso sottovalutando l’esperienza e le capacità degli over 55 ma anche le esigenze degli under 30.

Le aziende devono fronteggiare oggi una grande sfida interna: la convivenza fruttuosa fra la
generazione senior che in genere detiene i posti di comando e quella dei junior, preparati e digitali. Ce ne parla Barbara Targa, Managing Director di Elan – The Executive Circle (...)


Come sintetizzare il tema dell’age diversity?
Le dinamiche che riscontriamo oggi in Italia, all’interno delle aziende, sono soprattutto relative alla difficile convivenza fra senior e junior. Da un lato, ci sono persone che hanno maturato una lunga
professionalità e quindi anche un’anzianità lavorativa. La riforma Fornero ha prolungato la loro longevità professionale, in modo forzato. Dall’altro lato, abbiamo una popolazione di giovani preparati, digitali, che conoscono due o più lingue, hanno fatto esperienze all’estero, che ovviamente hanno la necessità di collocarsi sul mercato del lavoro e che non trovano gli spazi adeguati e sufficienti anche in termini quantitativi per iniziare il loro percorso di crescita.


Nelle aziende ci sono insomma due generazioni l’una contro l’altra armate…
Ci sono sicuramente due generazioni che devono fronteggiare un passaggio epocale: gli over 50 e i giovani di 30 anni. La generazione dei manager over 50 deve fronteggiare la rapida trasformazione tecnologica e professionale. Con la riforma delle pensioni questa generazione deve restare in attività
per un periodo imprevisto che va da 10 a 12 anni, fin quasi alla soglia dei 70 anni. Un pesante fardello sulla motivazione. Subisce la minaccia di obsolescenza, fisica e tecnologica e il confronto con i “nativi digitali”.
Gli under 30, invece, sono alle prese con il desiderio di stabilità, che spesso manca. Per loro la riforma delle pensioni ha creato due problemi: uno immediato, riducendo le prospettive di carriera e uno futuro, legato all’allungamento dell’età lavorativa.


Le aziende come stanno gestendo o subendo questo passaggio?
Credo che non si possa fare una generalizzazione, perché l’Italia è molto diversificata e la cultura delle aziende è molto variegata.
In genere, osserviamo che le aziende più grandi o più strutturate stanno affrontando questo tema in modo strategico. Sono attente a trovare e cercare nuove soluzioni. Ci sono poi aziende di dimensioni medio-piccole, in cui si affronta il tema in modo pragmatico. C’è tuttavia ancora una grande quota di aziende in cui la sensibilità verso questo argomento è bassa. Il fenomeno c’è, ma viene subito in
modo passivo.


Che cosa emerge dall’indagine sul tema age diversity che avete condotto?
Elan ha realizzato una ricerca qualitativa, denominata “Benchmark Age Diversity”. Lo scopo è di studiare come valorizzare e far convivere in azienda gli over 55 e gli under 30.
L’indagine è stata curata da Renato Boccalari, Senior Advisor di Gso Company e condotta con interviste presso un panel di 14 primarie aziende: A2A, Astrazeneca, ATM, Autoguidovie, Barilla, Deutsche Bank, LVMH, Pirelli, Praxair, Prysmian, Sanofi, Save the Children, Sogei e Vodafone. Il focus è sugli effetti dell’allungamento della vita lavorativa sulle varie componenti della popolazione aziendale.
Vogliamo comprendere come le aziende stanno affrontando la sfida dell’age diversity. Il tema è considerato cruciale dal 58% delle aziende interpellate. L’area più critica è considerata soprattutto quella degli over 55: le imprese riconoscono che i lavoratori in questa fascia dimostrano in maggioranza (2 su 3) una grande flessibilità e una capacità di affrontare il cambiamento, insieme con la predisposizione a instaurare una costruttiva convivenza con i profili junior. Una parte
della popolazione senior, tuttavia, denota una scarsa disponibilità agli spostamenti territoriali e ai mutamenti di ruolo (31%). Si percepisce poi un forte timore per la competizione dei più giovani (21%) e per la perdita del know how acquisito durante il proprio percorso professionale (22%).


I senior hanno ancora un ruolo grazie a esperienza e competenze?
Questo è sicuramente l’obiettivo, dal momento che c’è un grande capitale rappresentato da manager che sono sicuramente di grande valore per le aziende. Bisogna attivare un circolo virtuoso per affiancare e integrare senior e junior. Detto questo, i senior vanno accompagnati perché chiaramente l’allungamento della vita professionale in azienda può portare a una demotivazione, oppure alla mancanza di allineamento a quello che è il cambiamento del mercato. Per questo, proponiamo dei percorsi di accompagnamento dei senior aiutandoli a divenire dei mentori o dei coach per le giovani generazioni.


Cosa emerge, invece, per i giovani?
Gli under 30 avvertono la difficoltà di collocarsi sui mercati esteri solo in minima parte (10%). Presentano in genere aspirazioni di carriera eccessive rispetto a quelle offerte loro dall’azienda: un problema che riguarda circa un terzo dei junior, ma quasi l’80% nella fascia più qualificata dei
professional. Ben il 45% esprime preoccupazioni sulla capacità di mantenimento del posto di lavoro, dopo l’assunzione.


Le imprese come stanno affrontando il tema dell’age diversity?
Dalla survey emerge come finora le aziende abbiano affrontato il problema della diversità d’età nella propria popolazione aziendale con un approccio più orientato verso l’impresa (“organization driven”), che verso la persona (“people driven”).
Sono state un po’ sottovalutati problemi e peculiarità di ogni singolo individuo. Si intravede, tuttavia, l’alba di un metodo integrato per l’Age Diversity che sappia valorizzare adeguatamente l’esperienza e le capacità degli over 55 e degli under 30. L’obiettivo è di favorire per entrambi i gruppi collaborazione e crescita in un ambiente sereno e stimolante.


(...)
E nelle vostre aziende come funziona? Ci sono problemi di questo genere e, se sì, come li affrontate?

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venerdì 26 maggio 2017

E-mail di lavoro: 7 frasi da non scrivere mai

Quali sono le sette frasi da evitare assolutamente nelle e-mail di lavoro? Ce lo racconta Business Insider.

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giovedì 25 maggio 2017

Manager: l'elogio della lentezza

Chi vive di corsa non riesce a essere creativo e questo vale anche per i manager. Ce lo racconta "la Repubblica".

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mercoledì 24 maggio 2017

In ufficio meglio il monotasking

Monotasking o multitasking? Se si parla di uffficio è meglio il primo. Ce lo racconta "la Repubblica" in questo articolo.

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martedì 23 maggio 2017

Oggi il web serve più della laurea per trovare lavoro?

(Fonte: "F")

Due esperti (Giuseppe Biazzo e Silvia Zanella) rispondono alla domanda che dà il titolo a questa discussione. Buona lettura!

«Se un’azienda cerca una fgura professionale, prima di mettere un’inserzione o affidarsi alle
agenzie, sparge la voce. Se un giovane la coglie e si candida al momento giusto, arriva al
colloquio. La rete di relazioni conta».
Come può affermarlo?
«L’abbiamo verifcato con l’esperienza. Tra due giovani che hanno gli stessi titoli, la differenza
la fa il networking, che è diventato una parte importantissima della ricerca di un posto.
Oggi i titoli di studio non bastano più, diventano obsoleti molto più velocemente che in passato. Un’azienda non si ferma al voto di laurea e analizza un candidato non solo per quello che sa – visto che dovrà aggiornarsi continuamente – ma guarda alle soft skills, le competenze umane. Perciò diventano importanti attività come il volontariato o gli sport di squadra, che prima non venivano prese in considerazione. Quando il ministro Poletti afferma che giocare a calcetto è più utile che spedire curricula a pioggia, dice una cosa giusta, magari in un modo sbagliato».
Qual è la diferenza tra una relazione e una raccomandazione?
«La raccomandazione non apre le porte del lavoro, le chiude perché si basa sul principio del vantaggio, a prescindere dalla competenza. Le relazioni invece nascono dall’attività di
networking, che ha l’obiettivo di far sapere al mercato che siamo in cerca di lavoro. In Italia abbiamo ancora una mentalità “passiva” nella ricerca di un posto. Invece, bisogna attivare tutte
le possibilità di contatto, perché moltissime opportunità nascono da relazioni inaspettate, come dimostrano le statistiche.
Partecipare a una cena in pizzeria, conoscere gente condividendo un hobby, creare contatti in rete: bisogna far sapere a tutti che siamo interessati a un’opportunità di lavoro».




«Il lavoro è cambiato: non ha più confini nazionali, non esiste il posto fsso, quasi tutti, anche a 40/50 anni, facciamo più lavori, non ci si limita al classico orario d’ufficio, leggiamo le mail professionali a tutte le ore. Questa è la premessa per capire che gli studi restano fondamentali, ma non basta più un pezzo di carta, ne servono tanti, uno sopra l’altro: oggi è indispensabile avere una formazione continua, diverse esperienze di lavoro e una robusta rete di relazioni».
Che cosa signifca crearsi un network giusto?
«I legami forti, in famiglia e con gli amici stretti, è difficile che ci offrano informazioni che noi non sappiamo già: hanno accesso alle nostre stesse relazioni. Le conoscenze utili sono quelle cosiddette deboli, di secondo livello, sia offline che online. Sembra strano, vista la disoccupazione, ma oggi le
aziende faticano a trovare i candidati giusti, perciò hanno bisogno sia di apparire sia di fare ricerca sui social».
Domanda e offerta si incontrano sui social?
«LinkedIn ha mezzo miliardo di utenti. I direttori del personale guardano i profli dei candidati e possono, in simultanea, fare il check delle loro competenze».
Come si costruisce una rete utile per trovare lavoro?
«Una rete forte non si crea in un giorno, ma andando in cerca di relazioni con ogni mezzo, dai social ai gruppi reali. Sul web bisogna aggiornare il curriculum in modo coerente e creare un proflo interessante. Un consiglio importantissimo per i giovani in cerca di lavoro: evitate di postare su Fb commenti negativi, fatti personali, stati d’animo, problemi. Tutto ciò che scrivete è pubblico ed è spesso tenuto d’occhio per scopi professionali».


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lunedì 22 maggio 2017

La reputazione è tutto

(Fonte: "L'Economia")

Si conquista negli anni e si può perdere in un attimo. È la reputazione aziendale. Come costruirla? 

Bisogna sapersi comportare bene. «La reputazione è il legame emotivo tra un’azienda e i
portatori di interesse, che in Italia sono soprattutto i consumatori», dice Fabio Ventoruzzo, director consulting di Reputation Institute, che ha svolto un’analisi sulle maggiori aziende operanti. «La reputazione si basa su quattro indicatori: stima, fiducia, ammirazione e feeling positivo. È la “pancia” che dice quanto mi sento legato all’azienda». Non stupisce, allora, se in cima alla classifica ci siano aziende che con il loro prodotto sono in grado di dare emozioni positive: dalla capolista Walt Disney alle italiane Ferrero e Ferrari, per poi passare a Lego ma anche a Lavazza e Armani. «L’analisi ha rivelato che la reputazione, nel nostro Paese, è legata più ai comportamenti dell’azienda che non alla qualità dei suoi prodotti. Quando gli italiani giudicano, guardano soprattutto agli aspetti  soft dell’azienda, come il contributo alla società. Gli italiani ritengono più importante chi si è e come ci si comporta rispetto a ciò che si vende. Il ruolo sociale, quindi, è un tema che sta diventando sempre più importante». In Italia il 66% della reputazione deriva dalla percezione che l’opinione pubblica ha dell’azienda che sta dietro il prodotto, e solo il 34% dal giudizio sul prodotto o servizio venduto. Un esempio su tutti è quello di Heineken, nel  beverage. «Ha una reputazione alta perché ha affrontato il tema del bere responsabile nel modello di business e nella comunicazione». Certo, le «buone azioni» che si compiono vanno fatte sapere. Ecco perché i
brand in cima alla classifica sono tutti grandi comunicatori. 
Se guardiamo la classifica per settori, l’ultimo è il gaming, il penultimo sono le banche e poi le utilities— con queste ultime che probabilmente scontano il fatto che comunicano al consumatore attraverso il pagamento della bolletta. «Per ambire ad avere reputazione più alta le aziende devono rispondere alle aspettative. E le aspettative cambiano a seconda del momento storico. Le banche sono state coinvolte dagli scandali e gli italiani non giudicano soltanto la solidità, ma anche la
trasparenza». Consigli? Le aziende dovrebbero determinare i temi, non subirli e stare ad aspettare che sia qualcun altro a raccontare la loro storia. 


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venerdì 19 maggio 2017

Il tuo boss non è più stressato di te


A fine giornata, il livello dell'ormone dello stress nel sangue è più alto nei lavoratori che si trovano sul gradino più basso della scala gerarchica. L'articolo è de: "la Repubblica".

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mercoledì 17 maggio 2017

Prove assurde per passare il colloquio

Business Insider ci racconta quali strane prove abbiano dovuto superare alcuni candidati durante il colloquio. Meglio essere pronti, giusto? ;)

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martedì 16 maggio 2017

I pregiudizi che ti impediscono di fare carriera

Business Insider ci racconta quali siano i 7 pregiudizi che possono influenzare negativamente la nostra carriera.

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lunedì 15 maggio 2017

Le regole per una riunione perfetta (2)

Le altre regole che riguardano una riunione e, in particolare, come parteciparvi al meglio sono le seguenti.


Arrivate alla riunione ben preparati sia a fare le domande necessarie per colmare le lacune che avete sull'argomento trattato, sia a fornire agli altri eventuali risposte ben articolate.

Accertatevi di parlare con un tono di voce abbastanza alto per essere sentiti da tutti ma non così alto da infastidire qualcuno.

Un'altra regola da seguire è quella di essere concisi, quando sarà il vostro turno di parlare, e di non ripetere ciò che avete già detto.

In ogni discussione ci sono regole non scritte. Evitate, dunque, di interrompere gli altri in maniera maleducata ma non esitate a interrompere il filo del discorso se qualcosa non vi torna e se questo è l'unico modo per rendere l'incontro efficace su un certo argomento.
Imparate, dunque, a distinguere una situazione dall'altra e a comportarvi di conseguenza.

Durante una riunione, di solito, è permesso bere quindi portatevi pure l'acqua o una tazza di caffé ma evitate di mangiare perché, oltre a non essere molto educato (a meno che il programma della riunione non preveda una pausa mangereccia) potreste anche dare fastidio agli altri.

Il telefono andrebbe tenuto in tasca e non posizionato sul tavolo perché vibrazioni e luce potrebbero disturbare gli altri.
Se proprio non potete fare a meno di ignorare eventuali telefonate di lavoro per la durata dell'incontro, accertatevi di silenziare il cellulare e di rispondere alle chiamate solamente dopo essere usciti dalla sala riunioni.

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venerdì 12 maggio 2017

Le regole per una riunione perfetta

Per partecipare al meglio a una riunione, occorre seguire una serie di regole.

Dobbiamo sottolineare che la prima cosa da fare, in assoluto, quando si partecipa a una riunione è accertarsi di essere puntuali? In teoria non dovrebbe essercene bisogno, visto che questa è la regola base del rispetto per il tempo altrui, ma è bene ribadirlo.

Anche l'abbigliamento è estremamente importante, soprattutto in certi ambienti professionali. Accertatevi di conoscere il dress code del posto dove si tiene la riunione e di non vestirvi in modo da influenzare negativamente la percezione che le persone potrebbero avere della vostra professionalità.

La terza è che, nel caso in cui - entrando nella sala dove si svolgerà l'incontro - vi accorgeste che ci sono persone che ancora non conoscete (clienti, fornitori, auditor, ecc.), è buona norma presentarsi prima che inizi la riunione vera e propria.
Se - poi - doveste accorgervi che conoscete persone che non si conoscono tra loro, procedete con le rispettive presentazioni.

A tendere per prima la mano nel caso di saluti e presentazioni, sarà la persona più alta in grado o colei che lavora nell'azienda che ospita l'incontro.

Prendendo posto, accertatevi di sedervi in maniera appropriata mantenendo una postura professionale.

Se qualcuno dovesse presentarsi a voi o se una conoscenza comune vi presentasse una terza persona, alzatevi immediatamente. Restando seduti, in questi casi, non si fa mai una buona impressione.

La prossima volta completeremo questa breve raccolta di consigli ed entreremo nel vivo di come si partecipa alla riunione vera e propria.

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Il lavoro agile conviene a tutti


Si sente tanto parlare di smart working ma di cosa si tratta esattamente? Questo articolo di "Italia Oggi" lo riassume in maniera abbastanza completa.

articolo


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giovedì 11 maggio 2017

Quando l'hobby fa il manager

(Fonte: "Business People")


Richard Branson gioca a scacchi e Bill Gates a bridge, Jack Dorsey di Twitter è appassionato di escursionismo mentre Sergey Brin di Google fa paracadutismo e Warren Buffet… sì, suona l’ukulele. Se non conoscessimo fin troppo bene chi sono e cosa fanno questi top manager, cosa potremmo dedurre dai loro hobby? Le passioni parlano di noi in maniera molto diretta, raccontano chi siamo quando ci togliamo giacca e cravatta, cosa ci piace fare davvero. Quando conosciamo gli hobby di un collega, afferriamo al volo che tipo è. E capiamo meglio perché in ufficio si comporta in quella maniera. 

Ma è davvero possibile tracciare il profilo psicologico di un manager conoscendone i passatempi? E cosa possiamo imparare dalle nostre passioni, che poi possa esserci utile sul lavoro?Che Larry Ellison, co-fondatore della Oracle Corporation, ami andare per mare o Marissa Mayer, ex a.d. di Yahoo! sia un’appassionata produttrice di prodotti da forno è forse troppo poco per poter far luce
sulla loro personalità. Però è certo che un hobby casalingo, rispetto a uno sport all’aria aperta, dice molto sulle diverse attitudini, il temperamento, i punti di forza e di debolezza di chi li pratica. «Coltivare una passione ha un interessante risvolto per la nostra vita professionale», dice lo psicologo del lavoro e delle organizzazioni Stefano Verza, «perché comporta un allenamento mentale continuo che ci impegna a sviluppare e potenziare dentro di noi tutte quelle strategie mentali necessarie a reggere il confronto sia con fattori esterni, per esempio imprevisti e ostacoli, sia con fattori interni come ansia e gestione dell’errore». Allora proviamo a raggruppare i manager per quello che fanno quando… non sono manager.


Cos’hanno in comune Richard Branson e l’a.d. di Enel Francesco Starace? Probabilmente molte doti, di sicuro la passione per la bicicletta. Il fondatore di Virgin percorre in bici fino a 150 km al giorno, Starace non sappiamo, ma è un amore che condivide con molti altri: il presidente del gruppo Cir, Rodolfo De Benedetti, Mario Greco di Zurich, poi Alberto Calcagno di Fastweb, Fausto Pinarello, Matteo Arcese e Carlo Tamburi di Enel hanno tutti la passione per la pedalata.
«La bicicletta e in generale tutti gli sport individuali», dice lo psicologo Verza, «mettono a dura prova la resistenza, la fatica e la resilienza, cioè la capacità di superare un evento traumatico o un momento di difficoltà senza lasciarsi scoraggiare. Significa che in ambito lavorativo questi manager saranno in grado di esprimere tenacia e dosare le energie, dimostrando sempre un’elevata capacità di sopportare le frustrazioni». Si dedica allo sport individuale anche Laura Gervasoni. «Appena
riesco», dice la numero uno di Patek Philippe in Italia, «faccio sport, acqua gym, oppure un’oretta di running e d’inverno lo sci». Pure per Luca Colombo di Facebook Italia lo sport è stato sempre un diletto. «In passato ho praticato nuoto a livello agonistico, adesso passo in piscina almeno
un’ora e mezza al giorno tre volte la settimana. In più, vado in palestra due volte la settimana, corro e nei weekend invernali mi piace sciare».
Per Mena Marano, a.d. di Silvian Heach, lo jogging diventa anche un modo per rallentare. «Mi aiuta a pensare e ho un percorso ideale per allenarmi. È il modo per darmi la carica al mattino: per un’ora sono sola con i miei pensieri. Allo stesso tempo è una scarica di adrenalina e una forma di
disciplina». Infine Rodrigo Silveira, Country President di Gympass Italia, se non lavora fa corsa e spinning, «perché sento di trarne beneficio sia a livello fisico che mentale, ed ecco perché cerco di trasmettere questa passione a tutto il mio team».


I professionisti che si occupano di salute sono concordi nell’affermare che coltivare una passione, qualunque sia, aumenta la qualità della propria vita; permette, infatti, di sconnetterci da routine, ansia e stress garantendoci una proficua gestione dei problemi della vita. «Gli sport individuali in particolare», precisa Verza, «aiutano i manager a esercitare un controllo sulle emozioni, a mettere alla prova le loro debolezze e paure. Addirittura, lo sport duro e puro insegna ad attraversare con equilibrio momenti di euforia e depressioni spaventose. Chi lo pratica sviluppa un atteggiamento mentale fondamentale per qualsiasi business: trasformare un insuccesso in una lezione da cui imparare».


Non è un errore: chi gioca a scacchi o bridge, per gli psicologi, va messo nel gruppo di chi fa vela. Almeno per quel che riguarda la capacità di prendere decisioni molto rapidamente, l’abilità nel problem solving e nella gestione delle emozioni. Negli scacchi come in mare aperto, bisogna
saper governare con la massima efficacia la situazione e sfruttarla a proprio vantaggio senza lasciarsi sopraffare da ansia, paure o dubbi. E così sotto lo stesso cappello troviamo da un lato Larry Ellison, il co-fondatore della Oracle Corporation, che appena può esce in barca, e Matteo Arpe,
il cui hobby fruttò a Mascalzone latino la sponsorizzazione di Capitalia in Coppa America, e dall’altro Richard Branson e Bill Gates, entrambi scacchisti di un certo livello.
Cosa ci svelano questi hobby della loro personalità? E cosa possiamo imparare anche noi dalla pratica assidua di scacchi e bridge? «Nel gioco degli scacchi», ci spiega lo psicologo, «non esiste il minimo elemento di casualità e nel bridge non esiste la fortuna: la vittoria nasce dai propri meriti e la sconfitta dai propri errori. Insomma vince il migliore. Vittorie e sconfitte, oltre a essere collegate alle conoscenze scacchistiche e all’esperienza di chi gioca, dipendono in gran parte dal self-control, dalla perseveranza e da altre qualità personali, tra le quali le capacità di analisi, di sintesi, di deduzione logica, l’intuizione, l’attenzione, la concentrazione, la volontà e la gestione delle emozioni, soprattutto per non farsi sopraffare dallo zeitnot, termine che illustra la situazione in cui rimane pochissimo tempo per completare le mosse, e da errori grossolani o semplici sviste. Il bridge,
inoltre, unisce in un legame indissolubile i compagni di coppia ed esalta valori quali l’aggregazione,
la solidarietà e il fair-play».


Dicevamo di Warren Buffet che suona l’ukulele e dell’ex Ceo di Yahoo Marissa Mayer, appassionata di pasticceria.
Chissà se hanno mai passato un pomeriggio insieme. Già, perché il binomio cucina e musica è molto comune, anche fra i manager italiani. «Cucinare è un esercizio che mi rilassa e ai fornelli non penso
ad altro», confessa Dario Rinero di Poltrona Frau. Roberto Pozzi di Check Point Software Technologies, ama la musica classica e suona bene (assicura chi lo conosce), il pianoforte, passione che coltiva ai massimi livelli con Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset.
E poi ci sono quelli che non ti aspetti: Elon Musk, per esempio, che costruisce auto elettriche (Tesla) o progetta spedizioni su Marte (SpaceX) e poi quando torna a casa che fa? Hobby fantascientifico? Macché. Nel tempo libero prepara biscotti (ma bisogna anche dire che è anche un collezionista di oggetti legati a James Bond).
Ma che manager è uno che ama stare tra i fornelli, magari con lo stereo acceso? «La cucina, come la musica, è arte: il piatto bianco come uno spartito in cui iniziare a veicolare un nostro messaggio profondo o addirittura noi stessi, ma anche come possibilità di trovare nuove forme, mantenendo però sempre un forte legame tra quello che sono e quello che voglio essere oggi.
Quando una persona cucina o suona», continua lo psicologo, «mette in campo doti di autonomia, di assertività – perché decide come e cosa fare – e di esplorazione, poiché percorre campi spesso
ancora sconosciuti o prova a ottimizzare l’esistente. Chi suona musica, in particolare, utilizza una modalità di pensiero che porta a considerare le cose da punti di vista alternativi, non usuali, forse perché (come dimostrano anche ricerche scientifiche) usano entrambi gli emisferi del cervello più di quanto non faccia mediamente un qualsiasi individuo».


Gian Luca Sichel di CheBanca! viaggia per il mondo assieme alla moglie e Anna Esteve di Wtransnet col marito, in camper e motorino. È appassionato di escursionismo anche Jack Dorsey di
Twitter, mentre sul versante della meditazione e della solitudine ci sono l’italoamericano Ray Dalio di Bridgewater Associates, hedge fund più grande del mondo e il nostro Luca Crepaccioli. «Mi piace frequentare luoghi isolati», dice il numero uno di Goodyear in Italia, «per osservare il mondo così com’è stato creato e raccontato nella Genesi, quello che io definisco il mondo vero contrapposto
al mondo virtuale che abbiamo costruito noi uomini. Mi piace ammirarlo, respirare l’aria e sentirne gli odori». Bene, ora stendiamoci sul lettino dello psicologo. «Molte ricerche hanno provato che
la meditazione riduce il volume dell’amigdala, la regione del cervello dedicata alla gestione della paura e per questo si ha una evidente diminuzione dello stress durante il periodo di pratica. Liberandosi dei propri schemi mentali, delle nostre visioni abitudinarie e ristrette, si riesce a mettere insieme soluzioni e modelli di pensiero differenti senza nemmeno cercare di farlo, in sostanza si acquisisce l’approccio mentale più funzionale al raggiungimento dei risultati desiderati. La psicologia del viaggio e dell’escursione», continua lo psicologo, «è solitamente caratterizzata da varie motivazioni di base che si possono combinare tra loro, le più significative in ottica di trasposizione lavorativa permettono di staccare la spina con il quotidiano, rilassarsi, concentrarsi su se stessi e poter fare il punto della situazione con il giusto distacco, cimentarsi con nuove esperienze,
sperimentare nuovi apprendimenti e arricchirsi culturalmente». Insomma, quando si torna da un viaggio si è nuovi nell’anima, la vita cambia, si rivoluziona, il nostro io è cambiato.


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mercoledì 10 maggio 2017

L'etica entra nel curriculum

(Fonte: "Italia Oggi")

L'etica entra nel curriculum dei professionisti. Le competenze in senso stretto, infatti, non bastano più. Per trovare spazio in un mercato dove domina il criterio del minor prezzo, è necessario che i professionisti tornino a essere riconosciuti anche come eticamente corretti. Così facendo col tempo potrà essere invertito quel trend che, negli anni, ha visto sempre più i liberi professionisti perdere di credibilità agli occhi dei cittadini.

(...)

L'etica, quindi, come elemento cardine e soprattutto tangibile della relazione tra il cliente e il professionista, che sempre più spesso si trova ad operare in un mondo pieno di regole dove i valori tipici dell'attività svolta rischiano di essere messi in secondo piano. Se, infatti, è vero che l'esercizio della libera professione porta con sé un bagaglio di valori che altre attività non hanno, è pur vero che questo bagaglio di valori è difficile da trasmettere quando dominano solo le esigenze di minor costo. Ed è proprio alla luce di questa consapevolezza, unita alla necessità sentita dalle categorie di tornare a dimostrare il proprio valore morale, che nasce il progetto dell'Uni di dare vita a un Codice etico che sia costruito attarverso lo sviluppo del ragionamento dei professionisti alle prese con casi concreti al di là di quelle che sono le problematiche previste dal codice deontologico. Un obiettivo che, nel lungo periodo, dovrebbe portare all'elaborazione di una vera e propria biblioteca di dilemmi da nutrire e far crescere grazie all'apporto di tutti gli iscritti agli ordini professionali. Un progetto a cui promette di fare da sponda la prassi di riferimento Uni/PdR 21 (che potete scaricare a questo indirizzo gratuitamente fornendo i vostri dati personali) che contiene le linee guida per l'elaborazione di un codice etico quale strumento essenziale per lo sviluppo del ragionamento morale dei professionisti.

(...)

Cosa ne pensate?

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martedì 9 maggio 2017

Attenzione a parlare male del capo su WA!

Parlare male del capo su una chat di WhatsApp dalla quale lui è escluso? Attenzione...si rischia il licenziamento!
Ce na parla "Il Corriere della Sera".

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lunedì 8 maggio 2017

Gli ostacoli alla carriera che stressano gli italiani

Quali sono i maggiori ostacoli alla carriera che stressano i lavoratori italiani? Ce lo racconta "la Repubblica". 

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venerdì 5 maggio 2017

L'articolo di oggi

L'articolo che abbiamo pubblicato oggi su QualitiAmo parla di donne e lavoro e va letto nel modo giusto e con la corretta predisposizione d'animo.

Ci è stato richiesto da una lettrice (che ringraziamo) che ci ha raccontato di come, spesso, si senta discriminata nel mondo del lavoro solamente per il fatto di essere donna e che ci ha chiesto qualche consiglio per superare questa difficoltà.

Noi abbiamo provato a ribaltare la prospettiva per vedere se, in qualche modo, le donne commettono alcuni errori comuni nel mondo del lavoro che, in qualche modo, possano creare loro dei problemi.

Ci piacerebbe raccogliere anche le vostre riflessioni per ampliare, eventualmente, il campo di indagine e per mettere insieme qualche altro consiglio.

Colleghe, avete difficoltà "di genere" nel mondo del lavoro? Se sì, quali sono e come le avete affrontate e risolte?
Colleghi, cosa consigliereste alle nostre amiche alla luce dei meccanismi che vedete nel mondo del lavoro?

Avete voglia di avviare questa discussione?

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giovedì 4 maggio 2017

Mamma, ho perso la scrivania

"la Repubblica" ci racconta la nuova moda dell'ufficio itinerante.

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mercoledì 3 maggio 2017

L’infelicità si diffonde tra i lavoratori

(Fonte: "la Repubblica")

C’è una certa insoddisfazione in giro per il mondo. E colpisce anche chi un lavoro ce l’ha e ha paura di perderlo, magari per colpa del progresso tecnologico. O chi si sente trattato in modo ingiusto e attorno a sé vede sorgere nuove barriere che rendono difficile andare a cercar fortuna altrove, in un altro paese. 

Questa ‘infelicità’, che poi si traduce in disimpegno del lavoratore in azienda, è stata misurata e, per la prima volta dal 2012, è in aumento a livello globale. Solo sei lavoratori dipendenti su dieci sono soddisfatti della propria condizione (il 63 per cento contro il 65 del 2015). E in Italia questa percentuale è ancora più bassa. Siamo sotto la media con appena poco più della metà della forza lavoro che mostra di farsi in quattro per l’impresa in cui presta servizio (il 57 per cento, in calo di 6 punti dal 2015). A dirlo è la ‘Global Trends on Employees Engagement’, un’indagine condotta dalla Aon Hewitt, società del Gruppo Aon specializzato nella consulenza dei rischi e delle risorse umane. Questa multinazionale si è rivolta a un campione di 5milioni di lavoratori, ascoltando la loro opinione sulle mille imprese nelle quali erano impiegati, misurando la volontà di restare o di trovare di meglio e il livello di sforzi fatti per rendersi utili all’azienda. 

L’impressione, un po’ come in un vecchio film di Charlie Chaplin, è che la maggior parte dei dipendenti si veda sempre più spesso sacrificata sull’altare del progresso e del profitto. In un mondo sempre meno umano che non lascia via di fuga, anche alla luce della vittoria dei populisti in paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito (che ha votato per la Brexit). E questo ‘sentire’ non è un bene per nessuno. «L’insoddisfazione in azienda può procurare effetti negativi come un maggiore turnover dei lavoratori, un aumento dell’assenteismo e una minore soddisfazione dei clienti», ha commentato Enrico Vanin, amministratore delegato di Aon Hewitt Risk & Consulting. Al contrario, se i dipendenti sono soddisfatti, «migliorano le performance finanziarie, la capacità di attrarre talenti e di fidelizzare nuovi clienti». Proprio uno studio di Aon del 2013 dimostra che l’aumento di 5 punti percentuale della soddisfazione del lavoratore porta ad un aumento del fatturato di 3 punti percentuale per l’anno successivo. 

Certezza nell’impiego o quanto meno sicurezza economica è ciò che tutti cercano. Anche qui in Europa. Proprio il Vecchio Continente è all’ultimo posto nel mondo per soddisfazione percepita. Con qualche eccezione. Il Paese europeo con i dipendenti più felici è la Danimarca (il 67 per cento in crescita di 18 punti rispetto al 2015), seguita dalla Finlandia (il 57 per cento in aumento di 17 punti). La Norvegia invece registra le performance peggiori (il 54 per cento in calo dell’11). Secondo il Financial Times del 7 marzo scorso, persino in un’Olanda che si apprestava ad andare al voto, il clima era quello di un’insoddisfazione diffusa. Nonostante in quel paese lo stipendio medio sia di “circa 53mila dollari, ovvero del 38 per cento più alto che in Spagna e in Italia”. E nonostante un welfare che altri paesi possono solo sognare. Eppure a causa della grande crisi economica “la qualità del lavoro è in declino”, “e un giovane su quattro ha un’occupazione temporanea”. Inoltre anche se la disoccupazione è passata a gennaio scorso “dal 5 per cento al 3 per cento”, è più alta di quanto non fosse prima del 2008. 

I dipendenti sembrano invece più felici nei paesi dove le condizioni di vita erano peggiori in passato. In America Latina, secondo Aon, la soddisfazione è passata dal 72 per cento del 2015 al 75 per cento del 2016. L’indagine mette inoltre in luce come questa rimanga al di sopra della media globale. In Asia, malgrado il calo di engagement dei dipendenti, passato dal 65 per cento nel 2015 al 62 nel 2016, il livello di attaccamento all’azienda resta superiore a quello europeo. Il Nord America vede invece soddisfatto il 64 per cento dei lavoratori (-1 per cento). Dietro questi macro numeri si nascondono poi i dettagli. Se è vero che sei dipendenti su dieci al mondo sono contenti di ciò che hanno. Di questi appena due (un 24 per cento del campione) affermano di esserlo in modo pieno. Quattro (39 per cento) si definiscono moderatamente soddisfatti. E niente di più. L’insoddisfazione sul posto di lavoro rischia di alimentare il disimpegno degli impiegati. Fenomeno più accentuato in Italia rispetto alla media mondiale.

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martedì 2 maggio 2017

La ricetta dei consulenti per i manager “Si vince solo con la collaborazione”

(Fonte "Affari&Finanza")

«Non è solo una questione etica. Le aziende che hanno leader responsabili sono quelle che hanno i migliori risultati economici perché crescono in maniera sostenibile, senza strappi». Parola di Vince Molinaro, autore di numerosi libri sui temi della leadership e ceo della società di consulenza Lee Hecht Harrison.

I casi di corruzione e gli scandali, che si ripetono con crescente frequenza in ambito pubblico così come privato, non mettono in evidenza una crisi di leadership, prima ancora che economica?
«Sì. I frequenti scandali ai vertici aziendali evidenziano un punto: ci sono persone che ricoprono
ruoli di comando senza la giusta responsabilità.
Senza entrare nel merito di come sono arrivati a ricoprire certi ruoli, si mostrano evidentemente inadeguati nel lavorare a una crescita sostenibile delle rispettive aziende, nel coinvolgere i dipendenti, nel rispettare i principi etici che hanno rilevanza agli occhi dei consumatori».
 

Qual è la percentuale di top manager che risponde ai corretti requisiti?
«Di certo non sono molti. Mi preme precisare che le questioni riguardanti la responsabilità non
sono cose che si imparano su i banchi di scuola, ma devono essere il frutto di un continuo interrogarsi su ciò che è giusto per sé, per l’azienda e per la comunità da parte dei singoli. Quando si accetta un ruolo da top manager, nei fatti si sottoscrive un contratto».


In che senso?
«Se non ci si sente a proprio agio nel ruolo di leader, se non si è portati, occorre avere il coraggio di dire no. Altrimenti si rischia di fare danni agli altri e di vivere male la propria condizione. Al di là delle inclinazioni personali, non si può diventare un vero leader senza una forte motivazione a esserlo ogni giorno. Ecco perché ritengo fondamentale darsi degli obiettivi e verificare con costanza che la direzione sia quella giusta. Questo approccio consente di conservare la mente fredda quando si devono prendere decisioni impopolari perché queste ultime possono essere inevitabili a fronte dell’obiettivo principale di gestire l’azienda in modo responsabile».


Non c’è il rischio che un tale approccio crei eccessiva pressione sul top manager o li isoli dal resto dell’azienda?
«Mi rendo conto che l’esposizione dei miei concetti può apparire fredda, ma nella pratica si tratta
solo di darsi un metodo. Del resto, la leadership vincente – in un mondo interconnesso come l’attuale – non ammette l’isolamento. I leader devono costruire relazioni con i loro colleghi e collaboratori per essere ancora più forti. In uno scenario iper-competitivo come quello attuale, le aziende vincenti sono quelle che riescono a tirar fuori il meglio dai singoli e a veicolarlo in favore dello spirito di squadra. Ciò avviene quando si lavora davvero con un leader responsabile, impegnato, che accetta consigli».


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