venerdì 30 marzo 2018

(Fonte: "La Stampa")

Entro il prossimo decennio, il mito di un lavoro a tempo pieno in un ufficio  tradizionale  e  il  posto
fisso sarà dimenticato. Il fenomeno sarà sempre più evidente da oggi al 2025 quando i  millennial  rappresenteranno oltre il 50% della forza lavoro in Italia e negli altri paesi e la cultura aziendale sarà modulata intorno a flessibilità e a collaborazione, con una grande attenzione ai dati. 


L’Italia non è pronta 

Le aziende italiane non sono pronte, come rileva uno studio  della  società  di  ricerche Pac (Cxp Group), in collaborazione  con  Fujitsu,  che  ha intervistato  1.278  responsabili decisionali di alto profilo a livello internazionale, e si troveranno  dentro  un  ambiente cambiato, sapendo che le loro
attuali strategie sull’ambiente di  lavoro  non  sono  adeguate.
La grande maggioranza infatti lo ammette.
 

Il freno informatico
Uno  dei  risultati  più  interessanti e paradossali dello studio è che la sicurezza informatica agisce più come un freno a mano  che  come  un  facilitatore della  produttività:  più  della metà  dei  partecipanti  italiani (53%) afferma addirittura che la sicurezza informatica ha un impatto  negativo,  un  livello preoccupante.  Tre  saranno  i parametri  del  cambiamento. Più della metà della forza lavoro nelle principali economie lavorerà  in  modalità  freelance entro il 2025, con uno spostamento  massiccio  che  interesserà servizi professionali, trasporti  e  vendita  al  dettaglio. Anche i lavoratori legati a una singola  azienda  cambieranno radicalmente il modo in cui interagiscono con il loro datore di lavoro. Entro il 2025, più di un  terzo  delle  organizzazioni avrà  più  del  50%  del  proprio
personale che lavorerà da remoto. L’orario di lavoro non sarà più vincolato dalle nove alle diciotto, ma sarà più flessibile e i dipendenti cercheranno di ottenere un migliore equilibrio tra  lavoro  e  vita  privata  nel corso  della  giornata.  L’ufficio si  trasformerà  per  migliorare benessere e salute di chi vi lavora. L’ambiente fisico del posto di lavoro del 2025 sarà irriconoscibile rispetto a oggi.
 

Meno uffici
Con  i  freelance  e  i  mobile worker  le  aziende  ridurranno drasticamente  gli  spazi  degli uffici rispetto al livello attuale.
Alcune  organizzazioni  ridurranno il loro patrimonio immobiliare fino al 50% e incoraggeranno  i  dipendenti  a  lavorare all’esterno,  utilizzando  hub  di collaborazione  o  spazi  di  coworking gestiti da aziende terze. Nel 2025, le organizzazioni guarderanno  al  di  là  del  concetto di Employee experience e  adotteranno  un  approccio più  olistico  nella  valutazione delle  prestazioni  e  dell’impegno  dei  dipendenti.  Questo passaggio  richiederà  nuovi strumenti per valutare la soddisfazione complessiva dei lavoratori ed un uso diffuso dell’employee Net Promoter Score  (eNPS)  dei  dipendenti.  Richiederà anche una collaborazione  molto  più  stretta  tra  le diverse  funzioni  dell’organizzazione.
Man mano che ci avviciniamo al 2025, la tecnologia sarà solo una parte della soluzione.
La  futura  strategia  sull’ambiente  di  lavoro  dovrà  invece essere sostenuta da più iniziative congiunte tra le parti interessate  quali  risorse  umane, gestione  delle  strutture  e  IT, per adottare un approccio più integrato tra le prestazioni dei dipendenti,  il  loro  benessere, la tecnologia e l’ambiente psicologico del lavoro.


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giovedì 29 marzo 2018

Ecco perché si cambia azienda

(Fonte: "La Stampa")

Insoddisfatti  e  scontenti.  E’ questa la percezione dei lavoratori  italiani.  La  lunga  stagione
di  crisi  ha  ridotto  la  mobilità delle  persone,  costringendo molti a restare al proprio posto.
Il caso emblematico è quello degli over 60 che, a causa della riforma delle pensioni del 2012, si
sentono  i  forzati  di  un  lavoro verso il quale fanno fatica a trovare nuove motivazioni. Ma forte è l’insoddisfazione anche dei giovani che, appena usciti dalle scuole e dall’università, hanno un impatto difficile e deludente, che  spiazza  le  loro  ambizioni.
Se  però  guardiamo  le  cifre  la realtà appare diversa: le attivazioni e le cessazioni dei rapporti di lavoro nel corso degli ultimi tempi sono comprese tra 10 e 11 milioni annui, testimoniando dinamiche spesso involontarie, a volte più subite che programmate. Eppur si muove, si potrebbe  dire,  ma  il  cambiamento,  per  essere  efficace  e soddisfacente, deve essere meglio governato. Che cosa spinge
una persona a cercare un nuovo lavoro? E quando un cambiamento di lavoro si traduce davvero in un volano di motivazione? Certamente il rapporto tra retribuzione  e  soddisfazione nel lavoro è molto stretto. Ma ci sono  anche  altri  elementi  di fondo che, secondo gli esperti di transizioni  di  carriera,  rimangono costanti. «La retribuzione deve soddisfare i bisogni di ciascun  individuo  e  fornire  sicurezza  economica;  ma  retribuzione e trattamento economico devono  anche  garantire  equità»,  affermano  i  consulenti  di JobPricing nel loro Salary satisfaction  Report  2018.  Si  deve
evitare  l’insoddisfazione  che nasce nel confronto con le retribuzioni di altri colleghi in altre aziende. Tutte le differenze per le quali il lavoratore non trova spiegazione tendono a generare  insoddisfazione.  La  politica retributiva deve mettere in evidenza la relazione fra il contributo fornito (performance) e la remunerazione. Ma se il lavoratore  non  riesce  a  identificare tale relazione, il valore motivazionale  della  retribuzione  perde  efficacia  e  cresce  la  percezione  di  mancanza  di  trasparenza  e  meritocrazia.  Lo  stipendio  è  uno  degli  elementi principali di soddisfazione, ma
da solo non basta a provocare un cambio di casacca. A spingere di cambiare azienda sono anche capi e colleghi: il clima psicologico instaurato o la difficoltà di rapporto sono un volano di fuga più che una calamita. Ma anche qui, la sola antipatia non basta.  I  ricercatori  del  report hanno individuato alcuni indici.
Oggi l’indice generale di soddisfazione è in discesa, specie per chi ha solo uno stipendio fisso. Più si riceve un trattamento retributivo articolato e vario (con benefit,  bonus  e  incentivi), maggiore  è  la  soddisfazione.
Due lavoratori su cinque pensano che manchi del tutto una vera meritocrazia. I soldi per i dipendenti sono importanti: da 0 a 10 contano quasi 9. Ma la retribuzione  fissa  è  l’unico  elemento  tangibile” ad essere ritenuto rilevante: sopra l’8 troviamo delle leve definite «intangible» (relazioni, carriera, contenuto  del  lavoro,  flessibilità), più  importanti  di  retribuzione variabile, benefit o altri premi.
Sono  queste  le  leve  su  cui  le aziende  dovrebbero  investire per la «talent retention»: le relazioni con colleghi e superiori sono un fattore di fedeltà al posto di lavoro per il 44,3% delle persone; l’ambiente di lavoro è rilevante  per  il  42,6%;  l’equilibrio  tra  vita  privata  e  lavoro per il 40,9% e per il 35,8% il contenuto del lavoro svolto. La retribuzione  fissa  impatta  solo nel 31,8% dei casi.


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mercoledì 28 marzo 2018

Nell'azienda dove la disconnessione è un diritto

(Fonte: "la Repubblica")

La stanza è luminosa e confina, attraverso la vetrata, con un cortile puntellato di opere d’arte.
Poltrone, divani e cuscini ispirano relax, così come le pareti bianche.
Non si direbbe, ma siamo in una fabbrica o, meglio, in un’azienda hi-tech e in questa stanza, la
“Digital Detox”, dipendenti e manager hanno la possibilità di disconnettersi da tutto. Niente
telefonino, niente computer, niente social, niente e-mail. Solo il silenzio dei pensieri. Una chance
(e un diritto) sorprendenti se si considera che qui alla Vetrya, un centinaio di addetti, età media 32
anni e tasso di laureati al 90%, si sviluppano servizi per le reti tlc, piattaforme per la distribuzione di
contenuti multimediali, internet degli oggetti. Insomma, l’avanguardia dell’avanguardia
tecnologica. E vorrà pur dire qualcosa se l’idea della digital detox è approdata anche in questo
regno della connessione, sotto le rupi di tufo di Orvieto, a Ferrocavallo subito rinominata
“Ferrocavalley” pensando a Palo Alto e dintorni. «Abbiamo bisogno di cervelli che producano
piattaforme digitali – spiega Luca Tomassini, presidente e ad di Vetrya che ha inventato e portato
in Borsa, dopo aver guidato per un decennio il progetto internet di Telecom Italia – quindi vogliamo
creare l’ecosistema ideale. Serve che la mente dei nostri ragazzi sia libera». Una scelta di strategia
industriale, dunque, ma Tomassini conosce troppo bene l’universo digitale per non cogliere il paradosso della digital detox in un’azienda come questa: «La rivoluzione digitale è inarrestabile e sta cambiando modelli di vita, lavorativi e industriali. Porta vantaggi evidenti, ma non credo che
salverà il mondo. Anzi, devo dire che i due miliardi di utenti Facebook cominciano un po’ a
spaventare…».
Se volessimo considerare Vetrya il campione rappresentativo di cosa sta diventando il lavoro, ci sarebbe molto da riflettere. Nel bene e nel male. Palestre, biblioteche, opere d’arte in un campus circondato dal verde. Ma anche l’assenza totale del sindacato. «Internet ha disintermediato tutto», sottolinea Tomassini, introducendo un tema che nell’era dell’industria 4.0 si è fatto molto scivoloso, come hanno dimostrato l’allarme per i braccialetti di Amazon o le polemiche per la parziale
liberalizzazione del controllo a distanza del lavoro prevista dal Jobs Act. E ancora più di recente, il
nuovo contratto della scuola che ha previsto fasce orarie protette per poter contattare via mail o via
telefono gli insegnanti. In pratica il debutto, a livello contrattuale, del diritto alla disconnessione.
«L’innovazione è cosa buona e giusta – spiega Massimo Bonini, segretario della Cgil di Milano –
ma va assolutamente governata proteggendo i lavoratori. Molte aziende si stanno rendendo conto
che la disconnessione aiuta a produrre meglio e anche questo deve far riflettere. Come sindacato
ci stiamo attrezzando, soprattutto nel terziario avanzato dove le alte professionalità rendono più
complicato il nostro ruolo di rappresentanza: mi sono occupato a suo tempo dei tagli alla
Microsoft e vorrei ricordare che quando le cose vanno male solo un sindacato può aiutare i
lavoratori». In Francia il diritto alla disconnessione si è affrontato sul versante legislativo, mentre in
altri Paesi europei (Italia compresa) la tendenza è di risolvere la questione attraverso gli strumenti della contrattazione.
Senza contare il gigantesco peso di Big Data, il mercato dei dati personali che sono ormai la
principale materia prima del commercio mondiale e che ci ingaggiano nella nostra doppia essenza di lavoratori e consumatori. Ma è un inseguimento infinito, perché la velocità dell’innovazione è
incommensurabile con quella delle tutele e dei diritti. Se ne sono accorti anche nella Silicon Valley,
dove più di un guru ha iniziato a recitare il mea culpa per gli effetti incontrollabili delle piattaforme
digitali: «La crescente distrazione tecnologica è un baco della nostra programmazione collettiva - ha
spiegato Justin Rosenstein, l’inventore del tasto Like di Facebook - che dobbiamo immediatamente correggere, liberandoci da questo infinito loop di dopamina». E se lo dice lui.


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martedì 27 marzo 2018

Creare all'interno le competenze digitali

(Fonte: "Affari&Finanza")

La chiave del successo non risiede solo nell’adozione di tecnologie, ma nella creazione di nuove competenze digitali all’interno dell’azienda. Nel recente studio di Porsche Consulting “Digital Machinery Decoded”, il 76% degli executives intervistati su un panel di 50 produttori di macchine industriali in Germania, Svizzera ed Italia individua una maggiore esigenza di competenze digitali in
aree diverse da quelle tipicamente produttive, quali ad esempio la customer experience: l’83%
degli intervistati pensa che un ruolo chiave possa essere svolto dai “customer services” intesi come interfaccia digitale con i clienti e customer journey digitale.
Secondo la ricerca, il 79% degli executive intende inoltre investire nella creazione di competenze in aree strategiche quali nuovi prodotti digitali e servizi connessi che impattano sull’evoluzione del modello di business. «In un contesto dove la competizione è cross-settoriale - dice Josef Nierling, ad di Porsche Consulting - flessibilità e capacità di trovare soluzioni agili che consentano ai modelli di business di evolvere in sincronia con continui mutamenti di scenario sono la chiave per il successo. Per questo la capacità di stimolare la creatività all’interno dell’organizzazione e generare innovazione saranno sempre più priorità strategiche anche in settori tradizionali come quello
dei produttori di macchine industriali». Chi saprà cavalcare la rivoluzione digitale potrà ottenere simultaneamente un aumento del fatturato (dal 15 al 30%) e una riduzione nei costi operativi (dal 20 al 40%), secondo lo studio.
I produttori di macchine industriali europei, ed in particolare italiani, sono leader in termini di qualità, affidabilità e flessibilità. È una manifattura che ha saputo crescere con successo nella complessa area competitiva internazionale facendo leva sulla capacità di lavorare “su misura” mantenendo l´efficienza. Tuttavia, il vantaggio competitivo non è più sostenibile nel lungo termine
e solo chi è capace di adattarsi a scenari di mercato in continuo mutamento potrà avere successo.
La rivoluzione digitale ha già trasformato in modo radicale i media, la finanza ed il retail e oggi sta obbligando settori consolidati come l’automotive a profonde riflessioni rispetto al modello di business. Inoltre, ha creato nuove aree di business come la smart home, creando piattaforme di collaborazione cross-settoriali e opportunità anche per player di nicchia. Anche i settori tradizionali come quello dei produttori di macchine troveranno nell´innovazione la chiave del successo.
In primis, secondo Porsche Consultimg, si deve porre attenzione all’evoluzione delle aspettative dei clienti finali, sempre più orientati a un grado di personalizzazione molto spinto. Inoltre, la rapidità con la quale gli ecosistemi digitali evolvono, permette a nuovi competitordi assumere un ruolo predominante con estrema velocità, ma anche una forte collaborazione tra aziende di settori diversi. Infine, la disponibilità di nuove tecnologie a basso costo consente ai produttori di macchine industriali di ridisegnare l’eccellenza operativa.


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lunedì 26 marzo 2018

Più produttivi se in ufficio ci si veste casual

(Fonte: "Affari&Finanza")

L’abito non fa il monaco, e nemmeno il buon lavoratore. Anzi: uno studio condotto dalla
Stormline, storica azienda inglese specializzata nella produzione di abbigliamento tecnico
impermeabile, rivela che il 61% dei dipendenti è più produttivo se ha la possibilità di vestire in modo
“casual”. Che poi l’inclinazione personale non sempre vada a braccetto con le esigenze (di azienda e mentali) dei manager, è un altro paio di maniche, in questo caso eleganti: da una ricerca condotta su 2000 persone dalla Simon Jersey, specializzata in divise da lavoro, emerge infatti che il 37% dei dirigenti sceglie di non promuovere chi si veste inadeguatamente, e che ben il 65% dei dipendenti sospetta di non aver ricevuto la promozione proprio a causa del proprio stile sartoriale disinvolto. C’è insomma da mettersi le mani nei capelli (a patto che siano puliti e ben pettinati), ma per
quanto le vecchie abitudini sian dure a morire, basta dare uno sguardo al look informale di personaggi come Sergio Marchionne (FCA) e Mark Zuckerberg (Facebook), Marissa Mayer (Yahoo!) e Mary Barra (General Motors), per capire che l’aria sta cambiando anche ai piani altissimi. “Il dress-code aziendale si è evoluto seguendo il mutamento di costume della società: un tempo – spiega Monica Nolo, direttore generale di Confart Liguria - tailleur e cravatta erano per eccellenza sinonimi dell’eleganza. Oggi la moda ci ha abituati a modelli meno formali.
Questo non significa che non si richieda ai dipendenti l’osservanza di regole, solo che sono meno rigide”. Secondo Federico Capeci, CEO di Kantar, a essere cambiato è molto più lo stile dei manager che quello degli impiegati in generale. “Il vestito rispecchia le nuove attitudini che le
aziende chiedono ai manager: agilità, modernità, sostanza. Il dress-code attuale riflette questi elementi e abbandona le cravatte, gli status symbol, ed è pensato per dare confort da un lato e posizionamento sui valori della contemporaneità e del futuro dall’altro”. Le aziende di successo, in effetti, sono oggi quelle di matrice digitale, guidate spesso da giovani e da persone dal piglio non convenzionale. “All’interno di queste realtà lo stile manageriale va di pari passo con quello personale e di abbigliamento”, conferma Capeci.
“Solo in alcune realtà manifatturiere sopravvivono costrizioni legate al dress-code, spesso per ragioni gerarchiche e perché queste sono ancora purtroppo caratterizzate da livelli e distinzioni tra
blue e white collar”. Ma qual è stato l’elemento scatenante di questa – chiamiamola così – “rivoluzione”? “Sicuramente i cambiamenti culturali e sociali in questo senso sono partiti dagli Stati Uniti con il Casual Friday, che esisteva già 20 anni fa – spiega Giovanni Pedone, country manager Italia di Lee Hecht Harrison – e da una progressiva maggior necessità di risultati effettivi e
non più di rappresentazioni autoreferenziali, cresciuta di pari passo col desiderio di manifestare la propria immagine al di là del vestito, attraverso una miglior condizione fisica ed emotiva”. Un grosso contributo l’ha dato, inoltre, la diffusione di nuovi strumenti di lavoro e comunicazione quali video-conferenze e riunioni via web. “Tutto questo – precisa - ha inevitabilmente ridotto la
necessità di seguire dress-codes troppo rigidi e formali”. La questione rimane di primaria importanza, tanto che un’organizzazione inglese  fornisce a chi ne ha bisogno la “interview suits”, cioè la corretta uniforme per un colloquio di lavoro. I settori legati all’Information Technology, alla comunicazione, alla grande distribuzione e al marketing sono quelli dove il passaggio dal vecchio al nuovo modo di pensare è più evidente; nel mondo finance, legal e della consulenza di alta
direzione esistono invece ancora forti legami con schemi più tradizionali. “Da segnalare anche come questa tipologia di cambiamento abbia impattato maggiormente il genere maschile, mentre quello
femminile aveva, come spesso accade, già da tempo superato e anticipato il trend attraverso codici che, pur mantenendo e sottolineando l’eleganza e il decoro, permettevano di personalizzazione e di
sentirsi a proprio agio”, conclude Pedone. Le donne, insomma, sono sempre state un passo avanti, con o senza tacco. Anche se a dire il vero è l’Italia tutta che, in questo campo, merita una menzione d’onore. “Il cambiamento è più evidente in Paesi di matrice anglosassone quali la Gran Bretagna e
gli Usa, dove il dress-code in molti casi era davvero parte del regolamento aziendale. Da noi – conclude Nolo - si è sempre stati più inclini ad accettare che i dipendenti adottassero un look “casual
chic”, che consentisse una certa comodità senza venire meno alla forma”.
Con o senza volerlo, abbiamo sempre dato retta a Coco Chanel, la stilista che cambiò il modo di
vestire della sua generazione: “Per essere insostituibili bisogna essere diversi”. E vista la fame di creatività delle imprese, c’è da augurarsi che la diversità invada davvero gli uffici, di pari passo con
qualità e sostanza, abilità che un abito non potrà mai né nascondere né valorizzare.


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venerdì 23 marzo 2018

Un manager per amico

(Fonte: "Il Corriere della Sera Economia")

Il tasso di imprenditorialità nel nostroPaese rappresenta da sempre un grande fattore di generazione e redistribuzione della ricchezza. La solidità della nostra economia risiede essenzialmente in un modello socio-economico basato ancora oggi sulla figura dell’imprenditore che con la sua energia, visione e determinazione crea ricchezza. L’imprenditorialità, riesce spesso anche a compensare gli «svantaggi di sistema» come l’elevata fiscalità, le inefficienze della pubblica amministrazione, la mancanza di infrastrutture, i ritardi della giustizia. Nelle aziende imprenditoriali italiane storicamente il «fare» ha sempre contato di più del «pianificare». Un dinamismo che ha sempre implicato una certa disaffezione per forme di governance più strutturate.
Eppure questa vitalità, negli ultimi anni è stata messa a dura prova da globalizzazione e da innovazione tecnologica pervasiva.
Questi fenomeni rappresentano una grande sfida soprattutto per quel nucleo di medie imprese con ricavi che superano la soglia dei 100-200 milioni di euro, sempre più consistente anche da un
punto di vista quantitativo, che si trovano spesso ad un bivio «esistenziale»: provare a crescere anche dimensionalmente ed a imporsi sui mercati globali oppure prendere in considerazione il passaggio di mano ad altri investitori (spesso esteri) o a imprese concorrenti.


Competenze...
In questa fase, per molte di queste imprese il vero salto di qualità passa anche dall’adozione di modelli organizzativi e competenze manageriali che sembrano più adatte a gestire la complessità dello scenario attuale. Però imitando tout court modelli culturali anglosassoni si rischiano spesso reazioni di rigetto. Occorre piuttosto elaborare delle sintesi originali, valorizzando i nostri punti di forza ma aprendosi contemporaneamente anche ad apporti di nuove professionalità.
In questa prospettiva nel tessuto delle medie imprese italiane serve un robusto innesto di competenze manageriali soprattutto nella gestione delle relazione a valle con i mercati. Ma servono figure in grado di inserirsi con capacità di ascolto all’interno del particolarissimo humus culturale della media impresa italiana, rispettando il ruolo e la personalità dell’imprenditore. Manager che propongano obiettivi intermedi e risultati misurabili. In grado di avviare percorsi di cambiamento combinando efficienza ed efficacia. Abilitando la trasformazione delle architetture organizzative senza svilire il Dna originale dell’impresa. Favorendo processi di collaborazione interfunzionali e lo sviluppo di partnership con soggetti esterni (università, centri di ricerca, etc.). Soprattutto, non si tratta più solo di fornire solo un supporto di competenza tecnica su uno specifico ambito ma di essere dei veri e propri business partner per l’imprenditore, suggerendo contributi di idee e strategie per lo sviluppo a 360 gradi. Basti pensare a responsabili dell’Ict (Cio) e/o ai responsabili della finanza aziendale (Cfo) solo per citare alcuni ruoli. Non possono più limitarsi alla gestione delle infrastrutture informative e al reporting. Devono fornire spunti operativi anche accompagnando le imprese verso nuovi modelli di business più «data driven».
 

... e pragmatismo
I manager devono quindi immergersi nella cultura imprenditoriale e diventare essi stessi degli imprenditori: propositivi, portatori di nuove idee e non solo di sofisticati modelli di compliance formale. In questa prospettiva forse si può immaginare un italian way manageriale, fatto di pragmatismo e di un approccio magari meno strutturato ma comunque focalizzato sul risultato finale. In ogni caso bisogna evitare il clash culturale e la conflittualità con la proprietà che troppo spesso caratterizza l’inserimento di nuovi manager nelle aziende, soprattutto nelle medie. Con la
conseguenza che gli imprenditori si rifugiano su un middle management fedele, ma non sempre all’altezza della sfida del momento.


I modelli
Uno dei temi caldi per gli imprenditori è come attrarre queste figure di eccellenza. Un modo può essere quello di puntare su elementi valoriali come la qualità dell’ambiente di lavoro e la
stabilità professionale, che la media impresa italiana può offrire. Alcune delle aziende italiane che sono cresciute di più nell’ultimo decennio come Campari, Brembo, Amplifon, Coesia, Zambon, Granarolo, Salini-Impregilo, solo per citare alcuni nomi noti, sono esempi virtuosi di questa capacità di attrarre manager di qualità che hanno poi impresso una decisa accelerazione alla crescita aziendale. La strada da seguire è quella della contaminazione e dell’osmosi reciproca: manager che assorbono lo spirito del fondatore, reinterpretando in chiave imprenditoriale metodologie ed approcci con imprenditori/azionisti che si affidano ai manager liberandosi dall’ossessione del controllo.


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giovedì 22 marzo 2018

I 6 pilastri della crescita

(Fonte: "Il Corriere della Sera Economia")

I numeri dei «500 Champions» parlano da soli. Un fatturato aggregato di oltre 20 miliardi e 4 miliardi di ebitda. Rapporti nettamente superiori a quelli di tanti colossi. Ma al di là delle cifre, dalle testimonianze degli imprenditori intervistati per l’indagine emerge un altro fattore: la netta discontinuità di modelli rispetto a quelli più comuni che contraddistinguevano le aziende negli anni precrisi In questo «scarto», abbiamo individuato alcuni tratti comuni.
 

1) Il valore del capitale umano. 
Le persone rappresentano l’asset più importante, quello in grado di produrre valore nel tempo e di mantenerlo. La logica di questi imprenditori è: sono le persone a «fare» le aziende.
 

2) Il cliente al centro. 
Non solo scelte di customizzazione e capacità di rispondere in modo flessibile alle sue esigenze, ma anche un servizio ineccepibile e parte ntegrante del prodotto. 

3) Il posizionamento di nicchia. 
La scelta dell’iperspecializzazione può riguardare i prodotti, ma anche i canali o i modelli distributivi, così come il segmento di mercato. Le nicchie difficili da presidiare per i gruppi globali sono terreno d’elezione per i Champions.

4) La capacità di scegliere e andare controtendenza.  

Le nuove imprese pianificano e investono su orizzonti lunghi, anticipano il cambiamento e, spesso, lo impongono. 

5) La focalizzazione sulla propria attività.  
Sono aziende con una forte patrimonializzazione, che reinvestono gli utili in azienda e sono totalmente autonome dal sistema bancario: vogliono essere in grado di sfruttare le fasi di crisi per consolidare il posizionamento competitivo. Perciò investono continuamente in tecnologia e risorse umane, a prescindere dagli incentivi governativi. L’attenzione ai margini è quasi ossessiva, anche a scapito di una crescita superiore a quella (notevole) che già realizzano.

6) Valorizzazione spinta del made in Italy, inteso come «stile e cultura del prodotto». 

Spesso la scelta è produrre con filiere «corte» e sviluppare modelli di integrazione verticale»,
attraverso la costituzione di gruppi industriali che integrano ogni segmento del processo produttivo.
Tutti questi fattori hanno consentito il consolidamento di un enorme vantaggio rispetto al resto delle imprese proprio negli anni della crisi, dal 2010 al 2016. L’indipendenza dal sistema finanziario ha reso questi imprenditori liberi di investire e rafforzare il proprio posizionamento mentre, attorno a loro, chi aveva fatto uso (spesso molto spinto) della leva finanziaria riduceva inevitabilmente le risorse destinate a innovazione e sviluppo. E la sfida con le global companies è stata giocata evitando lo scontro diretto sulle quantità e sui costi di produzione, ma portando la competizione sul terreno della customizzazione, dell’iperspecializzazione, del customer service ad alto livello. Un esempio per tutti? La bergamasca Kask compete negli Stati Uniti con i colossi del settore vendendo i propri caschi per la sicurezza nei cantieri edili a 130 dollari contro i 10 dollari dei loro concorrenti. I risultati? Da 5 a 35 milioni di fatturato in 6 anni e un un’Ebitda del 21%.


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mercoledì 21 marzo 2018

Produttività: perché cala?

(Fonte: "Corriere della Sera Economia")

Produttività. Gira e rigira, il problema sta tutto qui. La produttività dell’Italia non cresce. Anzi, per dirla tutta, addirittura scende: come ha spiegato l’Istat, nel 2016 la produttività dell’Italia è diminuita dello 0,4%. Complessivamente nel periodo 1995-2016 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%. Troppo poco. Come ci ricordano i risultati raggiunti nello stesso periodo dagli altri Paesi europei: più 1,5% in Germania, più 1,4% in Francia, più 1,5% nel Regno Unito. Al nostro passo , nelle retrovie, c’è soltanto la Spagna che comunque fa meglio di noi: più 0,5%.
Cosa non va? Che cosa si è inceppato, già alla fine degli Anni 90, nella macchina Italia? A questa domanda da un milione di dollari cerca risposta il rapporto del McKinsey global institute «Risolvere il puzzle della produttività: il ruolo della domanda e la promessa della digitalizzazione». Già dal titolo si capisce quale è il ricostituente che potrebbe farci ripartire di slancio: la digitalizzazione della produzione. Per McKinsey nelle economie sviluppate nei prossimi dieci anni la produttività ha un potenziale di crescita medio annuo del 2%, purché si sfrutti al massimo l’ abbrivio della digitalizzazione e si promuova la domanda.


La ricetta
Insomma, c’è un treno da prendere e il capostazione sta per fischiare la partenza. Per comprendere il
ragionamento di McKinsey, bisogna partire dai fondamentali scritti sui manuali di economia. E ricordare che la produttività del lavoro è il rapporto tra il valore aggiunto prodotto e le ore lavorate. In altre parole: la quantità di prodotto per ora lavorata. Viene da sé che, a parità di valore aggiunto, la diminuzione delle ore lavorate favorisce l’aumento della produttività. Bene: in Italia dal 2010 al 2016 le ore lavorate sono diminuite. Ma questo non è bastato a compensare una diminuzione ancora maggiore del prodotto.
Morale: il tasso di crescita della produttività che sfiorava il 2% medio annuo in Italia nel periodo 1985-2005 è sceso fino ad attestarsi a crescita zero nel quinquennio 2010-2016.
Come spiegano i bigini di economia, la produttività del lavoro è influenzata da diversi fattori. Il primo è la qualità del lavoro: se a una saldatrice lavora un maestro d’asilo invece di un tecnico specializzato è chiaro che a parità di tempo si produrrà di meno. Poi c’è l’intensità di capitale: se per svuotare una piscina ho a disposizione un secchio impiegherò più tempo dei concorrenti che possono contare su un’idrovora. Certo l’impresa deve però investire in mezzi di produzione appropriati. Bene: in Italia nel periodo 2010-2013 il tasso di crescita dell’intensità di capitale è diventato negativo — meno 0,2% mentre la qualità del lavoro è rimasta sostanzialmente stabile. Secondo McKinsey, da qui in avanti aumentare gli investimenti vuol dire spendere in digitalizzazione. Anche perché — spiega il rapporto — l’Europa opera in media al 12% del suo potenziale di digitalizzazione mentre gli Usa sono un po’ più avanti di noi: 18%.
«Se il potenziale di crescita della produttività nei prossimi anni è del 2%, il 60%, quindi più della metà, dipende dalla capacità di digitalizzare i processi produttivi — spiega Massimo Giordano, managing partner area Mediterraneo di McKinsey —. Bisogna uscire dalla sindrome del “già lo facciamo” oppure “questo va bene in Cina, da noi no”. L’Italia è ancora molto indietro nella digitalizzazione. Pensiamo al retail: le vendite online cubano solo il 3% contro il 14% nel Regno
Unito».


Settori chiave
Ma non sarà che gli animal spirits degli imprenditori si sono fatti addomesticare? «Non direi —risponde Giordano —. Sono tanti i casi di start up di successo anche da noi. È vero che negli ultimi anni abbiamo assistito a un enorme calo degli investimenti. Ma l’eco-sistema intorno alle imprese non ha aiutato. Inoltre va sempre ricordato che la media non rende giustizia a un gruppo di imprese italiane all’avanguardia, che fanno della produttività e della qualità la loro forza». Secondo Giordano oggi il Paese dovrebbe ripartire da questa agenda: «Digitalizzare il settore pubblico, aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo di prodotti eservizi innovativi, portare il digitale nelle pmi, investire in infrastrutture digitali, sfruttare l’enorme potenziale dei dati che abbiamo cominciato a raccogliere tramite tecniche di advanced analytics». Una parte interessante dello
studio sottolinea la necessità, per aumentare la produttività, di intervenire sulla domanda. Bassa domanda significa minore stimolo a investire. I salari inchiodati all’origine della stagnazione della domanda, poi, «deprimono l’esigenza di sostituire il lavoro con il capitale», spiega lo studio. Fondamentale sarebbe una politica industriale in grado di favorire lo sviluppo in settori ad alto valore aggiunto e alta produttività. «Il percorso della digitalizzazione è avanzato in finanza, nell’Ict, nei media e nei servizi professionali, mentre è ancora molto indietro in ambiti come education, salute, costruzioni», fa il punto Giordano. Dove bisognerebbe investire allora? «Nell’automotive con elettrificazione, connettività, mobilità condivisa. Nella digitalizzazione dei processi produttivi
della finanza. Nel commercio, spostando l’attenzione su e-commerce e analisi dei dati. Ma anche nel turismo per quanto riguarda offerta condivisa, agenzie viaggio online, intercettazione flussi da Paesi emergenti». Insomma, nessun settore è escluso. E stavolta il futuro è già qui.


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martedì 20 marzo 2018

17 modi per rovinarsi la salute in ufficio

"Il Corriere della Sera" ci spiega quali sono i diciassette modi per rovinarsi la salute in ufficio. Cambierete qualche vostra abitudine? ;)

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lunedì 19 marzo 2018

Risorse umane, c’è un ritardo tecnologico

(Fonte: "Affari&Finanza")


La rivoluzione digitale stenta a entrare nella stanza del direttore risorse umane. È la conclusione alla quale si arriva leggendo un report realizzato da Adp e Idc, che Affari & Finanza pubblica in esclusiva.
Gli analisti delle due società – la prima specializzata  in  human  resources  outsourcing e soluzioni per l’amministrazione del personale, la seconda in ricerche di mercato – hanno intervistato ben 2.022 decision maker del settore risorse umane in otto Paesi europei, tra cui l’Italia, rilevando che oltre un quinto (per l’esattezza il 22 per cento) dei processi di human capital managementè ancora gestito manualmente e non tramite tecnologie apposite, che pur esistono e sono reperibili.
Eppure, tra i responsabili risorse umane non manca la consapevolezza di quanto sia importante collaborare con chi in azienda si occupa di information technology,in modo da migliorare i processi in direzione di una maggiore efficienza.
Ma passare dalla percezione delle priorità alle strategie  concrete di azione evidentemente non è facile, soprattutto se si è abituati a lavorare in un certo modo da decenni. Solo il 28 per cento dei capi delle risorse umane afferma di coinvolgere gli It manager nelle decisioni di soluzioni per la gestione del personale. «Il risultato - spiega Lucia Bucci, hr director di Adp Italia - è che spesso le
aziende non riescono a sapere esattamente cosa stanno facendo i propri dipendenti, secondo quali modalità (in termini di produttività) e, sovente, perfino perché lo stanno facendo (con evidenti implicazioni sui fattori di coinvolgimento professionale e di motivazione). Addirittura, alcune divisioni di risorse umane non sanno nemmeno quanti dipendenti  hanno  in  un  preciso momento, specialmente se sono presenti lavoratori interinali e a progetto».
Il problema non riguarda solo le aziende più piccole: infatti, il 37 per cento dei dati gestiti dalle
imprese  di  media  grandezza è ancora affidato a Excel o a database affini.
Un’evoluzione  nell’approccio alle tecnologie non è più rinviabile, conferma Christian Vasino, ceo e fondatore Chaberton Partners  (società  di  executive search operativa. «La digitalizzazione  ha  fortemente  mutato  il ruolo di chi si occupa di risorse umane e lo ha fatto in maniera positiva, perché i big data e gli algoritmi predittivi sono una vera e propria miniera di opportunità», sottolinea
l’esperto. «Saper usare bene le tecnologie disponibili e i data analitics consente al direttore delle risorse umane e al suo team di poter calcolare  anticipatamente  quali  decisioni prendere»
Un esempio? «Tramite gli algoritmi predittivi è possibile calcolare quando si verificheranno dei picchi di assenteismo in azienda (come accade in occasione delle malattie stagionali) e quindi agire prontamente senza farsi  trovare  impreparati,  conclude  Christian Vasino.


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venerdì 16 marzo 2018

Il robot in fabbrica non deve far paura

(Fonte: "la Repubblica")

Il rapido progresso tecnologico, dalla automazione delle fabbriche alla diffusione dei robot intelligenti, alla crescita della digitalizzazione, fino all’intelligenza artificiale, è percepito dall’opinione pubblica della maggior parte dei paesi occidentali come una minaccia profonda al futuro del lavoro.
Ogni giorno i media riportano esempi di come le opportunità di lavoro si ridurranno drasticamente nei prossimi decenni a causa delle nuove tecnologie. Sembra che tutti i mestieri e le professioni siano a rischio, dal camionista al medico, dal bancario all’avvocato, dal gestore di fondi al consulente: a breve sarà un computer a guidare le auto e i camion, a fare le diagnosi e curare le malattie, a gestire le nostre finanze, ad offrire opinioni legali e a scegliere titoli in cui investire. Persino la professione di giudice potrebbe essere a rischio. Uno studio recente dell’economista di Harvard Sendhil Mullainathan dimostra che gli algoritmi dell’intelligenza artificiale sono in grado di comminare sentenze nei processi penali meglio del giudice medio, perché riescono a prevedere con più precisione le probabilità di reiterazione del reato.
Il quadro che emerge dai resoconti dei media, sia in Europa che negli Stati Uniti, è profondamente inquietante, perché descrive un mondo in cui le macchine sostituiscono gli esseri umani nelle fabbriche e negli uffici a ritmo sempre più accelerato. Man mano che i computer diventano più potenti e l’intelligenza artificiale più sofisticata – si racconta - le aziende si libereranno di un
numero sempre maggiore di figure professionali. Il futuro che viene prospettato vede diminuire le possibilità di impiego per la maggior parte dei lavoratori “normali”, professionisti compresi. Il
bestseller “The Second Machine Age” di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, esemplifica l’opinione dominante. Sostiene che il progresso tecnologico, nella sua corsa inarrestabile, lascerà indietro milioni di persone e che i decenni futuri saranno durissimi per i lavoratori dotati di competenze
e abilità “ordinarie”, perché i computer, i robot e altre tecnologie digitali acquisiscono quelle competenze e abilità a un ritmo straordinario.
Non sorprende, allora, che ci sia una preoccupazione profonda nell’opinione pubblica di molti
paesi occidentali. I sondaggi ci dicono che sia in Europa che negli Usa la maggioranza dei
cittadini percepisce il cambiamento tecnologico come una minaccia ai propri mezzi di
sostentamento, più che come fonte di opportunità.
Paradossalmente, a due secoli dalla pubblicazione del Capitale di Marx e a vent’anni dal crollo
dei regimi comunisti, la teoria marxiana secondo cui l’automazione è destinata a impoverire i lavoratori eliminando la domanda di manodopera non ha mai goduto di tanta popolarità e diffusione.
In realtà, il futuro del lavoro è probabilmente meno fosco e certamente più complesso e
interessante di come viene normalmente presentato.
Il rapido progresso tecnologico e il suo effetto sul mondo del lavoro non sono una novità degli
ultimi anni, ma sono presenti nelle economie occidentali fin dagli esordi della Rivoluzione
Industriale. Messo in prospettiva storica, il cambiamento tecnologico che stiamo attraversando in questi anni non é uno dei più profondi.
Nel 1918, esattamente un secolo fa, il 60 per cento della manodopera italiana era impiegata in agricoltura. Oggi in quel settore resta solo il 5 per cento degli occupati. Nuove tecnologie che fanno
risparmiare manodopera – dai trattori ai fertilizzanti chimici – hanno decimato l’occupazione
nel settore che un secolo fa era quello principale dell’economia italiana. Queste tecnologie
permettono ad un numero piccolissimo di operai agricoli di fare oggi il lavoro che milioni di
persone facevano a mano un secolo fa. Rapportato alla forza lavoro attuale, si tratta di un calo di 13 milioni di posti di lavoro. Ovviamente non significa che il mercato del lavoro italiano abbia perso quel numero di occupati in maniera permanente. Nei decenni successivi, nuove industrie e nuovi mestieri sono stati creati e hanno assorbito i 13 milioni di persone che altrimenti avrebbero lavorato in agricoltura.
Lo stesso vale per il settore manifatturiero. Al suo apogeo nel 1985, impiegava un terzo della manodopera italiana. Oggi l’occupazione del settore si è ridotta di più della metà. Il lavoro operaio continua a diminuire anno dopo anno come conseguenza dell’automazione delle fabbriche.
La stessa tendenza è presente in tutte le economie avanzate, dagli Usa al Giappone, dalla Francia alla Germania. Nelle fabbriche moderne i robot sono sempre più diffusi, e si impiegano sempre meno umani.
Nel nuovo stabilimento Tesla della Silicon Valley, in cui si producono le auto elettriche più
avanzate che esistono sul mercato, ci sono robot che stanno costruendo i robot che assembleranno le vetture del nuovo modello.
Nonostante queste profonde trasformazioni in agricoltura e manifattura, il numero complessivo di posti di lavoro non sta diminuendo nelle economie occidentali. In Italia, come in tutti gli alti paesi
sviluppati, la percentuale degli occupati sulla popolazione totale è più alta oggi rispetto a
cent’anni fa. La percentuale dei disoccupati subisce fluttuazioni cicliche – cresce nelle fasi di
recessione e diminuisce in quelle di espansione – ma non aumenta nel lungo periodo.
Com’è possibile? Perché nonostante i milioni di posti di lavoro perduti, prima in agricoltura e poi in manifattura, le economie moderne registrano un tasso di occupazione costante o in crescita?
I motivi fondamentali sono due e vengono spesso trascurati nel dibattito sugli effetti del progresso tecnologico.
Innanzitutto l’impatto delle nuove tecnologie sull’occupazione non è univoco, ma è duplice, come ha
dimostrato l’economista del Mit David Autor. Da un lato l’automazione si pone come sostituto della manodopera.
Molte, probabilmente la maggior parte, delle tecnologie impiegate sul luogo di lavoro sono introdotte per risparmiare manodopera.
Che si tratti di catene di montaggio automatizzate, di trattori o di algoritmi di intelligenza artificiale,
l’obiettivo principale delle nuove tecnologie è sostituire la manodopera umana con quella
automatizzata, per ridurre il costo del lavoro. Ma l’automazione ha anche un ruolo complementare alla manodopera, nel senso che ne aumenta la produttività e di conseguenza accresce la domanda di certe tipologie di lavoratori.
Il primo effetto produce una riduzione dell’occupazione e dei salari, il secondo un aumento.
Se l’opinione pubblica dei paesi industrializzati nutre sempre più timori nei confronti del
progresso tecnologico è perché i media e il dibattito pubblico tendono a concentrarsi sul primo effetto, quello negativo, ignorando completamente il secondo, che è invece positivo.
In molti casi il secondo effetto è più forte del primo. Un esempio interessante è rappresentato dal
settore bancario.
Una delle innovazioni tecnologiche più importanti in questo settore è stato il bancomat, inventato per
risparmiare manodopera e ridurre il costo del lavoro per le banche, consentendo ai clienti di prelevare denaro ed eseguire molte operazioni senza bisogno dell’ausilio di un impiegato.
Sarebbe logico attendersi che l’introduzione del bancomat abbia ridotto significativamente il numero di posti di lavoro dei bancari, o persino che li abbia azzerati. Ma l’economista James Bessen ha scoperto che invece di ridurre l’occupazione, l’introduzione del bancomat ha causato un aumento di 50.000 posti di lavoro negli Usa.
Bessen sostiene che la riduzione del volume delle tradizionali operazioni di cassa allo sportello ha dato l’opportunità ai cassieri di specializzarsi in nuove funzioni di “rapporto con la clientela”. Da quando è stato inventato il bancomat, le banche utilizzano sempre di più gli addetti allo sportello per
stabilire un rapporto col cliente, informandolo su servizi supplementari come carte di credito, prestiti e prodotti finanziari. Questo esempio non è unico: molte altre innovazioni introdotte sul luogo di lavoro hanno un effetto analogo sul tipo di mansioni e di specializzazione degli impiegati.
Un ulteriore importante motivo per cui il mercato del lavoro delle economie moderne tende a creare nuova occupazione quando la tecnologia distrugge le vecchie occupazioni è la crescita della domanda di servizi. Anche quando distruggono posti di lavoro, le nuove tecnologie aumentano la
produttività del lavoro, e quindi i salari, facendo crescere di conseguenza la domanda di servizi. Negli anni Cinquanta un operaio della General Motors produceva in media sette auto l’anno. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, ne produce 29. Significa ovviamente che oggi alla General Motors ci sono meno operai che producono auto, ma significa anche che quelli rimasti sono più produttivi e ricevono salari più elevati. Questo comporta un aumento della domanda di servizi e quindi nuovi posti di lavoro, ma al di fuori del settore manifatturiero. L’occupazione nei settori della cultura,
dell’intrattenimento, della ristorazione, dell’estetica e del fitness cresce a ritmi molto rapidi.
Negli Usa ad esempio l’industria della salute è il settore dei servizi che ha registrato il più rapido incremento occupazionale, assorbendo ogni anno milioni di nuovi dipendenti. In tutti i paesi
occidentali, maggior reddito significa maggiori spese per la salute, il benessere e la cultura.
Il mercato del lavoro non è quindi un soggetto statico e nuovi posti di lavoro e nuove occupazioni tendono ad emergere e a sostituire quelli perduti.
I media offrono una visione pessimistica e monodimensionale del futuro del lavoro, una visione che
contrasta con l’esperienza delle rivoluzioni tecnologiche degli ultimi cento anni.
La tesi secondo cui la rivoluzione tecnologica del ventunesimo secolo porterà via il posto di lavoro alla maggior parte di noi, lasciandoci in gran parte disoccupati, mentre robot e computer ci sostituiranno nelle fabbriche e negli uffici, rappresenta a una concezione ingenua e parziale di come
funziona il mercato del lavoro.
Come i luddisti di inizio Ottocento, ovvero gli artigiani inglesi che contestavano l’automazione della produzione tessile cercando di distruggere le macchine, i critici moderni del progresso tecnologico
hanno una interpretazione statica del mercato del lavoro, una interpretazione che ignora come tecnologia e lavoro interagiscano in maniera complessa e dinamica ormai da secoli.
Un’analisi più approfondita e matura permette una visione più ottimistica del futuro, un futuro in cui le nuove tecnologie cambiano il tipo di lavori, ma non necessariamente il livello generale di occupazione.
Va chiarito però che anche se l’automazione non ridurrà il numero totale degli occupati,
influenzerà sicuramente il tipo di posti di lavoro e la loro collocazione geografica.
Negli ultimi trent’anni i maggiori aumenti salariali registrati sui mercati del lavoro delle economie occidentali sono andati a vantaggio dei lavoratori con alta scolarità, ovvero quelli con la laurea o il master.
Il motivo è che le nuove tecnologie sono più un complemento che un’alternativa ai lavoratori con
alto titolo di studio.
Al contempo le regioni e le città che hanno sviluppato le economie più dinamiche sono quelle che dispongono di una forte base di capitale umano.
Negli ultimi trent’anni le città ad alto tasso di laureati e di imprenditori innovativi hanno avuto alti tassi di crescita sia occupazionale che salariale, mentre quelle meno dotate di capitale umano hanno perso terreno.
Il modo corretto di reagire ai timori per il futuro dell’occupazione non è disperarsi, né di opporsi in
maniera pregiudiziale alle nuove tecnologie.
Bisogna invece investire nella formazione, così che il maggior numero possibile di lavoratori
possa beneficiare dei profondi cambiamenti tecnologici che ci attendono.


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giovedì 15 marzo 2018

Regalare benessere attrae talenti

(Fonte: "Affari&Finanza")

Le aziende sono consapevoli che i benefit possono risultare decisivi per attrarre e coinvolgere i dipendenti, ma in molti casi stentano ancora a passare all’azione. Frenate talvolta dai costi necessari per implementare e realizzare iniziative di welfare e in altri casi dalla mancata percezione delle misure concrete  richieste  dai  dipendenti  in un’epoca che vede la mano pubblica ritrarsi sempre più. È il quadro che emerge da “Benefits Trends Survey”, studio condotto  dalla  società  di  consulenza Willis Towers Watson attraverso interviste a 1.274 aziende operanti nell’area Emea (Europa, Medio Oriente e Africa), di cui 131 in Italia.
Tra i datori cresce la consapevolezza che loStato non è più in grado di rispondere a molte delle esigenze dei cittadini-lavoratori,  ma  sono  ancora poche quelle che mettono in campo soluzioni sostitutive. Eppure i benefici in termini di soddisfazione e di produttività sono evidenti. In particolare, il 58% delle aziende operanti nell’Europa occidentale non ha pianificato una strategia in tema di salute e benessere per i propri dipendenti. Inoltre, meno della  metà  dei  lavoratori  (il  44%)
nell’area ritiene che il pacchetto di benefit offerto dalla sua azienda corrisponda ai propri bisogni.
Uno scenario che merita una riflessione, nell’ottica di calibrare gli interventi sulle reali necessità di ciascun contesto e nonsolo basandosi su categorie e benchmark che hanno dimostrato  di  funzionare  altrove. «Per molte aziende il tema del welfare è ancora una novità e tendono a volerlo implementare poiché fatto da altri», sottolinea Cesare Lai, responsabile welfare & benefits per l’Italia di Willis Towers Watson. «In alcuni casi manca un allineamento di tale strumento con le politiche hr aziendali e in particolare con il resto dell’impianto di compensation & benefit già presente in azienda».
Secondo l’indagine, i dipendenti desiderano in primo luogo piani che proteggano la loro salute e il loro benessere, anche finanziario, consapevoli evidentemente  che  la  spesa  sanitaria  e quella pensionistica a carico dello Stato sarà sempre meno in grado di assicurare una risposta adeguata a tutte le esigenze.
Guardando in prospettiva, il 71% delle imprese prevede di personalizzare la propria offerta in questi ambiti entro i prossimi tre anni, mentre il 44% manifesta l’intenzione di  attuare una  chiara
strategia di welfare.
Una dichiarazione di principio che rischia di restare fine a se stessa se non declinata in progetti concreti. Passando a chi invece ha già messo in campo iniziative di welfare aziendale, le strategie sono diversificate. Molte aziende stanno adottando un mix di modelli innovativi e tradizionali. «Aumentano per esempio la possibilità di scelta tra i benefit a disposizione e il ricorso a programmi integrati», spiega Lai. Inoltre, circa due-terzi delle aziende si è attivata per creare un’offerta
personalizzata per ciascun lavoratore. Nel giro di tre anni, il 59% del campione darà accesso a programmi di salute e di benessere direttamente nel luogo di lavoro e il 54% offrirà la possibilità di usufruire di un orario flessibile. Mentre il 60% chiederà feedback ai dipendenti per migliorare l’offerta.
Restano  tuttavia  alcuni  ostacoli.  In particolare, sottolinea la ricerca, il tema dei costi che viene visto come una sfida da quasi due-terzi del campione: insomma si torna al “vorrei ma non posso”,
dettato dalla ridotta comprensione da parte del top management dei benefici che da queste iniziative possono derivare in termini di risultati economici. Passando al nostro paese, la crescita nei costi dei benefit (64% dei datori di lavoro a fronte del 55% dell’area Europa e Medio oriente) viene vista come una delle principali sfide per i prossimi anni, seguita dall’impatto dei cambiamenti normativi  in  atto  sul  tema  (50%  contro 35%) e da budget insufficienti per realizzare i cambiamenti necessari nei piani di benefit (44% a fronte del 40%). A questi si aggiungono la mancanza di una chiara strategia in tema di welfare, oltreché di comprensione e di coinvolgimento da parte dei dipendenti. Quanto basta per iniziare a programmare interventi condivisi dalle parti in causa nella singola organizzazione.


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mercoledì 14 marzo 2018

I servizi migliorano il clima delle imprese

(Fonte: "Affari&Finanza")

Il welfare  aziendale migliora  il  clima nelle imprese. Il 47,7% dei lavoratori, segnala il report Censis-Eudaimon, è favorevole al welfare aziendale perché è convinto che migliori il clima in azienda e il 16,8% perché fa aumentare la produttività dei lavoratori. Quest’ultima non è certo una questione trascurabile per un Paese come il nostro che nelle ultime due decadi ha registrato  un  tasso  di  crescita  della  produttività marginale,  con  il  risultato  che  le  nostre aziende hanno perso sensibilmente competitività nello scacchiere dei mercati internazionali. Non è un caso se molte direzioni del personale mettono in campo iniziative ad hoc — da percorsi di formazioni a sessioni di team building — proprio con l’obiettivo di migliorare la soddisfazione dei dipendenti. Del resto, nell’era dell’economia della conoscenza, sono proprio le persone a fare la differenza, prima ancora delle tecnologie, in molti casi divenute di dominio comune.
L’effetto positivo sul clima aziendale è la ragione segnalata prevalentemente dai lavoratori che si dicono favorevoli, ma ancora una volta è più forte il consenso tra dirigenti e occupati con alti redditi rispetto a operai e lavoratori che percepiscono redditi più bassi.


Il welfare aziendale piace ma è ancora sconosciuto a troppi 

Chi lo conosce, e non sono ancora molti, lo apprezza. Il welfare aziendale si fa strada anche in Italia, complici da una parte la progressiva riduzione dei servizi offerti dalla mano pubblica e dall’altro gli incentivi fiscali garantiti dal legislatore. Il tutto innestato in uno scenario di crescita lenta  dopo  la  lunga  stagione della recessione.
A fare luce sul settore è il primo  rapporto  targato  Censis-Eudaimon  sul  welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon (società attiva nel settore) e con il contributo di Credem, Edison e Michelin. Quanto al livello di conoscenza piena dei lavoratori,  relativamente  alle  misure
che rientrano in questo ambito, ammonta al 17,9%. Il 58,5%  ha una conoscenza generica e il 23,6% non sa di cosa si tratta.
Tra coloro che esprimono una padronanza completa dell’argomento, il 58,7% ritiene che misure come polizze sanitarie, ore di permessi per assistere i genitori e sostegno allo studio dei figli offerti dal datore siano addirittura  meglio  degli  aumenti retributivi di pari valore.
Mentre il 23,5% è contrario e il 17,8% non ha una opinione in merito. L’apprezzamento è sopra la media tra i dirigenti, i laureati e gli occupati con redditi elevati, mentre è su livelli inferiori tra operai e lavoratori con stipendi bassi.
Un  risultato  sorprendente se si considera che i benefici fiscali  guardano  soprattutto  a chi non percepisce redditi elevati. Infatti, a partire dal 2016 è prevista un’imposta forfettaria al 10% sui premi di produzione fino a 2mila euro per i lavoratori con reddito sotto i 50mila euro lordi annui. Con l’aggiunta che, se si sceglie di convertire il premio in elementi di retribuzione non monetari, la
tassazione è zero. La Legge di Bilancio 2017 ha poi allargato il  raggio  d’azione,  stabilendo
l’esenzione fiscale per i premi versati dal datore per finanziare terapie di lungo corso e malattie gravi dei dipendenti. E al contempo ha stabilito che queste spese non concorrono ai limiti di deducibilità per le spese sanitarie e i versamenti alla pensione integrativa.
In aggiunta, da quest’anno se l’azienda rimborsa il biglietto o l’abbonamento ai mezzi pubblici  che  il  dipendente prende per raggiungere il posto  di  lavoro,  la  somma  non concorre a formare il reddito di quest’ultimo. 


Tornando  all’accoglienza tiepida da parte di chi non percepisce stipendi elevati, la chiave di lettura potrebbe essere legata alla fame di reddito: negli ultimi anni gli stipendi sono rimasti sostanzialmente fermi e anche chi ha un contratto di lavoro da dipendente e una famiglia da mantenere sempre più spesso fatica ad arrivare a fine mese. Oltre al fatto che il livello di  conoscenza  del  welfare aziendale è più basso tra chi guadagna meno e ha un livello di scolarità inferiore. Cosa che spinge gli autori della ricerca a sottolineare  l’importanza  di una più approfondita comunicazione da parte delle istituzioni e delle aziende affinché i potenziali beneficiari possano farsi un’idea delle opportunità in gioco. 


Il  rapporto  Censis-Eudaimon contiene anche un capitolo di prospettiva. Se il welfare aziendale  si  diffonderà  nella Penisola,  con  un’adesione  a tappeto nel settore privato, potrà arrivare a valere 21 miliardi di euro all’anno. Difficile comunque che si possa raggiungere un valore quanto meno vicino al potenziale, alla luce di un  sistema  imprenditoriale che nel nostro Paese è dominato dalle aziende di piccole e piccolissime  dimensioni.  Infatti, la messa a punto di interventi di  questo  tipo  richiede  una struttura addetta alla gestione delle risorse umane che raramente è presente nelle realtà di minori dimensioni.
Le  prestazioni  di  welfare aziendale maggiormente desiderate dai lavoratori riguardano  l’ambito  sanitario  (si  è espresso in questa direzione il 53,8% degli intervistati), davanti  alla  previdenza  integrativa (33,3%), all’ambito dei buoni pasto e della mensa aziendale (31,5%). Seguono il costo del trasporto  da  casa  al  lavoro (23,9%), i buoni acquisto e convenzioni con negozi si fermano 21,3%, l’asilo nido, i centri vacanze, i rimborsi per le spese scolastiche dei figli chiudono con il 20,5%.


Tutto bene, dunque? Su questo  fronte  qualche  resistenza arriva  dal  fronte  sindacale, non  tanto  le  rappresentanze aziendali, quanto le organizzazioni nazionali. Qualcuno legge questa posizione alla luce della perdita di potere dei sindacati in sede di rinnovo dei contratti collettivi. I rappresentanti dei lavoratori rispondono a  questa  osservazione  ricordando che si considerano positive tutte le iniziative che portano  benefici  ai  lavoratori,  anche quando non si tratta di interventi di natura monetaria, ma è fondamentale che il welfare aziendale risulti aggiuntivo e non sostitutivo di quello pubblico.
Altrimenti, se lo Stato riduce il suo raggio d’azione e contemporaneamente  impiega un capitolo di spesa per consentire  la  tassazione  forfettaria, rischiano di crescere le criticità a svantaggio di chi lavora in aziende che non adottano queste  misure.  Torna  così  la necessità di favorire una diffusione su larga scala del welfare aziendale, in modo da accrescere il più possibile la platea
di beneficiari.


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martedì 13 marzo 2018

L'head hunter diventa consulente per l'azienda

(Fonte: "Affari& Finanza")

La figura dell’head hunter andrebbe aggiornata per entrare nel cuore di un’azienda, valutare il grado di adeguatezza del management per raggiungere gli obiettivi prefissati e offrire supporto per la governance. Si tratta di un salto di qualità della categoria per il compito di condurre quelle che si definiscono board review. 
Si deve essere attivi nella valorizzazione della diversity dato che, purtroppo, qualche discriminazione
di genere esiste ancora.


Come cambia il lavoro? Si cerca di far evolvere il mestiere da ricerca e selezione di management ad advisory dei vertici aziendali sui temi globali relativi al capitale umano: consulenza organizzativa, di sviluppo e gestione del know how, di change management, in particolare nelle fasi di trasformazione aziendale innescata dall’internazionalizzazione e oggi soprattutto dalla rivoluzione digitale. A questo
proposito gli head hunter dovrebbero scoprire e segnalare alle aziende nuove generazioni di manager sul mercato nazionale e internazionale in possesso di un know-how digitale: possono avere
30-35 anni ma coprono ruoli in grado di garantire il balzo verso il futuro della società.


Quali resistenze si incontrano?
Si deve a volte forzare ancora le piccole aziende, o quelle pubbliche (...) perché trovino il coraggio di uscire dalla nomina più conveniente politicamente o familiarmente per avere un reale impatto sul sistema. Un manager deve garantire più produzione, dipendenti felici, miglioramento del sistema
Paese. È l’impatto etico dell’head hunter, che deve migliorare il livello complessivo del sistema economico. E' un mestiere dalla valenza strategica: trovare la persona giusta consente di generare valore.
Nomine sbagliate o forzate creano zavorre non facilmente smaltibili e ritardi incolmabili.
 

Ora che c’è un po’ di ripresa in Italia gli head hunter sono più “occupati”?
Le aziende non hanno mai smesso di cercare manager, anzi con tutte le ristrutturazioni il quadro si è mobilitato. La professione insiste su un elemento chiave nella vita di ogni individuo, delle organizzazioni e delle società, come il lavoro, che influenza l’identità del singolo in relazione
alla sua capacità di generare valore per sé, la sua famiglia, la collettività, lo sviluppo del Paese. Assistere persone e organizzazioni a incrociare domanda e offerta, aiutare a identificare e selezionare le competenze e le culture manageriali più coerenti in un certo contesto per raggiungere gli obiettivi prefissati, è un compito delicato e molto affascinante che impatta in modo decisivo sullo sviluppo culturale ed economico del Paese. Aiutare a mettere l’uomo giusto al posto giusto, un
dirigente aperto, inclusivo, oltre che ovviamente preparato, può fare veramente la differenza.


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lunedì 12 marzo 2018

Lotta al cyber crime per il 58% delle aziende

(Fonte: Affari&Finanza")

Se nel 2017 il cyber crime è aumentato in modo incessante e progressivo, con attacchi sempre
più frequenti, aggressivi e sofisticati, sono cresciute di pari passo anche l’attenzione delle imprese alla cyber security e le risorse stanziate per prevenire gli attacchi. Il mercato delle soluzioni di information security in Italia ha raggiunto infatti un valore di 1,09 miliardi di euro, in crescita del 12% rispetto al 2016.
La spesa si concentra prevalentemente fra le grandi imprese (il 78% del totale), trainata dai progetti di adeguamento al General Data Protection Regulation, che contribuiscono ad oltre metà della crescita registrata. Inoltre, un’impresa italiana su due (il 51%), ha in corso un progetto strutturato di adeguamento alla nuova regolamentazione Ue in materia di trattamento dei dati personali che diventerà pienamente applicabile a partire dal 25 maggio 2018 (erano appena il 9% un anno fa) e un altro 34% sta analizzando nel dettaglio requisiti e piani di attuazione.
Contemporaneamente, cresce al 58% (rispetto al 15% di un anno fa) la percentuale di aziende che hanno già un budget dedicato all’adeguamento alla protezione dei dati. A rilevarlo è la ricerca dell’Osservatorio Information Security & Privacy della School of Management del Politecnico di Milano.
La ricerca è stata realizzata attraverso una survey a 1107 CISO, CSO e CIO di imprese italiane, un’indagine ad hoc ai Risk Manager e Chief Risk Officer di 106 organizzazioni italiane e un’ulteriore indagine su 313 professionisti del settore sul tema data protection.
Secondo Idc, d’altro canto, Il 70% dei manager si aspetta, nei prossimi anni, di poter comunicare con i propri collaboratori senza vincoli legati allo spazio fisico di lavoro e al tempo.
Ma la trasformazione digitale del workplace, se da un lato promette più flessibilità e un conseguente miglioramento della qualità del lavoro, dall’altro nasconde nuove insidie dal punto di vista della sicurezza e della compliance (GDPR in primis). Proteggere e regolamentare l’uso di pc, device mobili, wearable, periferiche e dispositivi intelligenti IoT e AR/VR - dentro e fuori il perimetro aziendale, in postazioni fisse o in hotdesk – sta diventando ancor più importante e urgente.
Secondo le ultime previsioni di IDC, la spesa aziendale in sicurezza endpoint crescerà a livello mondiale da 4,2 miliardi di dollari nel 2016 a oltre 5,2 miliardi nel 2020, con un CAGR del 4,4%. La spesa aziendale in sicurezza per device mobili crescerà da 2 miliardi di dollari nel 2016 a oltre 3 miliardi nel 2020, con un CAGR superiore al 10%. Ma attenzione: saranno i dispositivi IoT e le periferiche quegli apparati ai quali le aziende dovranno prestare più attenzione.
Stampanti e dispositivi IoT intelligenti vengono considerati da IDC più vulnerabili dei pc o dei device
mobili per via della loro natura di oggetti che devono essere resi aperti e accessibili all’intera organizzazione. In più, le ricerche IDC suggeriscono che in molte aziende le soluzioni e i servizi di sicurezza per la stampa risultano più arretrati rispetto al livello di sicurezza IT predisposto per l’infrastruttura complessiva.
Per questa ragione, IDC prevede che entro il 2020 le aziende più grandi riallocheranno il 35% del loro budget destinato alle soluzioni documentali e di stampa per la messa in sicurezza del parco stampanti e  multifunzione.


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venerdì 9 marzo 2018

Sulla parità non si torna indietro

(Fonte: "L'Economia")

La retromarcia sulle quote rosa? Improbabile. «Non credo che torneremo indietro quando la norma scadrà», dice Carmine Di Noia, il commissario della Consob che ha presentato al Centro congressi Cariplo di Milano l’ultima ricerca sulla corporate governance delle società quotate condotta dall‘authority di controllo della Borsa.
«Sul peso delle donne nei consigli d’amministrazione abbiamo fatto una norma intelligente in Italia —nota—.Per tre motivi. Primo, ha una scadenza: tre mandati, nove anni. Ma intanto l’argine è rotto. Secondo, è graduale: prima il 20% dei consiglieri, poi un terzo. Infine, riguarda l’intero cda, esecutivo e non. Abbiamo ottime consigliere». L’obbligo scadrà fra il 2022 e il 2024 (varia da società a società): «Auspico che nel codice di autodisciplina della Borsa s’introduca una raccomandazione sul tema».
La parità di genere, del resto, è rilevante anche per la Dnf, la Dichiarazione non finanziaria che da quest’anno le quotate dovranno allegare al bilancio. Il regolamento ha avuto il via libera della Consob l 19 gennaio. «Le imprese devono crederci perché queste informazioni favoriscono l’interazione con il tessuto sociale», dice Di Noia. Che è positivo sugli ultimi dati: «Siamo a un ottimo punto sulla corporate governance». Ne è passata di acqua sotto i ponti, è il suo pensiero, da
quando i cda duravano cinque minuti e il verbale era già scritto. E pazienza se nei posti di comando le donne sono ancora pochissime. «È cambiato il mondo. Possiamo andare all’Ocse a testa alta — dice il commissario che da novembre è nel comitato Corporate governance dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo —. Abbiamo nei board la diversity, le competenze, più dialogo verso i soci e il mondo esterno. Il sistema delle quotate in Italia è partito anni fa con 40 di febbre, poi è sceso a 39, a 38. Ora il malato è guarito con gli antibiotici della regolamentazione,  dell’autoregolamentazione e della vigilanza», ma attenzione: «La febbre può tornare».
Inoltre «il mercato ha sciolto le scatole cinesi», dice Di Noia. Che difende il voto maggiorato, introdotto dal Decreto competitività nel 2014 (cade il principio «Un’azione un voto» e ogni voto vale fino a tre). «È stato criticato perché si temeva che rafforzasse il ruolo dell’azionista di controllo, ma l’importante è che ci sia trasparenza. Se questo meccanismo può portare più società sul listino (chi perde la maggioranza può mantenere la guida, ndr.), ben venga. Il mercato è un sistema d’incentivi e la Borsa non è un fine, ma un mezzo». (...)


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giovedì 8 marzo 2018

Le quote di genere avanzano

(Fonte: "L'Economia")

Al tavolo delle decisioni le donne sono aumentate, ma contano ancora poco, pochissimo.
Sono più di tre su dieci, il 33,6%, le presenze femminili nei consigli d’amministrazione delle aziende quotate italiane. Si è superata la quota di un terzo prevista dalla legge GolfoMoscadel 2012. Buon risultato. Il dato crolla però se si guarda alle posizioni occupate.
Erano solo 17 al 30 giugno dello scorso anno le amministratrici delegate su 229 società considerate: il 7,4% per una incidenza sulla capitalizzazione dell’1,8%. Vuole dire che le donne comandano, quando lo fanno, nelle aziende più piccole. Comunque nel 2013 erano il 5% quelle al vertice. Incremento lieve.
Diverso è per le donne presidente: erano 26 lo scorso anno (11%), triplicate dal 2013 (da 9, il 3,7%). Per lo più in aziende grandi (coprono un quarto della capitalizzazione). Lo dimostrano le società a maggioranza di Stato come le Fs (Gioia Ghezzi), le Poste ( Bianca Maria Farina), l’Eni (Emma Marcegaglia). Consolazione relativa.
 

Più dell’Inghilterra
Di buono c’è che l’Italia ora vince il confronto con l’Europa. Anche all’estero infatti il numero delle donne nei consigli si è impennato, ma se l’Italia era ultima e sotto il 5% fino al 2010, ora è battuta solo dalla Francia (dati Boardex al 2016) che ha quattro posti femminili su dieci nei consigli. Seguono Regno Unito e Germania (25%-30%) mentre la Spagna resta lontana (sotto il 20%, una su cinque).
La foto è della Consob che oggi a Milano, al convegno con Assonime, presenterà il suo Rapporto 2018 (con dati 2016 e 2017) sulla corporate governance delle quotate alla Borsa italiana.
In generale, l’Italia si sta allineando al resto d’Europa. I board si snelliscono, le informazioni circolano, le holding si sciolgono e c’è più dialettica. Aumentano nei board i giovani e le donne, che
fra tutti sono le più istruite: oltre che sempre meno espressione delle famiglie azioniste, sempre più consulenti e professioniste.
Una novità di quest’anno è poi l’attenzione alle informazioni non finanziarie, che le società dovranno pubblicare coni l bilancio 2018. Per esempio rispetto dei lavoratori, del territorio. Per
ora, solo 26 società dell’Ftse Mib, su base volontaria, hanno pubblicato un report di sostenibilità. È l’inizio.
Fino al 2016 le quotate italiane erano ad azionariato tutt’altro che diffuso: il primo azionista controlla in media il 47% del capitale e al timone restano le famiglie che controllano sei società su
dieci (146, il 64%), per una capitalizzazione però che è solo un terzo del mercato. Medie aziende, quindi. Il contrario accade allo Stato e agli enti locali che sono presenti come soci di riferimento in solo 21 società, il 9%, ma giganti perché coprono il 36% della capitalizzazione. La situazione forse sta cambiando, perché tra le società quotate nell’ ultimo triennio, dice la Consob (2017 compreso quindi), il peso delle famiglie si è ridotto (28%, dato medio dei tre anni) e aumenta quello dei fondi, anche di private equity o sovrani. Che già nel 2016 avevano una partecipazione di oltre il 3% in 19 società, contro le 13 dell’anno precedente.
Si conferma la frenata delle coop. Dopo la legge del 2015 che ha anche riformato le banche popolari, il numero delle società cooperative nel capitale al 2016 era più che dimezzato in otto anni
fra le aziende non controllate: quattro nel 2016 dalle dieci del ‘98. È leggermente calata poi nel periodo anche la presenza degli investitori istituzionali, cioè fondi, banche, assicurazioni: hanno partecipazioni rilevanti (in media il 7,5%,) in 61 quotate, una su quattro (il 26%). Nel 2014, una su tre.
Gli istituzionali stranieri, in particolare,sono azionisti di 50 quotate, il 21,6%: un’inversione, visto che nel 2014 erano al 23%. La Consob ritiene però il dato tutto sommato stabile, tenuto conto dell’effetto-soglia (dal 2016 la partecipazione rilevante va dichiarata sopra il 3% anziché il 2%). La partecipazione alle assemblee dei fondi è d’altra parte cresciuta nel 2017 al 30% dei voti.
 

I voti contrari
Le aziende familiari stanno apprezzando il voto maggiorato, cioè la possibilità per chi è socio da almeno due anni di pesare fino a due voti per azione. È una garanzia di controllo per chi debutta in Borsa. Sono 35 su 230, al 2017, le società che, dopo il decreto Competitività del 2014, hanno previsto questo meccanismo, in gran parte familiari.
Mentre restano al lumicino quelle che hanno scelto il voto plurimo: si sono quotate così due spac, Fila e Aquafil.
Sono diminuite le scatole cinesi: solo il 16,5% delle società fa ora parte di un gruppo verticale, una su sei. Vent’anni fa erano il 39%, quasi una su due. I membri dei board inoltre sono scesi in 11 anni da circa 12 a circa dieci e l’Italia ha consigli più snelli di Spagna, Francia, Germania. Iconsiglieri indipendenti sono ormai circa la metà (il 48%), ma in generale resiste l’accumulo d’incarichi in altre quotate: succede in più di due terzi delle emittenti.


Cresce, infine, il dissenso in assemblea sui compensi degli amministratori: in particolare è raddoppiato in quattro anni nelle medie aziende.


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mercoledì 7 marzo 2018

Arriva l’azienda senza capo: tutti manager di se stessi

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Nessun capo. Nessun sottoposto. Nessun ordine dall’alto .Utopia? Non proprio.
L’azienda senza (o quasi) manager esiste già. All’estero i nomi sono vari: si va dalla californiana Morning Star, nel mondo della lavorazione dei pomodori, all’olandese Buurtzorg, che invece si occupa di servizi e assistenza domiciliare; dalla britannica Matt Black Systems, specializzata nella
produzione di interfacce uomo-macchina per l’industria aereonautica e areospaziale alla francese Favi, una fonderia. Realtà dei settori più disparati edalle dimensioni molto diverse tra loro, ma che
hanno un minimo comune denominatore: sono impostate su team autonomi, paritari e responsabilizzati (e con buoni risultati). Una caratteristica che, a quanto pare, si sta diffondendo. Di sicuro, secondo un’indagine di Boston Research Group, le aziende che seguono il principio della
self-governance sono più che raddoppiate tra il 2012 e il 2016.
L’Italia non sta a guardare e anche da noi c’è già chi percorre questa strada. Per esempio Tmc, filiale di una multinazionale olandese che offre servizi di consulenza tecnologica: nel nostro Paese ha un organico di16 persone, tutti ingegneri, tutti assunti a tempo indeterminato. E tutti manager di se stessi: la società li definisce «employeneurs» (unione tra employee e entrepreneur), ciascuno di loro è un mix tra un dipendente e un imprenditore completamente autonomo nelle proprie decisioni con accesso a tutte le informazioni, conti dell’azienda compresi, la trasparenza è totale. E anche la
responsabilità è condivisa: “Ognuno è responsabile del proprio profit & loss” sottolinea il ceo Antonio Abadessa che, come tiene a precisare, lavora sul campo, dai clienti, come gli altri.
Di certo il tempo della gerarchia non è finito. Ma qualcosa sta cambiando. Non a caso, secondo un’indagine commissionata dalla specialista di consulenza e sviluppo organizzativo Asterys, su ottocento lavoratori (tra leader, manager e impiegati) di Paesi diversi, il nostro compreso, meno della metà immagina che l’azienda del futuro sarà fondata sulla piramide. «C’è molto interesse su questo tema» spiega Stefano Petti, partner della società, che negli scorsi giorni ha lanciato proprio un modello organizzativo (già «in funzione» sui suoi 30 collaboratori in Italia) senza supervisori e senza manager. Si chiama Aequacy. «Supportiamo le aziende che vogliono fare una transizione dalla
struttura gerarchica a una organizzata su network di team autonomi e coordinati tra loro —spiega Petti. —E’un passaggio che, dal nostro punto di vista, favorisce l’innovazione, la collaborazione e
la performance».


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martedì 6 marzo 2018

Addetti demotivati e malati l’azienda paga un conto salato

(Fonte: "Affari&Finanza")

Quando i lavoratori non stanno bene, sono le aziende, più ancora dei sistemi sanitari, a pagare il prezzo maggiore. Secondo una recente indagine commissionata da Bruxelles (...) infatti, solo le forme di depressione correlate all’attività lavorativa in Europa pesano sulle imprese per 272 miliardi di
euro all’anno, e cui si aggiungono perdite per altri 242 miliardi per l’intero sistema economico.
Le casse pubbliche, tra servizi di welfare e prestazioni sanitarie, spendono “solo” 102 miliardi di
euro. Altri studi mostrano come chi lavora sotto pressione sia anche più soggetto a rimanere vittima di incidenti: la proporzione è di cinque a uno rispetto a lavoratori che operano in condizioni meno stressanti. Dare poca importanza ai temi della salute dei lavoratori in generale, oltre ad aumentare il rischio di infortuni, comporta, tra le altre cose, anche una serie di conseguenze negative per la loro salute mentale (...). Situazione che si traduce direttamente in perdite economiche, in termini di deterioramento della produttività, livelli più elevati di assenteismo e turnover dei dipendenti. È chiaro: alle aziende conviene economicamente occuparsi della salute delle risorse umane.
Solo a fronte del fatto che il datore di lavoro crei delle precondizioni affinché i lavoratori stiano
il meglio possibile, è possibile creare delle precondizioni affinché l’organizzazione stia il meglio possibile (...).
Non si tratta solo di un ambiente salubre, ma anche di una struttura di relazioni in cui il lavoratore possa inserirsi e operare in maniera serena ed efficiente.
Un’indagine della fondazione Istud pubblicata nel 2015 mette infatti in luce come a influire sul
sentirsi bene e gratificati nel luogo di lavoro siano soprattutto la comunicazione con i colleghi e il
grado di socializzazione. Parallelamente, la ricerca ha rilevato come a incidere in negativo siano
per i dipendenti la comunicazione con i superiori (non adeguata per il 55% del campione), l’attenzione alle richieste dei collaboratori da parte dei responsabili (insufficiente anche qui per il 55%) e ancora di più la commisurazione dei compensi ai meriti (deficitaria per l’80% dei rispondenti).
Così come gli impatti negativi, anche i benefici sono diretti: sempre l’indagine (...), per esempio, ha evidenziato che per ogni euro speso in programmi di miglioramento della salute mentale sui luoghi di lavoro, i benefici economici vanno da 0,80 euro ad addirittura 13,6 euro. In pratica, in un anno si può arrivare a 135 miliardi di euro grazie alla riduzione dei costi e al recupero di produttività e utili. Avere un approccio proattivo nella promozione della salute genera profitto.
Le iniziative che influiscono positivamente sono tante, e vanno da prestazioni per la salute fisica e mentale del dipendente, come iniziative per aiutare i lavoratori a smettere di fumare e a mantenersi in forma, fino ad agevolazioni per facilitare la conciliazione tra vita privata e lavoro. E ancora, a far sentire bene il lavoratore sono anche servizi che evitano situazioni di stress, come il parcheggio aziendale o gli spazi flessibili in ufficio. Ben venga qualunque iniziativa. L’importante, perché dia gli effetti sperati anche a livello economico, è che sia accompagnata da un sistema di gestione coerente, in cui il benessere organizzativo viene integrato nella strategia aziendale (...). Su questo fronte, nel nostro Paese il quadro varia molto in base alle dimensioni e alla struttura dell’impresa. Il lavoro cominciato all’estero 20 anni fa è stato poi portato dalle multinazionali anche in Italia, con risultati positivi. Nelle imprese più piccole, invece, si continua a scontare la mancanza di consapevolezza e
competenze. In molti casi nelle Pmi ancora oggi ci si occupa di questi aspetti perché lo prevede la legge. Non mancano però aziende dove chi è al vertice è sensibile al tema e riesce a costruire una struttura di relazioni efficace a livello economico.


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lunedì 5 marzo 2018

L’on-boarding sale al centro del rapporto impresa-addetti

(Fonte: "Affari&Finanza")

Solo 10 anni fa era quasi ignorato nelle procedure aziendali, ora non più: l’on-boarding, cioè
l’inserimento in azienda dei nuovi assunti, si sta rapidamente affermando come un fattore-chiave in ambito HR. Nel 2016 era indicato al 20° posto delle priorità, nel 2017 è rapidamente salito al
14° posto e l’Osservatorio internazionale di Top Employers Institute — ente di certificazione che monitora le condizioni di lavoro all’interno delle aziende in più di 100 Paesi disseminati in 5
Continenti — conferma che la tendenza quest’anno è in crescita.
Non a caso, i dati dell’ente mostrano che il 97% delle aziende certificate Top Employers Italia 2018 ha una struttura ben definita  relativa  alle  politiche  di on-boarding e obiettivi ben chiari  al  suo  interno.  Quali  sono?
Massimizzare  l’integrazione dei nuovi assunti nella cultura aziendale,  assicurare  al  dipendente un adeguato inserimento in azienda e fare in modo che i nuovi  assunti  progrediscano  il
più rapidamente possibile nei loro ruoli specifici.
Di sicuro, l’accelerazione del fenomeno on-boarding è strettamente  legato  all’avvento  delle nuove tecnologie digitali: oggi, i candidati  e  futuri  dipendenti hanno molti più strumenti a disposizione per analizzare l’azienda in cui andranno a lavorare. Si presentano ai colloqui di selezione già informati su chi li ha contattati e hanno già avuto accesso a tutte le notizie necessarie per
valutare se si tratta di un’azienda per cui valga la pena lavorare, o no.
Ormai, il rectruiting dei nuovi assunti si svolge online. Molte procedure in ambito HR si sono
semplificate negli ultimi 5-6 anni (...) . Siamo al passaggio successivo, in cui  il  vecchio  concetto  di
on-boarding,  inteso  come  una procedura asettica e veloce, della durata al massimo di 2-3 giorni, non ha più senso. Ma si sta trasformando in un vero e proprio iter di formazione: può continuare per settimane, mesi e in alcuni casi può protrarsi anche per un anno. L’obiettivo finale è l’integrazione  tra  recruiting  e on-boarding in un processo continuo all’interno di un’azienda.
In questo senso, la ricerca di Top Employers Insitute fa notare che ora l’approccio del management di un’impresa nei confronti dei neo assunti deve essere di tipo “olistico”. Ovvero, un approccio che include non solo “formazione professionale” ma anche “integrazione empatica” tra vecchi e nuovi dipendenti e una  conoscenza  allargata dell’“identità aziendale”: il cosiddetto “total on-boarding”.
Questo tipo di approccio prevede  il  coinvolgimento  del  senior management, il quale in prima persona prende parte attiva nell’inserimento del neo assunto in azienda presentandolo ai colleghi, organizzando incontri personali,  implementando  misure di feedback e monitoraggio attraverso le nuove tecnologie (...).
Secondo i dati dell’ente, nel 78% delle aziende i membri del top management accompagnano in azienda e presentano personalmente i neo assunti ai colleghi; nel 92% sono previsti incontri con l’executive management entro i primi tre mesi dall’assunzione. In questo periodo si entra più nel vivo della professione e il focus si sposta sulle prime valutazioni e monitoraggi (...). In un’ottica di crescita non solo professionale, ma anche umana, vengono favorite e incoraggiate attività di condivisione sui social.
La ricerca riporta anche che il 66% delle aziende chiede al neo assunto un feedback di valutazione del processo di on-boarding e una  prima impressione delle  procedure di accoglienza in azienda. Allo scoccare dei dodici mesi, però, è il momento in cui si tirano le somme e si fanno le prime valutazioni ufficiali. È questa l’occasione in cui analizzare l’esito del percorso formativo e stabilire gli obiettivi futuri tramite  Kpi  (Key  Performance Indicator), ovvero un indicatore chiave di prestazione (...).
Secondo i dati della ricerca il 73% delle aziende valuta il processo di on-boarding tramite reporting  in  materia  di  Kpi,  nel 64% delle imprese sono previste valutazioni, sempre sul processo, da parte del management e in quasi 6 aziende su 10 (56%) sono previste sessioni di follow up a un anno dall’assunzione  per professionisti che non hanno necessariamente un ruolo manageriale.
Sugli  strumenti  per  rendere più efficace l’inserimento di un neo assunto, la ricerca ne individua diversi. Alcuni già noti: incontro con il manager di riferimento che illustra le procedure HR, cultura aziendale, riunioni periodiche di monitoraggio nei primi tre mesi di lavoro. Altri funzionali al processo: fornitura di un dettagliato manuale di inserimento  e  assegnazione  di  un mentore  al  neo  assunto,  una nuova  figura,  quella  del  “bubby”. Inoltre, il futuro dipendente deve avere la possibilità di accedere on line a un portale dedicato per poter conoscere le caratteristiche aziendali e sapere quale sarà il suo percorso professionale.
All’inizio,  nel  nostro  Paese sull’on-boarding  hanno  fatto scuola le multinazionali straniere, quelle che qui hanno investito e hanno aperto filiali strutturate (...) ma ora ci sono anche tante aziende
italiane che hanno avviato processi  di  on-boarding  all’avanguargia, e penso che la tendenza
non possa che crescere.


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venerdì 2 marzo 2018

L’attività fisica fa bene ai dipendenti

(Fonte: "Affari&Finanza")

Ormai anche le aziende italiane lo hanno capito: per aumentare la produttività bisogna che i dipendenti si diano una mossa, e nel senso più letterale del termine. Allestire una palestra sul posto di lavoro produce infatti ritorni immediati sia in termini di produttività che di fatturato per un’impresa.
A dirlo è la scienza: mettendo a confronto l’attività fisica di 200 lavoratori di tre società diverse, la Bristol University ha ad esempio rilevato che nei giorni in cui questi si allenavano aumentavano  anche  concentrazione  (21%), puntualità (22%), produttività (25%) e motivazione (41%). Un’altra indagine, pubblicata sul Journal of occupational and environmental medicine, ha preso in considerazione un campione ancora più alto, di ben 683 lavoratori, dimostrando  come  questi  fossero  più produttivi dopo soli 30 minuti di esercizio. Pure troppi, dato che secondo l’American  College  of  Sports  Medicine bastano 10 minuti al giorno per affrontare la giornata col tono giusto.
In Italia una delle massime esperte del rapporto tra produttività e attività fisica  è  Annamaria  Crespi,  ideatrice del  Metodo  WAL  (Walk  and  Learn) che dimostra come movimento e apprendimento, se esercitati insieme, si rinforzino a vicenda: “L’allenamento più adatto allo scopo – spiega - è quello a basso impatto, come una camminata a ritmo regolare o 20 minuti di pedalata costante”. Un esercizio facile da incastrare nella giornata lavorativa, insomma.
Ma quante sono le aziende italiane che per incrementare la produttività incitano i dipendenti a fare sport, magari costruendo una palestra in sede?
Per fortuna sempre di più, e questo grazie all’esempio di realtà straniere “apripista”, come la multinazionale americana Sas, specializzata in software per il supporto decisionale, che per la sua
sede milanese ha scelto il progetto “Lavoro, mangio, mi alleno!”, o alla American  Express,  che  ha  inaugurato  un wellness center nella sua nuova sede romana, o alla sede milanese di Microsoft, dove i dipendenti possono scegliere tra una palestra aperta fino alle 22, un campo da calcetto e un percorso running. Sala fitness interna (con sauna) anche per la casa farmaceutica Eli Lilly di Sesto Fiorentino e per la Unicredit di Milano, per non parlare della Tetra Pak di Modena, che ha creato un
centro fitness con sauna, 20 macchine per esercizi, musica e schermi tv, o della Technogym, che nel suo centro di 3500 metri quadrati fornisce addirittura consulenze con personal trainer e lezioni di Tai Chi, spinning e functional training. Ma tutto questo è niente in confronto a ciò che la Apple ha fatto negli Usa: “Nella sua sede principale ha istituito un campus su una superficie più ampia del Pentagono – spiega il coach Fabrizio Cotza, specializzato in formazione aziendale - in cui ci sono ristoranti, aree benessere, saune e piscine. Situazione simile anche per Google o Amazon”. In Italia uno dei precursori in questo senso è stato Adriano Olivetti. “Istituì negli stabilimenti di Ivrea
un sistema di servizi per i dipendenti con l’idea di assisterli in tutti gli aspetti della vita: la sua fu la prima azienda a introdurre gli asili per i figli dei lavoratori”, precisa Cotza.
Sul fronte Made in Italy, a Milano esempi virtuosi sono Vittoria Assicurazioni, che nei suoi locali ha aperto una struttura per sport e fitness di circa 450 metri quadrati, e Niccolò Branca, primo in Italia a introdurre yoga e meditazione in azienda; in Veneto, Luxottica e H-Farm hanno attuato una collaborazione diretta con Tecnogym. Le belle sorprese si trovano anche più a sud, come la CIAM di Petrignano d’Assisi, eccellenza nella fornitura di design e tecnologia per arredamento di bar e ristoranti, il cui amministratore, Federico Malizia, è stato insignito dell’ attestato di “eccellenza welfare 2017” proprio in virtù delle strategie per migliorare il benessere dei dipendenti; altra
realtà avanguardistica è la marchigiana Elica, capofila di un gruppo industriale  con  sede  a  Fabriano,  leader mondiale nella produzione di cappe per cucina e tra i primi in Europa nel
settore dei motori elettrici: è lei a occupare, per il 2017, il vertice della classifica italiana delle aziende in cui si lavora meglio,  pubblicata  ogni  anno  dal Great Place to Work Institute a metà dicembre.
I lavoratori che hanno un impiego sedentario solitamente soffrono di rigidità del collo, tunnel carpale e mal di schiena, problemi che, come calcolato dalla Labor Organization of the United
Nation, costano circa 200 miliardi di dollari l’anno alle aziende americane in termini di perdita di produttività.
A confermare quanto incoraggiare i dipendenti a fare sport faccia bene sia alla salute di chi lavora che alle tasche degli imprenditori c’è infine un recentissimo studio apparso sul Journal of
Applied Psysiology, che ha dimostrato come l’esercizio aumenti non solo la connessione  tra  cellule  celebrali  ma anche il numero di staminali che danno vita a nuovi neuroni. In altre parole: più  ti  alleni,  più  diventi  intelligente. Difficile trovare un modo migliore per investire nelle risorse umane.


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