mercoledì 31 gennaio 2018

Professionisti col timbro di qualità (3)

Chiudiamo l'articolo del Sole con un ultimo schema riassuntivo di domande e risposte sul tema della certificazione.

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Cos’è la certificazione?
La certificazione è la valutazione delle conformità di un prodotto, un’organizzazione, un servizio o
una persona, a determinate specifiche (norme) tecniche messe a punto dall’Uni, l’ente italiano di normazione. L’Uni è infatti l’organizzazione riconosciuta da Ue e Stato italiano per elaborare e
pubblicare le norme tecniche, definite in base al consenso delle parti interessate (industrie, imprese,
professionisti, Pa, mondo accademico, consumatori, ecc.) in regime di volontarietà.

Per i professionisti in cosa consiste la certificazione?
Bisogna distinguere tra i professionisti organizzati in ordini e collegi (ingegneri, geometri, periti industriali, medici, giornalisti, avvocati, commercialisti, etc.) ed i professionisti cui si applica la
legge 4/2013. Nel primo ambito l’abilitazione all’esercizio della professione è regolamentata in
forma cogente e la certificazione è del tutto volontaria. Nel secondo ambito la certificazione -sempre
volontaria - consiste nella conformità a norme Uni.

Che differenza c’è fra la certificazione del professionista e quella dello studio professionale?
La certificazione del professionista si basa su una valutazione delle competenze, abilità e conoscenze della persona mentre la certificazione di uno studio professionale considera aspetti di efficacia ed
efficienza gestionale, per esempio valutando i sistemi di gestione (qualità, ambiente, sicurezza, anticorruzione) dell’organizzazione .

Esistono norme Uni sulla certificazione di studi professionali e professionisti?
Lo standard internazionale Uni En Iso 9001 (aggiornato nel 2015) riguarda un sistema di gestione che può essere applicato anche agli studi professionali. Per le professioni non ordinistiche sono state
predisposte oltre 40 norme Uni.

Cosa sono le prassi  di riferimento?
Le prassi di riferimento elaborate da Uni sono uno strumento tecnico di trasferimento di buone
pratiche innovative, già sperimentate sul mercato, affinché le positive esperienze settoriali e/o locali possano essere messe a disposizione di tutti i soggetti interessati al fine di far crescere la conoscenza
condivisa e raggiungere il futuro stato dell’arte, rappresentato dalle norme Uni. Le prassi permettono di certificarsi ed entro massimo cinque anni devono essere trasformate in norme tecniche

Chi rilascia la certificazione?
La certificazione di qualità attesta la conformità a norme tecniche o prassi di riferimento Uni ed è
svolta da organismi di certificazione verificati dall’ente di accreditamento (Accredia). È
un’attività distinta da quella di Uni il cui compito è definire le specifiche tecniche univoche per
la qualificazione di prodotti, servizi, organizzazioni e persone .

Quali sono i costi e i vantaggi della certificazione?
La certificazione delle competenze ha costi molto più bassi (in un rapporto di uno a dieci) di quelli necessari per certificare uno studio professionale che richiede un iter più lungo (diversi mesi) e
complesso. I vantaggi sono di carattere competitivo: distingue qualitativamente sul mercato e
migliora organizzazione e gestione dei rischi.


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martedì 30 gennaio 2018

Professionisti col timbro di qualità (2)

Con riferimento all'articolo pubblicato ieri, vediamo quale categorie di professionisti si stanno muovendo verso una certificazione.

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Avvocati

Certificazione:
Il 27 ottobre scorso è stata ratificata la prima prassi di riferimento per l’organizzazione e la gestione dei rischi connessi all’esercizio della professione degli studi legali messa a punto dall’Associazione studi legali associati (Asla) e dall’Uni 

Percorso:
Entro massimo 5 anni dalla pubblicazione la prassi deve essere trasformata in norma di certificazione previo esame dei contenuti alla luce del suo utilizzo sul mercato. La prassi è comunque già un documento che permette di certificarsi

Geometri

Certificazione:
L’ordine sta lavorando a un sistema di certificazione delle competenze del professionista sul modello di  quello messo a punto dagli ingegneri poiché il regolamento sulla formazione prevede la possibilità di aderire a un percorso di qualificazione

Percorso:
Insieme con l’Uni, i geometri hanno messo a punto 47 standard di qualità con cui hanno indicato la corretta modalità di svolgimento di altrettante prestazioni professionali (ad esempio esecuzione di planimetrie, frazionamenti, valutazioni, progettazione)

Ingegneri

Certificazione:
Un'agenzia creata dal Consiglio nazionale offre una certificazione volontaria delle
specializzazioni del professionista.
Sono 34 i comparti individuati e due i livelli di esperienza. (...)


Percorso:
L'agenzia ha chiesto l’accreditamento di Accredia, l’ente di attestazione dei certificatori, previsto a primavera. La certificazione non ha valore legale, ma fa ottenere 15 crediti formativi. A breve possibili ricerche mirate di professionisti aperte a tutti

Studi professionali

Certificazione:
Lo standard internazionale Uni En Iso 9001 (l’ultimo aggiornamento è del 2015) certifica il sistema di gestione e organizzazione e può essere applicato anche agli studi professionali.
Permette di tenere sotto controllo il processo dell’attività


Percorso:
Gli studi certificati sono circa 100 per quanto riguarda architetti e avvocati e circa 50 per i commercialisti.
Discorso a parte per gli ingegneri (più di 6mila fra studi e società di ingegneria) perché il documento li agevola nella partecipazione alle gare.


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lunedì 29 gennaio 2018

Professionisti con timbro di qualità

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

La certificazione di qualità muove i primi passi anche fra i professionisti iscritti agli ordini. Per attestare le specializzazioni e le competenze individuali, in prima fila tra le categorie ci sono gli ingegneri, mentre per gli studi legali è stata approvata la prima prassi di riferimento che permette
di certificare i sistemi di gestione e di organizzazione. La certificazione comincia a farsi strada anche tra i professionisti. L’attestazione delle competenze professionali o della qualità dell’organizzazione del proprio studio rappresenta infatti una carta da giocare in un mercato sempre più competitivo. Una carta utile anche se del tutto volontaria poiché per i professionisti iscritti a ordini o collegi non esiste alcun obbligo di certificazione.


Due possibilità  

Quando si parla di certificazione di solito si intende l’attestazione di qualità di un prodotto ad opera
di un organismo indipendente.
Per i professionisti la certificazione può, invece, prendere due strade a seconda che riguardi lo
studio professionale o il singolo: nel primo caso viene certificato il modello organizzativo, mentre
nel secondo le competenze.
La prima strada è quella seguita dalla prassi di riferimento messa a punto da Asla (Associazione studi legali associati) in collaborazione con Uni (l’ente italiano di normazione). Ratificata il 27 ottobre scorso, può essere applicata da tutti gli studi. La seconda è invece stata attuata dal
Consiglio nazionale ingegneri e punta a certificare le competenze del professionista. Un modello cui intendono ora ispirarsi anche i geometri.
 

L’organizzazione
Per certificare uno studio professionale si può ricorrere allo standard internazionale Iso 9001 (aggiornato nel 2015), che attesta la qualità del sistema di gestione e organizzazione. Finora questo strumento è stato poco utilizzato. «La percezione - spiega Filippo Trifiletti, direttore generale di Accredia (l’ente di accreditamento nazionale che attesta l’indipendenza e l’imparzialità degli organismi di certificazione) - era che riguardasse solo i processi industriali.
Ma la crescente complessità della società sta cambiando lo scenario». Ad oggi, però, secondo
Accredia sono solo una cinquantina di studi di commercialisti certificati Iso 9001: un centinaio
gli studi legali e di architettura.
«Per gli avvocati, la norma Iso 9001 è difficilmente applicabile, perché non risponde alle peculiarità della professione», spiega l’avvocato Marco Ferraro, membro del Consiglio direttivo di Asla che insieme ad Uni ha promosso l’elaborazione della prima prassi di riferimento pensata proprio per gli studi legali.
Non esistendo obblighi normativi, né incentivi o agevolazioni, i benefici della certificazione si misurano in termini di vantaggio competitivo. «Senza un’organizzazione dei processi e una gestione avanzata dei rischi non c’è futuro per una professione che in questi anni è stata stravolta da innovazioni e progresso tecnologico - continua Ferraro -. E questo è vero soprattutto per gli avvocati che si confrontano con le attività produttive. I costi, per uno studio medio, sono di circa 8-10mila euro annui ma i benefici in termini di aumento della produttività, efficienza, riduzione dei rischi e crescita professionale (in particolar modo per i giovani grazie alla condivisione delle informazioni) sono molto maggiori». 


Le competenze
Strada diversa è quella della certificazione delle competenze, cui guardano soprattutto le professioni tecniche. A fare da apripista sono gli ingegneri (...) a cui intendono ispirarsi i geometri che puntano però su un sistema integrato per tutte le professioni tecniche: «Sarebbe meglio creare un organismo unico - dice il presidente del Collegio nazionale, Maurizio Savoncelli - perché l’interdisciplinarietà è vincente. La certificazione delle competenze è l’approdo di tutte le professioni tecniche: coniuga le conoscenze accademiche con il saper fare». I geometri, insieme con l’Uni, hanno già messo a punto 47 standard di qualità (in fase di aggiornamento) che indicano le modalità di svolgimento di altrettante prestazioni professionali. «È un percorso guidato, una check list che permette al professionista di rendere prestazioni di qualità e al committente di comprendere se l’onorario è adeguato ».
Infine, c’è chi ha deciso di non intervenire. Il Consiglio nazionale degli architetti ha scelto di non avviare propri percorsi di certificazione «perché - spiega il consigliere Marco Aimetti - per i
nostri iscritti esistono già corsi di specializzazione (...)».


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venerdì 26 gennaio 2018

Welfare: i manager chiedono aggiornamento professionale

(Fonte: "Affari&Finanza")

Al primo posto ci sono i servizi e prodotti integrativi della sanità pubblica, seguiti dall’aggiornamento delle competenze e dalla consulenza e proposta di prodotti previdenziali. Si tratta delle esigenze più avvertite dai manager italiani, soprattutto in chiave prospettica, secondo un
sondaggio condotto da AstraRicerche per Manageritalia. Risultati che risentono dei cambiamenti
in atto nella società e nell’economia, con lo Stato sempre meno in grado di assicurare servizi di welfare e i privati chiamati di conseguenza a provvedere almeno in parte. Il tutto mentre il mercato
evolve rapidamente, rendendo presto desuete le competenze acquisite dietro i banchi e sul campo. Su
un campione di mille intervistati, l’87,3% dichiara di sentire l’esigenza di un’organizzazione che rappresenti e aggreghi professionalità e interessi comuni (e il 70% sottolinea che questa esigenza è cresciuta negli ultimi anni), mentre solo il 12,7% afferma di non avvertire un gran bisogno in tal senso. 


In particolare, per quel che concerne i bisogni legati alla sfera professionale, la priorità è legata ai servizi e prodotti integrativi della sanità pubblica.
A sottolinearne l’importanza è il 91% dei dirigenti, l’84% dei professional (in genere consulenti, partita Iva o contratto a progetto) e il 75% dei quadri. Al secondo posto c’è l’aggiornamento delle competenze, reputato necessario dall’88% dei dirigenti, dall’85% dei professional e dall’87% dei
quadri. A chiudere il podio delle questioni su cui i manager chiedono un supporto è la consulenza
sui prodotti previdenziali.


A seguire, tra le necessità fortemente avvertite da chi occupa posizioni elevate in azienda vi è il
supporto nella gestione delle fasi di transizione professionale, che possono creare spaesamento nei
singoli professionisti. A chiudere la top sono i servizi e prodotti per la propria famiglia, rinconducibili alla sfera del welfare.
Scorrendo la classifica, al sesto posto tra le priorità vi è lo scambio informativo e culturale su aspetti
professionali e di business con colleghi e esperti, mentre al settimo il supporto per lo sviluppo professionale e all’ottavo l’assistenza contrattuale/legale. Il 74% dei dirigenti, poi, avverte l’esigenza di un contratto che sia una buona base di partenza del rapporto di lavoro e il 65% avverte la necessità di sviluppare competenze differenti da quelle attuali in modo da poter acquisire maggiore appetibilità sul mercato del lavoro.


I manager hanno la consapevolezza di trovarsi in un contesto sempre più complesso, con sfide
al contempo crescenti e stimolanti, ma esprimono forte preoccupazione per la mancanza di visione
e di indirizzo verso cui il Paese deve tendere da parte delle istituzioni e della politica.
L’esperienza di chi vive in prima persona queste esperienze offre una chiave di lettura dei risultati. “Chi svolge un ruolo da leader in azienda è tendenzialmente solo, ha poche occasioni di confronto con colleghi con il medesimo inquadramento”, riflette Giovanna Manzi, ceo di Best Western Italia. “Da qui l’utilità di poter contare su organizzazioni di categoria capaci in primo luogo di creare occasioni di confronto, considerato che il network e le relazioni sono i due fattori che maggiormente possono fare la differenza nelle carriere individuali, oltre alle imprescindibili competenze specifiche”. 


Dunque, se la necessità di contare su un’associazione di rappresentanza è destinata a essere avvertita ancora a lungo, cambia però la prospettiva. “Il corporativismo, l’arrocco sulle sole funzioni sindacali hanno spazi limitati”, aggiunge Manzi.
Un pensiero condiviso da Paolo Scarpa, con una lunga esperienza da direttore vendite per aziende
dell’hi-tech. “Un settore”, ricorda, “alle prese con una rapida evoluzione che comporta nuove opportunità, ma può anche dar vita a una minore stabilità di carriera, alla luce delle frequenti operazioni di merger & acquisition”. Da qui, aggiunge Scarpa, la necessità di poter contare su organismi di rappresentanza “capaci di creare occasioni di confronto per capire dove va il mercato, quali sono le competenze necessarie per crescere in un dato momento, oltre che di offrire servizi di consulenza e assistenza nei passaggi di carriera”.
A tirare le fila dei risultati è Guido Carella, presidente Manageritalia. “L’indagine conferma che i
processi di intermediazione non sono destinati a scomparire. Al contrario”, riflette, “serve che i
corpi sociali trovino modelli più evoluti per svolgere il loro ruolo di rappresentare i bisogni e gli interessi di riferimento”. Quindi ricorda: “I manager esprimono la necessità di essere rappresentati
a livello sindacale, contrattuale e per lo sviluppo professionale, in modo da contribuire alla crescita
del Paese. Quindi c’è bisogno di una rappresentanza che sappia tenere il passo di quel che serve oggi per la professione, per dialogare con politica e istituzioni, per contribuire allo sviluppo economico e nel sociale”


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giovedì 25 gennaio 2018

Lecito il licenziamento tramite e-mail

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Una comunicazione via email, senza firma digitale e fuori dal circuito Pec, della lettera di licenziamento (allegata in formato Pdf al messaggio) costituisce e configura “atto scritto”, secondo
quanto previsto dalla legge 604/1966. Così ha deciso la Cassazione, con la sentenza 29753/2017, a condizione che sia dimostrato o riconosciuto che il messaggio e relativo allegato siano stati ricevuti dal lavoratore.
Infatti, dice la Corte , «il requisito della comunicazione per iscritto del licenziamento deve
ritenersi assolto, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualunque modalità che
comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità».
Nel caso specifico, la prova del ricevimento del messaggio (e del relativo contenuto) stava in una successiva comunicazione che il lavoratore aveva inviato a tutti colleghi, sempre a mezzo e-mail, informandoli che non avrebbe più lavorato presso l’azienda. Chiaramente una tale iniziativa del dipendente era incompatibile con la sua tesi, volta a negare che gli fosse stata offerta e letta la lettera di licenziamento.
La Corte richiama poi il proprio precedente specifico (sentenza 23061/2007) che già affermava tale principio. E si deve ricordare anche l’ordinanza del 27 giugno 2017 del tribunale di Catania che, per analoghe ragioni, ha ritenuto legittimo, sotto il profilo della sussistenza della forma scritta e della validità della sua comunicazione, il licenziamento intimato a mezzo whatsapp.
La valorizzazione della “materialità” dell’atto dà luogo peraltro a una ricca casistica, con diverse soluzioni. E infatti il tema è particolarmente sentito nella pratica, anche in relazione alla ipotesi (contigua) di “consegna a mano” della lettera di licenziamento, che spesso viene rifiutata dal lavoratore (che ritira la lettera ma non ne rilascia ricevuta o che rifiuta anche solo di ritirarla).
Secondo la Corte, l’obbligo di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati deve ritenersi esistente nell’ambito del lavoro subordinato, in forza del vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta, per ragioni funzionali al rapporto di lavoro, una soggezione del dipendente al datore di lavoro. E tuttavia la prova che l’atto scritto di licenziamento (in ipotesi rifiutato dal lavoratore) esistesse al momento del tentativo di consegna rimane a carico del datore di lavoro.
Insomma: la trasmissione della lettera può avvenire anche con forme svariate (anche via e-mail,
a mano...), ma vi deve essere rigorosa prova che la trasmissione è stata reale ed effettiva.


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mercoledì 24 gennaio 2018

Passaggi aziendali senza traumi

(Fonte: "Italia Oggi")

E' chiamato ad affiancare il management per verificare l'efficacia dei comportamenti e dei processi organizzativi e per orientarli in funzione della nuova organizzazione aziendale: è il principale compito dell'executive mentor, un esperto che interviene soprattutto nelle situazioni di discontinuità, come per esempio nel passaggio generazionale dal fondatore ai figli oppure dalla gestione padronale a quella manageriale. In quanto tale, non si tratta di un intervento full time. Il suo ruolo quindi è quello di osservare come lavora il management aziendale su determinati processi e programmi, saper leggere i comportamenti organizzativi, saper valutare l'efficacia dei comportamenti e saper restituire nel modo giusto le sue osservazioni, affinché queste possano tradursi in un effettivo miglioramento delle performance.

Il profilo dell'executive mentor è quello di un consulente con seniority molto elevata, quindi almeno 15-20 anni di esperienza, e un'esperienza maturata in contesti molto differenziati: dalle grandi multinazionali, dove apprendere le competenze legate a una forte strutturazione dei processi, alle realtà imprenditoriali o padronali, in cui l'organizzazione è meno strutturata ma sono centrali le capacità di relazione con l'imprenditore.

Le competenze richieste sono principalmente skill manageriali e personali, in particolare nell'ambito della relazione e della comunicazione. Per questo motivo, spesso questo profilo viene da esperienze nell'ambito delle relazioni umane, ma non è indispensabile.

(...)

Il punto debole nei processi di cambiamento dellle pmi italiane sta sempre nel passaggio dalla cultura padronale a quella manageriale (...), per questo è importante curare con estrema attenzione questa fase di trasformazione e le situazioni di potenziale conflittualità che essa genera.

(...)

Dal punto di vista pratico, un programma di executive mentoring prevede diversi passaggi, che iniziano con la raccolata delle informazioni sull'azienda e sui suoi obiettivi strategici e la valutazione della sua struttura organizzativa. Segue la condivisione dei risultati con azionisti e stakeholder e la progettazione dell'intervento. E' a questo punto che prende avvio l'attività di executive mentoring vera e propria che comporta l'affiancamento di un consulente al team manageriale, per suggerire i corretti comportamenti su vari aspetti della vita aziendale: dalla gestione del rapporto capo/collaboratore al lavoro in team; dalla costruzione dell'engagement tra tutti i componenti del team all'orientamento al risultato.

(...)

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martedì 23 gennaio 2018

Tirocini, ogni regione fa da sé

(Fonte: "Italia Oggi")

Tirocini: qualcosa è cambiato in termini normativi, ma più sulla carta che nella realtà. Perché, dopo quasi otto mesi dall'approvazione delle nuove linee guida per i tirocini extra-curriculari (...), solo poche regioni le hanno di fatto recepite. Lazio, Calabria, Sicilia, Basilicata, Veneto, Lombardia, Molise, provincia autonoma di Trento e Liguria. Nelle altre, la situazione è varia e procede in maniera disomogenea. Alcune regioni non hanno ancora neppure cominciato a elaborare il nuovo testo. Altre hanno avviato tavoli con le parti sociali e sono a metà dell'opera. Fermo restando che nelle regioni "in attesa di recepimento" resta ovviamente in vigore la normativa precedente, occorre sottolineare che, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, intervenuta nel 2001, la materia è di esclusiva competenza regionale, per cui solo un tratto della parabola normativa dell'istituto è ascrivibile al legislatore nazionale.

(...)

Amndiamo ad analizzare, regione per regione, quali sono le novità, alla luce del monitoraggio di Adapt sui tirocini extracurriculari a sei mesi dalle nuove linee guida approvate (...).
Partendo da una prima definizione: quella di "stage" o "tirocinio". E cioè un momento di formazione in "situazione", di apprendimento di tipo pratico ed esperenziale finalizzato alla crescita personale e professionale del soggetto da formare, mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro.
In altri termini, preso atto dell'importanza di un moderno sistema formativo incentrato sulla combinazione tra momenti di studio e momenti di lavoro, come fasi diverse di un unico modello formativo, il tirocinio altro non è che la variante pratica di questo modello, che può instaurarsi tanto all'interno di un contratto di lavoro (a contenuto formativo) come nel caso dell'apprendistato, quanto al di fuori di esso come nel caso del tirocinio formativo e di orientamento che non è mai configurabile come rapporto di lavoro. Allo stesso tempo il tirocinio formativo e di orientamento è uno strumento di politica attiva, per agevolare, attraverso l'acquisizione di competenze, l'ingresso di un numero sempre più ampio di soggetti nel mondo del lavoro.

Tra le principali novità previste dalle linee guida citate, vi sono: la durata massima degli stage stabilita a 12 mesi e quella minima a 2 mesi; e l'introduzione di nuovi soggetti abilitati all'attivazione dei tirocini e l'ampliamento sia dei compiti del soggetto promotore sia di quelli del soggetto ospitante. Il tirocinio non può durare meno di 2 mesi, a eccezione, si precisa, di quello svolto presso soggetti ospitanti che operano stagionalmente, per i quali la durata minima è ridotta a un mese.
Per quanto riguarda i soggetti promotori, sono introdotti tre nuovi soggetti abilitati all'attivazione dei tirocini: le fondazioni di istruzione tecnica superiore (Its), l'Anpal (l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, che naturalmente nel 2013 non esisteva), e i soggetti autorizzati all'intermediazione dall'Anpal stessa. Se, tuttavia, non si fanno differenze per l'attivazione di tirocini regionali, le cose cambiano quando si tratta di mobilità interregionale: non tutti gli enti promotori saranno, infatti, abilitati a promuovere tirocini presso soggetti ospitanti situati al di fuori del territorio regionale. L'autorizzazione, in questo caso, riguarda solamente i servizi per l'impiego e le agenzie regionali per il lavoro, gli istituti di istruzione universitaria statali e non statali abilitati al rilascio di titoli accademici e dell'Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica) e le fondazioni di istruzione tecnica superiore.

Con riferimento alla durata, quasi tutte le regioni si discostano dalle linee guida nazionali, fissando la durata massima a 6 mesi, proroghe comprese (fanno eccezione Sicilia e Basilicata). 

(...)

Altro parametro introdotto è l'indennità di partecipazione, rispetto alla quale è interessante evidenziare che nessuna regione si allinea a quanto stabilito dalle linee guida nazionali (fatta eccezione per la sola regione Sicilia che conserva il minimo dei 300 eruro mensili). La maggior parte delle regioni fissa i tetti massimi previsti per le indennità tra i 450 euro e i 660 euro. O poco più giù come la regione Calabria che fissa l'importo minimo a 400 euro. Eccezion fatta per la regione Lazio, che ha deciso di innalzare l'indennità prevista fino a 800 euro.

Ciò che ne viene fuori (...) guardando la mappatura dei punti qualificanti (come indennità di partecipazione e durata), è però l'idea di uno stravolgimento della funzione più nobile e di prospettiva dei tirocini nei percorsi formativi dei giovani, condizionato da un eccesso di tirocini di dubbia natura (piuttosto che da misure di reale occupabilità per i giovani). Un'evoluzione (o involuzione) che non poco inciderà sul funzionamento del mercato del lavoro, anche ai danni dell'apprendistato.

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lunedì 22 gennaio 2018

Ancora sul welfare aziendale

(Fonte: "L'Impresa")

(...)

Il primo Osservatorio Mbs Consulting sul welfare delle famiglie italiane rivela che nel 2016, in Italia, la spesa complessiva per il welfare è stata di 666,6 miliardi di euro (37% del Pil) e che le famiglie vi hanno contribuito per 109,3 miliardi (6,5% del Pil). Accade sempre più spesso che l’offerta pubblica dei servizi di welfare, anche in aree basilari come salute e istruzione, non
riesca a rispondere adeguatamente alle esigenze delle famiglie e che l’acquisto di detti servizi risulti troppo oneroso. Secondo l’osservatorio, il 76,2% delle famiglie ha dovuto rinunciare all’assistenza degli anziani, il 36,7% alle cure sanitarie e il 41,1% ai servizi per la cura dei figli. «Dalla nostra
ricerca risulta che nel 2016 tre famiglie su sette hanno rinunciato a cure sanitarie importanti – spiega  Andrea Rapaccini, consulente aziendale e presidente di Mbs Consulting –, è dunque da quei bisogni che bisogna partire e non dai parametri del welfare pubblico. Manteniamo ancora
un’impostazione obsoleta, basata su un mondo che non esiste più: oggi quasi la metà delle famiglie sono monocomponenti e quella fonte primaria di welfare che erano i nonni sono sempre più merce rara».
 

L’opportunità di integrare valore economico e sociale
In questo scenario, se da un lato è raddoppiato (dal 9,8% al 18,3%) nell’ultimo anno il numero delle imprese che ha avviato piani di welfare aziendale (dati del Rapporto 2017 delle Assicurazioni Generali sullo stato del welfare nelle Pmi), non si può dire altrettanto del corretto approccio da parte di molte aziende, ma anche delle istituzioni, a un settore in crescita e che, con un occhio al futuro, sembra rappresentare anche un’efficace opportunità di investimento. «C’è già un mercato in
evoluzione – precisa Rapaccini – quindi è sbagliato intendere il welfare come un costo, è piuttosto una risorsa, e penso a tutte quelle forme di impresa capaci di integrare valore economico e valore sociale, come le mutue o l’impresa sociale, operanti in un ambito che è perfetto per sperimentare
soluzioni di welfare adatte alle priorità del nostro tempo». Tra gli esperimenti più interessanti del momento c’è senza dubbio quello di Confartigianato, che con gli enti bilaterali, già 30 anni fa, fu tra le prime associazioni di categoria a offrire servizi che includevano già prestazioni di welfare. 


L’iniziativa di Confartigianato parte dai territori
Attraverso una rete di operatori e specialisti territoriali e le partnership con soggetti nazionali e locali, l’associazione ha sviluppato una serie d’iniziative e servizi basati sui bisogni di ogni territorio. Incrociando quattro aree d’offerta (welfare per imprese; salute e prevenzione; assistenza
e conciliazione vita-lavoro; educazione e istruzione), Confartigianato opera sia come erogatore di servizi, sia come distributore di servizi erogati da terzi. Attraverso una piattaforma che eroga servizi
che vanno dalla sanità all’istruzione, fino all’assistenza per persone non auto-sufficienti e alla cultura e tempo libero, il progetto “Nuovo sociale” ha la caratteristica di essere pensato sulle esigenze dei singoli territori e sulle differenze tra questi territori e le varie categorie di artigiani.
«Gran parte della produzione italiana è caratterizzata dall’economia territoriale – spiega il segretario nazionale di Confartigianato Cesare Fumagalli–, che ha la sua ragion d’essere in quelle stratificazioni di competenze, come i distretti. Se non tuteliamo il benessere di chi lavora sul territorio, finiremo per perdere l’esperienza, le competenze e, in definitiva, gli elementi che hanno reso inimitabile quella produzione».
 

Il fronte del welfare comunitario
La condizione essenziale per realizzare il nuovo welfare è creare reti che includano aziende, associazioni, organizzazioni sindacali, istituzioni pubbliche e soggetti del terzo settore, e in questo senso l’esperienza dell’associazionismo fa da aiuto e da traino, fornendo anche soluzioni alla disparità tra Pmi e grandi aziende nella capacità di fornire soluzioni di welfare.
«Un solo artigiano non può permettersi l’asilo aziendale – sottolinea Rapaccini –, ma 30 artigiani sì, dunque nasce così un welfare comunitario, che può dare forza e continuità al sistema e permettere anche al piccolo operatore di usufruire di servizi di welfare come se fosse un dipendente».
«Spesso le iniziative di welfare delle Pmi nascono nel silenzio e non arrivano ai giornali – continua Fumagalli –, sono fatte in autonomia e noi spesso ci limitiamo a raccogliere ciò che di più creativo è
stato fatto. Non vogliamo standardizzare le esperienze, restiamo il più possibile aderenti a quelle diversità da cui è fatto il mondo delle microimprese». Così Confartigianato censisce le singole attività nate nei territori e le ripropone altrove, replicandole o adattandole. Si tratta di iniziative spesso originali, come quella di un’impresa femminile di 9 donne che si è inventata un sofisticato sistema di “banca delle ore”, regolamentando la modalità di entrata e uscita dal lavoro con un sistema «Degno di un consulente professionista», racconta Fumagalli.
 

(...)

La necessità di differenziare i servizi di welfare in base al territorio emerge chiaramente anche da altri dati dell’Osservatorio di Mbs Consulting, come la seconda voce di spesa di welfare delle famiglie, che è quella dei supporti al lavoro (31,2 miliardi), ovvero le spese di trasporto e di alimentazione necessarie per lavorare, sostenute da 16,6 milioni di famiglie, per un importo medio annuo di 1.877 euro.
«Per chi vive in città, un aiuto in questo senso è fondamentale – spiega Fumagalli – e l’inserimento nella legge di Stabilità di agevolazioni fiscali per gli abbonamenti al trasporto pubblico va nella direzione giusta». (...)


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venerdì 19 gennaio 2018

Per innovare serve la gerarchia

(Fonte: "Corriere della Sera Economia")

Gerarchia sì, ma quanto basta. E superiamo, senza patemi d’animo, la ricetta politically correct della struttura piatta, che per qualche decennio è stata mitizzata come la migliore soluzione per orientare i membri dell’organizzazione all’autoresponsabilizzazione e alla deburocratizzazione.
Era stato infatti l’intero Novecento della rivoluzione industriale a consacrare l’ organizzazione piramidale e verticistica come il paradigma per una gestione ordinata e programmata. Poi, alla fine del secolo scorso, era emersa prepotentemente la Scuola delle organizzazioni piatte e snelle. Via allora il maggior numero di livelli di middle management, connettendo direttamente il vertice e la base, con il risultato di un assetto più semplificato e più celere nell’operatività! E di conseguenza, un personale con un ruolo più attivo nel processo decisionale e più motivato sui compiti ricchi e meno procedurizzati. Di fatto la morte della gerarchia e del classico rapporto asimmetrico capo-subordinato, sostituiti da un’organizzazione con status paritetico e con uno stile di direzione meno
verticale e più esteso in senso orizzontale. Il classico ristretto ambito di controllo del taylorismo veniva sostituito con un rapporto molto più ampio, dove i sottoposti ricevevano deleghe ampie e relativo empowerment.


Adesso, a sorpresa, i ricercatori innalzano bandiera bianca. Il mito dell’organizzazione piatta va sfatato. Ci eravamo sbagliati e forse avevamo messo troppa enfasi retorica nella nuova formula. E infatti, dagli studi contemporanei si nota che, se tutto è troppo piatto e se il controllo è troppo lasco, c’è spazio per una eccessiva defocalizzazione delle persone e la ambita pariteticità (ahinoi,
quant’è difficile la democrazia!) spesso alimenta conflittualità ingovernabili.
Un articolo di due scienziati di management, Bret Sauner e J. Stuart Bunderson, sul numero di dicembre 2017 della Sloan Management Review del Mit di Boston, esamina i comportamenti di più di 100 aziende high tech contenute nella lista di Fortune. E arriva a teorizzare che i processi di innovazione, per essere concreti e portati a termine con successo, necessitano di un tocco di
gerarchia. Ridurre la gerarchia quindi, secondo loro, può anche non essere conveniente.
Anche nelle specie animali, dalle antilopi alle zebre, il capobranco nei passaggi più difficili è indispensabile. E così nelle tribù, nelle chiese, negli eserciti, nei movimenti politici. E nelle aziende non può essere diverso, quando occorre scegliere una nuova direzione di marcia e quando le posizioni dei diversi membri della collettività sono divergenti. Il necessario coordinamento non può operare senza una buona linea di comando, che aiuti a concretizzare il potere e a consolidare uno status sociale ormai sempre più basato sulla competenza che non sull’anzianità.


L’articolo spiega proprio come nei momenti di maggiore innovazione – proprio nei processi destrutturati che noi battezziamo come brain storming per affrontare problemi inesplorati — occorre che qualcuno del gruppo giochi un ruolo più autocratico, magari anche solo per un periodo di tempo
limitato. Il saggio del Mit sostiene che la gerarchia aiuta le persone a meglio generare, identificare e a selezionare nuove idee. In particolare sviluppando tre funzioni critiche: 

a) delimitare le possibili linee di azione;
b) convergere su un numero limitato di soluzioni
c) implementare le scelte in modo strutturato, integrando le diverse competenze specialistiche

Così facendo i collaboratori non saranno lasciati al loro indipendente laissez-faire e si confronteranno sulle condizioni vincolanti (come il tempo, il budget, le aspettative dei clienti e del
mercato, le reazioni dei concorrenti, e così via) che aiutano a mettere in priorità le scelte più efficaci da quelle magari più fantasiose ma irrealistiche.
Elogio della gerarchia dunque, dopo una forte ubriacatura della democrazia orizzontale? No, non esageriamo, solo un pizzico, quanto basta. Come il gesto dello chef quando aggiunge l’ingrediente prezioso alla ricetta. D’altra parte non è forse vero che – come la qualità culinaria in cucina – anche il management eccellente è fatto sì di scienza, ma anche dall’arte del dosare?


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giovedì 18 gennaio 2018

Social eating aziendale

(Fonte: "Affari&Finanza")

Dovrebbe  essere  un  momento piacevole ma spesso si trasforma in un’ulteriore occasione di stress. La pausa pranzo, nei piccoli studi quanto nelle mega aziende, è di difficile organizzazione. Il capo che urla, il collega che impone una riunione puntualmente  alle  13,  il  ristorante  del quartiere che sembra voglia avvelenare  i  malcapitati.  La  vecchia abitudine di tornare a casa per un piatto caldo? Praticamente impossibile. Il pranzo fuori casa è ormai uno stile di vita per 34 milioni di
italiani che spesso però si accontentando di un panino, una pizza, o al massimo un primo.
Ecco  allora  la  novità.  Molte aziende cominciano a puntare alla pausa “social” per dare più serenità  ai  dipendenti.
Prenderà così sempre più piede, nel 2018, il fenomeno del “social eating aziendale”. Nato nella Silicon Valley, si sta diffondendo anche in Italia soprattutto tra start up e giovani aziende tecnologiche. Uno studio di un gruppo  di  ricercatori in  scienze  sociali  e scienze  nutrizionali,
della Cornell University, ha dimostrato come il rituale del consumo dei pasti insieme è una sorta di “collante sociale”.  Di  più:  migliora le performance dei dipendenti fino a far raddoppiare la cooperazione tra i membri del team. La pausa pranzo come metodo dunque:  team  building  in  cucina,  networking  e  benefit aziendali.


(...)


L’Osservatorio sul Food Delivery (...), fotografa il fenomeno delle ordinazioni per il pranzo dai luoghi di lavoro. C’è una  crescita  importante,  pari  al più 137% nell’ultimo anno (...) il 36% prenota il pranzo dalle due alle tre volte al mese e il 32% lo fa in gruppi di colleghi. Chi sono i professionisti che preferiscono mangiare in ufficio? Il 41% sono impiegati, il 18% liberi professionisti, il 33% studenti. I più appassionati del digital food  delivery  sono  quelli che lavorano nel settore sanitario che scelgono hamburger e insalate. I commerciali fanno grandi ordini di
giapponese,  hamburger  e panini o piadine. E ancora: chi lavora nella comunicazione  e  nel  marketing ama  soprattutto  panini  (il 41% in più rispetto a chi fa parte  dell’industria  del
food  &  beverage)  e  cibo giapponese (il 53% in più rispetto ai designer del mondo della moda); i nuovi professionisti del digitale sono invece fanatici di hamburger  che  scelgono  nell’82% dei  casi,  mentre  i  bancari amano la pasta per il 71% in più di chi lavora nel mondo dello spettacolo.
Se poi il digital food delivery è un fatto generazionale ecco come ad usarlo maggiormente sono i lavoratori millennial (26-35 anni) a pari  merito  con  la  Y  generation (entrambi rappresentano il 36%), seguiti  dalla  generazione  degli Xennial (36-45) con il 20% e dagli over 45 (8%). E ancora ci sono delle differenze per zone geografiche.
Le città in cui si ordina frequentemente il pranzo sono Milano, Bologna,  Roma,  Torino  e  Genova,
ma il trend cresce con ritmi sostenuti  in  altre  aree:  in  testa  Pisa (+1186%),  ancora  Bologna
(+685% ), Brescia (+298%) e Catania (+222%). Cambia anche la qualità: un’impennata notevole degli ordini di cibi healthy come insalate, burger veg o piatti vegetariani, è in aumento a Trieste e a Bari; i tramezzini sono in salita a Torino, le crepe a Bologna, o ancora un trend positivo sulle cucine straniere più particolari come quella peruviana ordinata a Roma, l’indiano a Pisa e lo spagnolo e il medio orientale a Milano. Infine una buona notizia: i lavoratori italiani hanno una crescente attenzione all’alimentazione bilanciata, più dei cittadini di altri paesi europei. Lo dice il sondaggio
Food (Fight Obesity through Offer and Demand) 2017, presentato al Parlamento  europeo.  Il  progetto (cui aderiscono ong, imprese, istituzioni e università di tutta l’Ue) raccoglie interviste e nel 2016 ha coinvolto oltre 20 mila lavoratori e 1.300 ristoratori in Austria, Belgio, Repubblica  ceca,  Francia,  Italia, Portogallo, Slovacchia e  Spagna.
Nel 2016, l’87% degli italiani ha dichiarato  di  considerare  l’equilibrio nutrizionale dei pasti serviti
un criterio importante per la selezione di un ristorante. Ma soprattutto il valore è in crescita rispetto
al passato e al di sopra della media degli altri paesi Ue (77%).


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mercoledì 17 gennaio 2018

Partnership tra generazioni

(Fonte: "L'Impresa")

Nel corso di un intero mese si è svolta in Italia una grande sperimentazione sociale all’insegna
del motto “simulando s’impara”. Poco meno di cento squadre miste, composte da studenti universitari e da manager affermati, hanno vissuto un’avventura all’insegna della collaborazione intergenerazionale. 


(..)

In un contesto web based, il team di gioco di ciascuna “impresa virtuale” si è ingaggiato per raccogliere profittevolmente sfide di mercato attraverso l’investimento di capitale sociale intergenerazionale. I risultati conseguiti complessivamente sono interessanti, perché sfatano alcuni luoghi comuni che sottolineano come il “digital divide” fra generazioni costituisca una barriera spesso insormontabile allo sviluppo della cooperazione. 

Collaborare è possibile e utile 

Alla luce di quanto è accaduto (...), non è così. Infatti, dalla sperimentazione risulta evidente come la collaborazione fra generazioni sia possibile e produttiva quando prevalga un’atmosfera di riconoscimento intergenerazionale reciproco. Dall’altro lato, tale collaborazione risulta non ostacolata ma, al contrario, facilitata dalla progressiva diffusione trasversale delle competenze digitali. Nello scenario attuale convivono ben quattro generazioni (i baby boomers, la generazione X,
i Millenials e la generazione App) con storie differenti e, soprattutto, con un imprinting digitale largamente differenziato. Una sfida importante è, quindi, quella di riuscire a collaborare positivamente fra generazioni. Nella “società del rancore”, così come è stata definita l’atmosfera italiana attuale nel rapporto Censis di quest’anno (...), la diversità generazionale appare fondamentalmente come un disvalore, mentre dal laboratorio intergenerazionale (...) la situazione appare diversa ossia più inclusiva: non è il rancore fra generazioni a dominare, ma il riconoscimento reciproco e la collaborazione fra generazioni diverse risulta essere al centro. Al termine delle tornate di gioco i partecipanti (...), sia junior che senior, hanno espresso il loro punto di vista sulle sfide del rapporto fra generazioni alla luce dell’esperienza vissuta nel gioco. Nel complesso i partecipanti suggeriscono che la collaborazione intergenerazionale abbia costituito non un problema, ma un’opportunità. In estrema sintesi, l’immagine della collaborazione tra generazioni restituita dai
partecipanti è quella di un percorso collettivo di crescita, individuale e di gruppo, per prove
ed errori, alla ricerca di un equilibrio capace di generare risultati migliori grazie all’orientamento inclusivo di tutti. 


Scambio di saper essere e saper fare
Secondo l’esperienza della gran parte dei partecipanti (...), la multigenerazionalità costituisce più un’opportunità che una minaccia, a condizione che sia i giovani sia i senior si riconoscano reciprocamente come portatori di competenze distintive e complementari fra loro.
Un risultato importante dell’esperienza maturata dai partecipanti è proprio la loro enfatizzazione di
questa tesi. Infatti, una maggioranza qualificata dei partecipanti esprime delle opinioni che sottolineano l’idea cha la valorizzazione della collaborazione fra generazioni differenti possa essere una carta importante che i gruppi dirigenti delle imprese debbono giocare per avere successo. Qui di seguito, alcuni punti di vista dei partecipanti che consentono di meglio argomentare questa tesi. Anzitutto l’opinione che nel rapporto intergenerazionale che è stato sperimentato dal vivo durante
il gioco si sono realizzati veramente degli scambi dei rispettivi saper esseree saper faregenerazionali e che sono proprio tali scambi che hanno permesso di superare delle impasse rilevanti che si erano presentate nel corso del gioco. A questo proposito vale quanto detto da un partecipante: «Tu dell’altra generazione hai ciò che io non ho e che può essere utile ad entrambi per vincere assieme».
 

Processi di decisione più efficaci
Si mette in luce poi che la collaborazione fra generazioni rende possibile lo sviluppo di processi di
decisione originali, vale a dire non particolarmente sofisticati (o peggio barocchi), ma più evoluti e più capaci di far fronte alle sfide che ci si trova davanti, dei modi di decidere più in grado di far fronte bene e rapidamente a situazioni incerte e complesse. Il confronto senior/junior consente un processo sociale di “controllo incrociato” dei rispettivi orientamenti cognitivi di raccolta e
analisi delle informazioni, e fa sì che vengano continuamente affinati i rispettivi criteri di valutazione generazionali di riferimento delle scelte via via compiute. D’altra parte, la partecipazione intergenerazionale ai processi di scelta rafforza l’ingaggio del complesso degli attori. Questo
perché “le scelte condivise, in maniera trasparente, fra generazioni sono in grado di motivare di più”.
Insomma, (...) “i punti di vista diversi possono non essere un problema, ma al contrario divenire una risorsa” per il gioco. Ma non solo.
 

Simulando s’impara
Il risultato, non scontato, di questa esperienza costituisce anche il frutto di un processo di apprendimento virtuoso che si è realizzato durante il gioco all’insegna del motto “simulando s’impara”: una sorta di processo di crescita durante il lavoro seppure simulato. D’altra parte, imparare attraverso serious game complessi (...) può essere una via privilegiata da percorrere che consente di ottenere i vantaggi dell’apprendimento informale, per prove ed errori, realizzato sul campo scansando i pericoli connessi all’intreccio fra formazione e lavoro. Sempre più le organizzazioni di successo del mondo attuale sono rappresentate come degli spazi in cui si apprende
attraverso l’esperienza all’insegna di “sbagliando s’impara”. Le simulazioni complesse “mettono in scena”, al di fuori dell’ambiente di lavoro, un contesto lavorativo verosimile entro cui risulta possibile imparare attraverso il fare, senza mettere in pericolo il buon funzionamento
dell’organizzazione. Infatti, il potenziale che l’opportunità di scambio intergenerazionale porta con sé può produrre risultati tangibili solo a patto che si svolga un percorso di apprendimento e di crescita, al tempo stesso individuale e interpersonale ovvero, (...): «Slancio ed esperienza, se ben equilibrate, portano a far convergere l’intelligenza sui risultati da perseguire più rapidamente». E, ancora, un buon equilibrio tra le diverse disponibilità a correre rischi delle due generazioni come
è riportato in quest’esperienza di uno junior: «I senior possono essere “prepotenti”. A fin di bene, visto le loro esperienze e conoscenze… ma insieme si possono sviluppare idee che siano, sì, figlie dell’esperienza, ma rispettino i tempi brevi tipici dei giovani, che si buttano a pesce sulla nuova sfida».
 

La giusta tensione verso l’innovazione
Il rapporto con l’innovazione è un’altra tensione che si introduce quando generazioni diverse si incontrano e collaborano per il raggiungimento di un obiettivo comune per il quale bisogna trovare
il giusto equilibrio. Infatti, secondo alcuni partecipanti (...) se da una parte i “senior” che forti (anche troppo) dell’esperienza professionale e di vita maturata lungo un percorso il più delle volte unico, protraggono il “si è sempre fatto così”, tomba dell’innovazione e lapide delle opportunità, dall’altro, ci sono i Millennials che spingono per approcci innovativi, ma raramente si chiedono se quell’innovazione possa portare effettiva efficienza e soprattutto efficacia concreta. Insomma, il motto “simulando s’impara” risulta sempre più importante nell’era attuale caratterizzata sia dalla trasformazione digitale sia dalla presenza di generazioni diverse al lavoro. Ciascuna delle generazioni in gioco è depositaria di competenze utili al lavoro comune, purché siano valorizzate attraverso un dialogo costante che renda l’organizzazione un luogo di condivisione delle conoscenze, di apprendimento e d’innovazione continua.
 

Verso un esperanto multigenerazionale
Ci si è domandato se nell’era attuale dominata dalla trasformazione digitale e dalla velocità dei cambiamenti, la multigenerazionalità della forza lavoro costituisca una ricchezza oppure un vincolo. Su questo nel nostro paese ci sono punti di vista differenti fra cui quello estremo che punta alla rottamazione nel mondo del lavoro delle generazioni più anziane all’insegna del presupposto che, per innovare, occorre prima di tutto rompere i ponti con il passato.
L’esperienza fatta ci dà una lezione differente dagli stereotipi più diffusi sul tema, perché orientata verso il primato della collaborazione intergenerazionale. Quest’ultima intesa non solo come la strada maestra verso l’inclusione sociale, ma anche come la via principale per la crescita
professionale e per lo sviluppo delle organizzazioni. Se si adotta questa prospettiva, la sfida chiave riguarda il rafforzamento di forme di “organizzazioni multigenerazionali” innovative, perché capaci di apprendere attraverso il superamento delle barriere di comunicazione interculturale fra generazioni differenti. È questa un’operazione né facile né scontata. Infatti, da un lato abbiamo i lavoratori baby boomers e quelli della generazione X che si sono formati e hanno sviluppato le proprie esperienze professionali ben prima dell’affermazione della società d’Internet, mentre dall’altro ci sono Millenials e la generazione App, la cui formazione e sviluppo professionale ha avuto l’imprinting del mondo del web e dei social media.
 

Il volano delle competenze digitali
In sostanza, il tema è come valorizzare le differenze intergenerazionali che possono costituire un’immensa ricchezza, se si fertilizzano reciprocamente attraverso il lavoro di gruppo e l’integrazione organizzativa. Un elemento facilitante di quest’impresa è costituito dalla estensione esponenziale delle competenze digitali attraverso le generazioni a cui si assiste attualmente. Insomma potrebbe essere, paradossalmente, proprio la diffusione intergenerazionale delle competenze digitali uno degli importanti fattori costitutivi di un complesso linguaggio intergenerazionale fondato su una consapevole legittimazione reciproca: una sorta di esperanto che
renda fruttuosa la collaborazione fra generazioni differenti nel mondo del lavoro per produrre ricchezza e valore per tutti. In conclusione, i risultati che provengono da questa esperienza alla quale hanno partecipato un grande numero di squadre intergenerazionali dell’intera Penisola ci fa ben sperare sulla possibilità di affermarsi di nuove specie d’imprese che siano intergenerazionali e innovative e produttive assieme.


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martedì 16 gennaio 2018

La carica delle nuove professioni digitali

(Fonte: "Affari&Finanza")

Nell’epoca  del  lavoro  4.0 all’Italia per stare al passo serve DIO: non il padreterno ma il
digital innovation officer, in tecnichese  e-leader,  responsabile dell’innovazione digitale. E’ questa una delle “professioni del futuro” basate sulle competenze digitali di cui le imprese hanno gran bisogno ma che faticano a trovare.
Insieme a lui si cercano technology innovation managers (TIM), change  managers  (manager  del
cambiamento), agile coachs (facilitatore dell’innovazione), chief digital officers (capo dei servizi digitali) e IT process and tool architect (architetto  di  sistemi  e  processi IT).
«Sono professioni che racchiudono un insieme di competenze – spiega Giuseppe Mastronardi, professore ordinario di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il politecnico di Bari e presidente  dell’Associazione  italiana  per l’Informatica e il calcolo automatico (Aica) – indispensabili per gestire i cambiamenti imposti dall’uso di big data, mobile, social media e
problema  sicurezza.  Altra  figura chiave è quella del DPO, Data protection officer, responsabile della protezione dati e privacy: un regolamento Ue impone ai Paesi aderenti di essere in regola  con  le normative  sulla privacy  entro  il 25 maggio 2018.
I dati dovranno essere  messi  in sicurezza,  dagli ambienti  industriali  a  quelli giuridici agli uffici legali». 


E l’Italia? Tanto per cambiare siamo in ritardo.
«Il Paese non è l’ultimo ma è ancora  carente  di una consapevolezza  imprenditoriale»,  precisa
Mastronardi.
L’Osservatorio Competenze Digitali, promosso da Assinter Italia, Anitec-Assinform, Assintel, AICA,
con il supporto di MIUR e AgID, nel suo Rapporto 2017 ha svolto un’analisi sugli annunci web, osservando circa 175 mila vacancies tra il 2013 ed il 2016. Nel triennio si è osservato un tasso medio di crescita annuo pari al 26%, nel solo 2016 sono stati rilevati oltre 60 mila annunci, con un tasso di crescita rispetto al 2015 pari al 32%. «Il 48% della domanda si concentra a nord, il 40 solo in Lombardia. Poi troviamo Veneto, Emilia, Piemonte,  Toscana  e  Lazio;  al  sud  solo Campania e Puglia. La concentrazione  di  imprese  innovative  nel meridione  è  bassissima»,  spiega Mario  Mezzanzanica,  direttore scientifico del CRISP - Università di Milano-Bicocca.
Se si guardano le 6 professioni emergenti rilevate, gli incrementi da febbraio 2013 ad aprile 2017 sono pari al 280%. «Ormai in tutti i profili  professionali  è  necessario possedere competenze di tipo digitale per affrontare adeguatamente i singoli mercati», osserva Giorgio Rapari, presidente di Assintel.
«Il nostro Osservatorio ha stimato che nel triennio 2016-2018 il fabbisogno  complessivo  di  occupazioni Ict si attesterà tra le 61mila unità,  trend  confermati  da  fonti Eurostat in ottica europea», spiega Silvia Barbieri, responsabile Affari regolatori e Rapporti istituzionali di AssinterItalia - Associazione del le Società per l’Innovazione Tecnologica nelle Regioni.
Nelle Pmi manifatturiere, le professioni più richieste sono quelle legate alle attività di progettazione
e realizzazione di prodotto. «Sono richiesti  tecnici  non  necessariamente laureati ma con competenze orientate al prodotto fisico e alla sua costruzione; persone che abbiano  propensione  a  operare  in ambiente di fabbrica con competenze informatiche, capaci di interagire con robot e software», spiega Alfredo Biffi, docente di Sistemi Informativi presso la Sda Bocconi e  di  Organizzazione  Aziendale presso  l’Università  dell’Insubria, (Varese) e autore, con Pier Franco
Camussone, dell’indagine “Lavoreremo ancora? Tecnologie informatiche e occupazione”  (Egea,
2017),  commissionata da Aica.
«Inoltre,  i  processi di internazionalizzazione delle Pmi vedono  richieste  di personale  con
competenze commerciali  e di relazione con il cliente impiegabili sia nella logica  tradizionale sia attraverso il canale online».
Il problema è che queste figure non si trovano: «La scuola fatica a tenere  il  passo  con  l’evoluzione
delle conoscenze del mondo del lavoro – continua Biffi - e non riesce a modificare programmi e personale alla velocità e con la qualità necessarie; e poi si crede ancora che lavori di manifattura siano ormai superati e di secondo livello rispetto ad attività di “ufficio e relazione”, da qui la difficoltà dei ragazzi, quando scelgono gli  studi superiori, di essere attratti da materie tecnico-scientifiche». In attesa che la scuola si evolva, il problema della formazione e della riconversione è reale. «Bisogna che siano le aziende a farsi carico dello sviluppo del personale, cercando giovani promettenti e investendo su di loro, recuperando chi è già in forza lavoro con processi di riconversione», precisa Biffi.
Importante,  secondo  Stefano Pileri, presidente di Anitec-Assinform è anche avvicinare domanda
e offerta con nuovi canali di selezione digitali, più coinvolgimento delle aziende nei percorsi di formazione, più offerte di apprendistato, più incentivi per l’upskilling e il reskilling: «Le aziende associate ad Anitec-Assinform già sono in campo con investimenti e iniziative di collaborazione con Miur e Università».
Partire subito, insomma, anche con  soluzioni  sperimentali:  le aziende dei Paesi concorrenti non
aspettano.


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lunedì 15 gennaio 2018

Obsolescenza programmata da vietare?

Su QualitiAmo abbiamo parlato spesso di obsolescenza programmata. Ora in Francia viene messa per la prima volta sotto accusa e direi che il discorso è interessante da affrontare in un forum dove ci si occupa di qualità. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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venerdì 12 gennaio 2018

In Germania divari salariali rivelati per legge

In Germania  e in altri Paesi europei i divari salariali possono essere resi pubblici su specifica richiesta. Ce lo racconta "Il Corriere della Sera" e vorremmo sapere come la pensate sull'argomento. E' giusto o sbagliato secondo voi? 

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giovedì 11 gennaio 2018

Indulgenti o esigenti con se stessi?

Essere ambizioni o saper accettare anche le nostre fragilità? Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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mercoledì 10 gennaio 2018

L'inglese come lingua per il lavoro

L'inglese sta prendendo sempre più piede come lingua da utilizzare negli ambienti di lavoro. Ce ne parla "Il Corriere della Sera" e ci piacerebbe leggere la vostra opinione in merito.

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martedì 9 gennaio 2018

I buoni propositi per l'anno nuovo

(Fonte: "L'Impresa")

Nell’ultimo periodo con piacere ci rendiamo conto che il dibattito sul cambiamento delle organizzazioni ha preso un’accelerazione positiva. Dopo molti anni in cui le scelte organizzative e quelle relative alla gestione delle risorse umane erano viste come un “di cui” di quelle strategiche e di business, l’idea che le persone possano fare il successo di un’impresa viene presa sul serio. 

Siamo consapevoli che questo non riguarda tutte le organizzazioni, molte delle quali ancora alle prese con processi di razionalizzazione e rideterminazione del perimetro aziendale, ma respiriamo un clima coerente con l’andamento di timida ripresa della nostra economia.
 

Le persone non dimenticano
Tuttavia, questo riorientamento non è privo di conseguenze perché se una cosa differenzia le scelte
economiche classiche dalla realtà di quello che accade nelle persone è la memoria. Nei modelli astratti, le persone decidono sulla base delle informazioni che possiedono e considerano solo le conseguenze nel presente e nel futuro; nella realtà, invece, considerano anche la storia delle relazioni e quello che di questa storia hanno imparato. Ritornando a noi, quello che intendiamo dire è che il riorientamento nell’approccio che si respira sconta l’eredità di anni nei quali le persone sono state viste dalle organizzazioni come una variabile dipendente, meglio ancora disponibile, nel senso di “disposable”, ovvero di cui si può fare quello che si vuole. Purtroppo per quei manager, le persone hanno una memoria e tendono a ricordare quello che è stato il trattamento che hanno ricevuto. Comprensibilmente, quindi, il nuovo orientamento è in salita e si scontra con moltissima perplessità e resistenze anche a fronte di proclami volti a enfatizzare l’importanza dell’innovazione e del coinvolgimento delle persone.
 

Imprese anonime per i lavoratori
Il fatto che le persone abbiano memoria richiede che per far valere la loro motivazione o, come si
dice oggi, il loro engagement sia necessario impostare una relazione chiara e trasparente e mantenerla nel tempo. Le troppe azioni tattiche degli ultimi anni hanno eroso la fiducia delle persone che si sentono sempre meno protagoniste della vita e delle decisioni delle organizzazioni. Le imprese,
quindi, si trovano a dover superare la sfiducia proprio nel momento nel quale avrebbero bisogno di
persone motivate e desiderose di innovare e mettere energia nel loro lavoro. In una parola, molte
imprese sono diventate anonime per le loro stesse persone, perché invece di costruire una relazione
di fiducia giorno per giorno, anche accettando di sostenerla nei passaggi più difficili, hanno preferito seguire le soluzioni standard, tipicamente volte a ridurre il costo del personale. A poco servono i rituali progetti volti a definire i valori e a diffonderli. I valori non diventano tali se dichiarati, per
quanto si possa fare uso di strumenti di comunicazione. I valori si mettono in atto, si attualizzano
nella vita di ogni giorno dell’organizzazione.


Avete iniziato un piano di recupero?
Il logoramento del rapporto con le persone è il contrario di quello che potremmo imparare dalle storie di maggiore successo che invece mettono al centro il concetto di internal branding, ovvero di creazione di un ambiente nel quale l’attenzione che mettiamo verso il cliente diventa un elemento di
valore centrale anche nel rapporto tra le persone. Pensiamo all’attaccamento dei “baristas” di Starbuck o delle persone di Airbnb alla propria organizzazione e chiediamoci perché non corrisponde a quello di chi collabora con noi.
Sta iniziando un nuovo anno e certamente siamo più ottimisti del passato, ma dobbiamo chiederci se
nei nostri piani abbiamo previsto un’azione importante per recuperare la fiducia e la partecipazione delle persone. L’incertezza del contesto ambientale che permane può essere affrontata solo se diamo alla nostra organizzazione la capacità di innovarsi continuamente e questo passa per la capacità di uscire dall’anonimato e creare con le persone un rapporto che abbia alla base un senso, non una missione o qualche astratta descrizione, ma un vero e proprio senso e significato che dia valore a
quel tempo che le persone passano lavorando per la nostra impresa.


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lunedì 8 gennaio 2018

Portare gli animali in ufficio?

Iniziamo l'anno con un argomento leggero: cani in ufficio...sì o no?

(Fonte: "La Sette")

Cani e gatti aiutano a combattere lo stress e rendono più produttivi. Pensiamo più alla nostra comodità che al loro benessere. (...)
Dove sta la verità?

SI'

Portare il Proprio cane in ufficio è un’ottima idea, a patto che il luogo sia adeguatamente organizzato.
Non fa bene solo al padrone del cucciolo, ma anche all’azienda. Negli Stati Uniti già da anni si tiene il Take Your Dog to Work Day. Secondo una ricerca curata dall’organizzazione americana che riunisce i manager del settore delle risorse umane, il 7% delle grandi aziende consente l’ingresso degli animali domestici nelle proprie strutture.
Diversi studi scientifici dimostrano gli effetti benefici di questa scelta: incentivo al morale, riduzione del livello di stress, miglioramento dell’atmosfera, incremento della produttività. Insomma, i dipendenti lavorano più volentieri. Certo, è importante sottolineare che anche l’animale deve stare bene; se portarlo al lavoro diventa fonte di stress, allora è meglio evitare. Il cane è un essere sociale: in genere apprezza l’opportunità di trascorrere più tempo con il compagno a due zampe. Non così il gatto, che non ama lasciare il suo ambiente. (...)


NO

Quando ci domandiamo se sia una buona idea portare il cane in ufficio, molto spesso rispondiamo
in base a cosa ci fa comodo. (...) i padroni sono spesso convinti di conoscere a priori la risposta al quesito («certo che sì, il mio cane è felice di venire al lavoro con me!»), senza nemmeno indagare il tema. Possiamo prendere come ulteriore esempio di questo atteggiamento la pet therapy: siccome gli esseri umani ne traggono beneficio, si trasmette l’idea che sia necessariamente così anche per gli
animali. Un atteggiamento (...) paternalistico. Bisogna fare attenzione anche a pensare che i gusti di un animale dipendano dalla sua razza: il peggior torto che si possa fare loro è non riconoscerne l’individualità.
A un padrone che desiderasse comprendere se il proprio cane o gatto sarebbe felice in ufficio,
bisognerebbe consigliare prima di tutto una visita da un veterinario esperto del tema, in modo da approfondire sia l’aspetto medico sia quello caratteriale. In secondo luogo, bisogna verificare se
l’azienda e i colleghi sono disponibili a impegnarsi per venire incontro alle esigenze del cucciolo. Siamo sempre pronti a cambiare il nostro stile di vita per le nuove tecnologie, dovremmo essere pronti a fare lo stesso anche per gli animali.


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venerdì 5 gennaio 2018

3 italiani su 4 non credono al posto fisso

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Postofisso? Un lusso per pochi. Gli italiani ne sono ormai consapevoli. Ben tre lavoratori su quattro — il 74% — si sono rassegnati all’idea che la carriera di una vita all’interno della stessa azienda non esista più. Così certifica l’ultima edizione del Randstad Workmonitor, l’indagine trimestrale della multinazionale dei servizi per la gestione del personale, condotta in 33 Paesi su campioni di 400 lavoratori in ogni nazione.
Il «caso Italia» mostra la presa di coscienza degli abitanti del Bel Paese. Consapevoli che per uno che ce la fa — come Checco Zalone che nel film Quo Vado si fa assumere all’ufficio «caccia e pesca»
della Provincia — tutti gli altri devono rassegnarsi alla «flessibilità». La provvisorietà del posto di lavoro è avvertita più dalle donne che dagli uomini: 77% contro70%. D’altra parte sono state proprio le donne negli anni della crisi ad aver dimostrato la maggiore disponibilità ad assunzioni a
termine e part time. Sorprende che ad avere la maggiore consapevolezza della rarità del posto fisso siano i lavoratori senior: 76% dei dipendenti tra i 45 e i 67 anni, contro il 72% dei 18-44enni.
Per gli italiani, tanto più oggi, «non si smette mai di imparare»: la formazione continua è necessaria per il 91% degli intervistati. Per il 44%  pur di mantenere il posto si può scendere a patti con l’extrema ratio di una riduzione dello stipendio.
Nonostante la ripresa, gli italiani recuperano fiducia con molta lentezza. Il 48% crede nel miglioramento della situazione economica, contro il 61% della media globale. Rispetto allo scorso anno, l’Italia ha guadagnato sette punti.
Eppure in Europa solo Ungheria e Grecia hanno un indice di fiducia più basso (rispettivamente 47% e 37%). Quando si parla delle situazioni personali, però, le cose vanno meglio. E il64% degli italiani si dice soddisfatto.


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giovedì 4 gennaio 2018

Un buon proposito per il 2018: non procrastinare

(Fonte: "La Stampa")

Mille cose da fare e alla fine  non  si  riesce  a concluderne  nessuna. Succede quando si ha una
complicata scadenza di lavoro e la si rimanda per vedere un film.  Oppure  quando  si  deve
andare in palestra e alla fine ci si ritrova sul divano a curiosare le bacheche Facebook. L’essere umano - chi più e chi meno - è un artista del procrastinare. A volte si rimandano talmente tanti impegni che si rischia di rimanerne soffocati. E di essere più stressati di quello che è necessario per portare a termine i propri impegni. Eppure,  secondo  gli  psicologi, perdere  questo  comunissimo
«vizio»  potrebbe  essere  più semplice di quanto si immagina. Potrebbe diventare il primo  dei  buoni  propositi  per l’anno nuovo. Purché non si finisca per procrastinare anche quelli. Dopo anni di studi, gli psicologi sono riusciti a mettere insieme alcuni pratici suggerimenti per superare la mania della procrastinazione.
 

Suddividere i compiti
Quando il compito da svolgere è troppo difficile e rischia di travolgerci, la prima cosa da
fare è non lasciarsi mai prendere dallo sconforto. Per riuscirci uno dei metodi più efficaci è quello di suddividerlo in tanti  piccoli  traguardi.  Una volta superati i primi, alla fine ci si ritroverà a metà dell’opera senza accorgersene. E così concluderlo sembrerà più facile,  meno  stressante  e  soprattutto più appagante.


Iniziare senza pensarci troppo
Come dice un noto detto popolare: «Chi ben comincia è a metà dell’opera». Proprio così. In effetti, iniziare è spesso la parte più difficile di un qualsiasi compito. Secondo gli psicologi, di fronte a un impegno faticoso si tende a concentrarsi su quanto sia difficile portarlo a termine. Tanto che si fa fatica addirittura  ad  affrontarlo.  La soluzione  migliore,  quindi,  è  non pensare troppo al compito
nella sua interezza, ma iniziare subito  a  svolgerlo.  Una  volta partiti, è più facile proseguire fino al completamento. E, aspetto più importante, senza tanto stress e sensi di colpa.
 

Rinunciare al senso di perfezione
Quando si ha del lavoro da fare, essere  perfezionisti  non  sempre è un bene. Anzi, può essere un grave ostacolo da superare.
Perché, quando ci si preoccupa troppo  di  essere  impeccabili, qualsiasi  compito  diventa  insormontabile e si viene inghiottiti da una sgradevole sensazione di incompletezza. Per questo
gli  psicologi  raccomandano  di mettere da parte la propria tendenza alla perfezione e di concentrarsi soprattutto sullo scopo finale del compito. Alla fine qualsiasi  attività  completata,
anche se imperfetta, sarà sempre  meglio  di  un  compito  non portato a termine.
 

Vincere la paura di fallire
A volte non si riesce a iniziare un progetto per paura che il suo svolgimento  si  riveli  un  fallimento.  L’idea  perversa  che  si inculca  nella  propria  mente  è che, se non si inizia, non si può fallire.  Tuttavia,  questo  è  un modo di pensare improduttivo e decisamente negativo. Invece,
gli esperti raccomandano di affrontare la paura di fallire sempre a testa alta. Del resto, non
portare a termine un compito è comunque  un  fallimento.  Che sia un successo o meno, quindi,
onorare  il  proprio  impegno  ci farà stare sicuramente meglio.


Premiarsi a ogni traguardo raggiunto
E’ più facile portare a termine un compito se alla fine sappiamo di ricevere un premio. Questo incentivo non deve per forza arrivare da terzi, ma è qualcosa che ognuno di noi può stabilire
da solo, all’inizio. Ci si può premiare, per esempio, comprando qualcosa che si desidera o semplicemente  dedicando  qualche ora ad attività che ci gratificano. Si può stabilire che una volta completato un compito - da una scadenza di lavoro fino alla pulizia della cantina - ci si può
sedere  sul  divano  e  leggere qualche capitolo del proprio libro preferito o guardare le puntate della serie tv che ci appassiona. Se al traguardo ci aspetta qualcosa, l’intero percorso si rivelerà più facile e agevole.


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Perché rimandiamo sempre 

1 - Questione di DnaAlcuni più di altri tendono a non fare mai ciò che dovrebbero fare: alcuni geni contribuiscono a
esaltare questo tratto della personalità
.

2 - Dipendenza
Il processo cresce su se stesso: quando rimandiamo un compito, rimandarlo ancora ci sembrerà più
facile. E così sarà poi per il compito successivo.


3 - Scarso autocontrollo
Questa caratteristica rende più vulnerabili: gli «artisti» del non fare sono anche individui che
nella vita tendono a essere molto impulsivi.


4 - Squilibrio cerebrale
Quando non si è concentrati su un compito, il sistema limbico prende il sopravvento sulla
corteccia prefrontale e si fa solo ciò che più ci piace.


5 - Troppi impegni noiosi
Spesso si rimandano perché sono troppi oppure perché sono insopportabili: è così che scatta il
meccanismo perverso di aspettare all’infinito.


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mercoledì 3 gennaio 2018

Troppo intelligente per essere un leader

Chi è troppo intelligente fatica a diventare un buon leader? Ce ne parla "la Repubblica".

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martedì 2 gennaio 2018

Aziende da svecchiare, troppi over70 ai vertici

(Fonte: "la Repubblica")

Non è un Paese per giovani, e infatti sempre più aziende italiane o studi professionali, si affannano a mettere per scritto un limite di età per essere eletti in consiglio, per assumere incarichi operativi o semplicemente per andarsene beatamente in pensione e lasciare spazio alle nuove generazioni.
Negli statuti di Ubi e Mediobanca è prevista una soglia a quota 75 anni, per Generali — dopo la
storica  presidenza  di  Antoine Bernehim — il limite è 77 anni per il cda, 70 per la presidenza e 65
per l’ad. In Europa solo gli statuti di Axa e SocGen fissano un limite a 70 anni, mentre quello di Ing, in maniera più articolata, prevede che non si possa andare oltre i 4 mandati e i 70 anni di età, ma lascia al cda la facoltà di decidere diversamente. «Sia gli investitori istituzionali sia i proxy advisor internazionali come e Iss e Glass Lewis — spiega Fabio Bianconi di Morrow Sodali — non amano di
principio i limiti di età, in quanto il cda deve essere in grado autonomamente di poter scegliere i
suoi membri, e il mercato di votarli». Tanto più che in alcuni settori come quello finanziario, dove il regolatore impone ai consiglieri di aver maturato una comprovata esperienza, è difficile trovare candidati giovani ed esperti a ricoprire determinati incarichi.
Solo che spesso i limiti di età, sono stati introdotti proprio per favorire un ricambio. «Ricordo che
in Italia una delle prime a caldeggiare un limite d’età fu la McKinsey degli anni di Mario Greco, Vittorio Colao e Alessandro Profumo — dice un banchiere che chiede di non essere citato — e il limite per essere partner era 55 anni, ma credo che ora siano un po’ più elastici».  Anche  i  grandi  studi professionali hanno tutti un limite di età non solo per l’esercizio della professione, ma in alcuni casi anche per essere partner. Posto che trattandosi di aziende private, ognuna ha le sue regole, solo per aver un’idea l’età oscilla dai  65  anni  di  Gianni  Origoni Grippo Cappelli & Partners, ai 75
anni di Dentons. L’Intesa Sanpaolo di Carlo Messina — classe ‘62 — ha portato a 60 anni il limite per ricoprire  incarichi  operativi  in banca. Brunello Cucinelli invece, che per ogni incarico ha previsto un vice, ha stabilito che quando il titolare compie 60 anni si avvicenda con il suo secondo, più per emancipare i giovani che per “rottamare i vecchi”. Sono tanti gli imprenditori  che  pensano,  che così come le quote rosa sono state uno strumento importante per rinnovare i cda, ora ci vorrebbero delle  “quote  giovani”.  «Dobbiamo credere nei giovani perché sono loro che ci stanno portando in quello che mi piace chiamare il “secolo d’oro” e credo si debba riservare loro una quota importante di opportunità e responsabilità — spiega Brunello Cucinelli — . Vediamo intorno a noi crescere una generazione di persone per bene, e puntiamo su queste menti fresche che ci aiutano ad essere speriamo creativi e contemporanei»


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