mercoledì 28 febbraio 2018

10 segnali che il vostro lavoro non va bene per voi

Oggi vi propongo una nuova riflessione letta su LinkedIn che potrebbe aiutarvi a capire se il lavoro che svolgete sia o meno adatto a voi.
Si tratta di dare retta a 10 segnali che dovrebbero farvi riflettere sul fatto che, forse, è arrivato il momento di cercare altro.

Vediamoli insieme:
  1. il vostro capo vi controlla in maniera ossessiva e non riuscite a fare nulla senza vedervelo spuntare alle spalle per vedere cosa state facendo;
  2. nessuno riconosce i vostri meriti sul lavoro;
  3. il vostro capo non vi offre mai un feedback su ciò che fate né vi dà mai consigli;
  4. al vostro capo non interessa minimamente quello che fate;
  5. siete pagati poco;
  6. non state imparando niente di nuovo;
  7. il vostro superiore non ha la minima idea delle capacità che avete;
  8. siete stressati e la vostra salute inizia a risentirne;
  9. non riuscite nemmeno a ricordare quando è stata l'ultima volta che il vostro superiore vi ha ringraziato per qualcosa;
  10. la vostra dedizione, il duro lavoro che svolgete e la fedeltà all'azienda non vengono tenuti in minimo conto
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martedì 27 febbraio 2018

Arriva il “manager della felicità” per migliorare l’armonia in ufficio

(Fonte: "Affari&Finanza")

Musi lunghi, indisponibilità a fare qualcosa in più del minimo indispensabile e nessuna voglia
di apportare idee e proposte per far crescere l’organizzazione. Sono alcuni dei “mali” che può curare il manager della felicità, una figura professionale impegnata ad accrescere l’armonia in ufficio e quindi la produttività.
Il guru del settore a livello internazionale  è  Chade  Meng,  entrato  in Google agli albori come ingegnere informatico e presto convertitosi a manager della felicità, attraverso l’organizzazione  di  corsi  collettivi  e  momenti di formazione individuale dei dipendenti  basati  sull’acquisizione
di consapevolezza in sé e sullo sviluppo delle capacità di lavorare in gruppo. Un piano avallato dal top management del principale motore di ricerca  al  mondo,  consapevole  della necessità di tenere alte le motivazioni dei collaboratori per non perdere colpi  sul  terreno  della  produttività.
Quest’ultimo è un neo per l’economia italiana, che sconta il combinato disposto tra il ridotto numero di grandi realtà nei settori più innovativi e la rigidità  che  caratterizza  il  mercato del lavoro. È in questa cornice che diverse aziende italiane si stanno attrezzando con l’istituzione di figure
ad hoc nell’ambito delle risorse umane, impegnate ad ascoltare le richieste e le ambizioni dei dipendenti affinché ciascuno possa sentirsi in un ambiente  di  lavoro  confortevole (...). Le due professioni più gettonate sono il già citato chief happyness officer e il leadership & learning manager. Il primo si occupa del monitoraggio e dell’incremento del livello di motivazione e soddisfazione dei dipendenti (...). I livelli retributivi possono arrivare a superare i 50mila euro annui per le figure più esperte, mentre si collocano non oltre i 30mila per i più giovani. Una parte della retribuzione solitamente è legata ai risultati, con i parametri di valutazione che possono riguardare ad esempio  la riduzione delle assenze dal lavoro e il calo del turnover. questa professione è destinata a diffondersi sempre più considerato che ormai non è più possibile puntare solo sugli incentivi economici, ma diventa indispensabile valorizzare soprattutto gli aspetti legati al work-life balance (...).
Il leadership & learning manager si occupa invece di formazione continua per trattenere i talenti. In questo caso il range retributivo si colloca tra 25mila e 35mila euro per una seniority inferiore ai cinque anni e fino a 58mila euro per i più esperti.
L’adozione di questi profili non è appannaggio solo delle grandi aziende, ma è trasversale a tutte quelle che si trovano a operare in ambiti molto competitivi (...). Pensare ai dipendenti in primo luogo come persone fa bene anche al business.
(...) ll tema del benessere e della soddisfazione  dei  dipendenti  sta  diventando sempre più attuale per le aziende. L’aspetto più importante che chi si occupa del settore è l’ascolto dei bisogni di ciascun collaboratore. Sopratutto per i più giovani, sono fondamentali aspetti  meno  tangibili,  come  ad esempio un migliore bilanciamento vita-lavoro e la possibilità di operare in un ambiente di cui si condividono valori e obiettivi.



(...)

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lunedì 26 febbraio 2018

Manager del futuro a lezione di diversità: “Solo così si innova”

(Fonte: "La Stampa")

Riunione internazionale di un gruppo  di  manager  a  New York. Durante una pausa, uno scende per strada e guardando le persone che incrocia si rende conto che su, chiusi in una  stanza,  loro  ne  avevano invece in mente solo un tipo.
«Vendiamo  colori,  non  possiamo  non  portarli  tutti  anche dentro il nostro processo decisionale».  Danielle  Norrenberg non è un’attivista né una politica, ma una donna di potere. Una manager - (...) - alle prese con la gestione di qualcosa di impalpabile ma di crescente peso nelle aziende: la diversità.

Con  il  racconto  sui  colori ha introdotto, qualche tempo fa, la sua lezione al master sul
diversity  management  della Fondazione  Brodolini  a  Roma.  Un  master  che  testimonia  un  crescente  interesse delle  aziende  nella  gestione della diversità e nell’inclusione. Che, alla ricerca del valore, sempre più spesso si imbatte in quello delle differenze: di genere, età, scelte sessuali, salute, etnia, religione. 


Neolaureati e dirigenti
(...)  Ma perché le imprese sentono la necessità di mandare i loro manager a lezione di diversità? Per evitare autogol  di  marketing,  come quello  della  Barilla  sulla  famiglia-tipo che le causò perdite economiche rilevanti dopo  il  clamoroso  infortunio («se i gay non sono d’accordo,  possono  mangiare  un’altra  pasta»);  ma  anche  per scegliere e gestire meglio le persone.
Proprio quella della «innovazione attraverso la diversità» è adesso la nuova frontiera,  racconta  De  Micheli.  Un esempio?  «Le  protesi  al  ginocchio.  Sembrerà  strano, ma solo da poco ci si è accorti
che venivano studiate sul maschio medio mentre servono a tutt’altro tipo di persone».
 

Pari opportunità  
La  differenza  di  genere  resta quella principale, in un mondo a  prevalenza  maschile.  Un’indagine della Bocconi su 250 direttori del personale ha rivelato che solo il 21% delle grandi imprese italiane adotta strategie  di  diversity  management, contro il 39,4% tedesco e il 48% della media Ue.
Focalizzandosi sulle banche, una  recente  indagine  del  Fmi ha  dato  numeri  non  rosei:  le
donne nei board sono il 20% a livello mondiale, ma solo il 2% degli ad. Lo stesso studio rivela
però che, a parità di altre condizioni, una maggiore presenza femminile ai vertici è associata
con  maggiore  stabilità  finanziaria. Oltre ai risultati esterni, ci sono quelli interni: le aziende
che adottano schemi di diversity  management  più  spesso hanno  politiche  di  conciliazione  lavoro/famiglia,  metodi  e orari di lavoro flessibili, asili nido, congedi parentali per i padri. Se l’Italia ha faticato a in-trodurre un congedo obbligatorio per i neopapà di soli 4 giorni (e lo prendono in pochi), in Axa, multinazionale  delle  assicurazioni che ha da tempo un diversity manager, i padri hanno 25 giorni con retribuzione piena.
Ma non sono queste le sole scelte organizzative che la gestione  della  diversità  può  richiedere. «Da noi i dipendenti over 50 sono per il 70% uomini e per il 30% donne; al contrario,  la  popolazione  al  di  sotto dei 35 anni è femminile al 65%.
Questo dà un’idea della diversità presente, che si può gestire solo  prestando  attenzione», spiega Livio Zingarelli di Philips Italia, secondo cui è proprio l’età la diversità più difficile da
affrontare. Zingarelli ne parla nel volume Diversità e inclusione che contiene dieci interviste
a diversity manager italiani di grandi  imprese  spesso  con  la testa fuori dall’Italia: il che fa
capire che la difficoltà e la sfida maggiore, per i neodiplomati in diversity  management,  sarà
tradurre quello che hanno imparato  nel  tessuto  italiano  di medie e piccole imprese.


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venerdì 23 febbraio 2018

Lavoratori irregolari a quota 3,3 milioni

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

La crisi ha favorito l’espansione del lavoro irregolare: tra il 2012 e il 2015, mentre sono andati
in fumo 462mila posti regolari, l’occupazione irregolare è aumentata di 200mila unità, oltre
3,3 milioni.
La ricerca Censis-Confcooperative presentata nei giorni scorsi si ferma al 2015 (ultimo dato disponibile), ma è comunque indicativa di un fenomeno, quello del lavoro nero, che sul versante territoriale - confrontando l’incidenza del lavoro irregolare sul valore aggiunto regionale - è particolarmente radicato in Calabria e Campania (rispettivamente il 9,9% e l’8,8%), seguite da Sicilia (8,1%), Puglia (7,6%), Sardegna e Molise (entrambe con il 7%).
«Denunciamo ancora una volta -ha detto il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini –
chi ottiene vantaggio competitivo attraverso il taglio irregolare del costo del lavoro, che vuol dire diritti negati e lavoratori sfruttati. Se le false cooperative sfruttano oltre 100mila lavoratori, qui
fotografiamo un’area grigia molto più ampia che interessa le tantissime false imprese di tutti i settori produttivi che offrono lavoro irregolare a oltre 3,3 milioni di persone». Il record si raggiunge
nell’utilizzo del lavoro domestico da parte delle famiglie, dove gli irregolari sono 6 su 10 (in crescita di quasi 4 punti tra il 2012 e il 2015). Ma in molti casi «le famiglie evadono per necessità», ha
aggiunto Gardini. Nelle attività agricole e nel terziario (attività artistiche, di intrattenimento e di
altri servizi) gli occupati irregolari toccano, rispettivamente, il 23,4% e il 22,7%, segue il settore
alloggi e ristorazione (17,7%) e le costruzioni (16,1%).
Con l’impiego di irregolari le imprese riducono il costo del lavoro di oltre il 50% mettendo spesso fuori mercato le aziende legali, con un’evasione contributiva di 10,7 miliardi che lascia i lavoratori privi delle coperture previdenziali, assistenziali e sanitarie. Il monte salariale irregolare nel 2014 ha raggiunto i 28 miliardi di euro, il 6,1% delle retribuzioni lorde. L'evasione tributaria e contributiva, nel periodo 2012-2014, ha raggiunto una media annua di 107,7 miliardi di euro, 97 dei quali riconducibili all’evasione tributaria e 10,7 all’evasione contributiva.


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giovedì 22 febbraio 2018

Più giovani occupati ma meno contratti a tempo indeterminato

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Il 2017 si chiude con 173mila occupati in più. Un numero su cui pesa la crescita dei dipendenti a
termine (+303mila unità su dicembre 2016), mentre sono in calo sia gli indipendenti (-105mila
persone) sia, è la prima volta da dicembre 2014, i lavoratori “permanenti”, vale a dire gli assunti a
tempo indeterminato, che, complice la fine degli sgravi generalizzati targati Jobs act e il clima di incertezza, diminuiscono di 25mila posizioni.
L’incremento tendenziale dell’occupazione (a dicembre c’è stata una battuta d’arresto, -66mila
unità) è legato agli over50 (+365mila), ma, in parte, anche agli under25 (+42mila ragazzi con un
impiego; un dato che sconta i numeri positivi dei due bonus, Occupazione e Sud, gestiti da Anpal).
Le fasce d’età “centrali”, 24-34enni e 35-49enni, restano in difficoltà (qui, rispetto a dicembre 2016, il numero di occupati si contrae, rispettivamente, di 30mila e 204mila unità - il segno meno permane, per i 35-49enni, anche al netto del calo demografico).
La fotografia scattata ieri da Istat, ed Eurostat, con il confronto internazionale, mostra un mercato del lavoro italiano con luci e ombre: il tasso di disoccupazione è in discesa, al 10,8%, il livello più
basso da agosto 2012 (primi effetti delle riforme varate in questi anni, a partire da Jobs act e Industria 4.0). L’area euro è tuttavia ferma all’8,7%. Il numero di persone senza un lavoro rimane sotto quota 2,8 milioni (2.791.000 unità per la precisione, il dato più basso dall’autunno 2012). Segnali di miglioramento per i giovani: accanto a un nuovo balzo degli occupati, pure il tasso di under25 senza un impiego continua a ridursi. Siamo al 32,2%, torniamo ai livelli di dicembre 2011 (restiamo tuttavia distanti dai primi della classe, la Germania, stabile al 6,6% grazie al sistema di formazione duale; e dietro di noi si contano solo Grecia, 40,8%, e Spagna, 36,8%). In ripresa gli inattivi: +112mila unità sul mese; +34mila sull’anno; e, da alcuni mesi, i rapporti a termine:
«Qui c’è anche qualche impresa che può aver anticipato l’assunzione a tempo, per poi stabilizzare con gli sgravi in vigore da gennaio», spiega l’economista, Carlo Dell’Aringa.
Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, vede il bicchiere mezzo pieno: «Al di là delle oscillazioni mensili si confermano i miglioramenti di medio-lungo periodo». Per il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il calo della disoccupazione «è frutto di alcune misure di politica economica e di una capacità di reazione del sistema imprenditoriale». Certo, il nodo è il costo del lavoro. Sul punto, il leader degli industriali è chiaro: «Va fatto pagare molto meno a chi assume a tempo
indeterminato», giovani in primis. Favorevole a un taglio del cuneo è Annamaria Furlan (Cisl) e,
da Fi, Renato Brunetta incalza: «Basta con gli incentivi temporanei dei governi Renzi-Gentiloni;
serve un intervento permanente di riduzione del costo del lavoro».
A cui aggiungere, chiosa l’ex ministro, Maurizio Sacconi, «un rilancio della produttività incentivando i salari aziendali».


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mercoledì 21 febbraio 2018

Il lavoro? Lo trova chi non lo cerca

Le statistiche dicono che il recupero dell’occupazione è dovuto agli inattivi e non ai disoccupati. Colpa di un sistema che si affida alle relazioni personali più che ai centri per l’impiego. E così il mercato del lavoro resta ben poco meritocratico.

Ho letto questo articolo su: "Il Fatto Quotidiano" e in rete l'ho trovato qui e ve lo propongo.

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martedì 20 febbraio 2018

Il lavoro? Chiedi ad amici e parenti

(Fonte: "La Stampa")

Ma perché, quando cercano un lavoro, gli italiani pensano quasi solo all’aiuto di amici, parenti  e  conoscenti?  Una  studiosa americana,  Dorothy  Louise Zinn, qualche anno fa provò a studiare il fenomeno e ne uscì il più eloquente  testo  sulla  funzione  della  raccomandazione, come  tratto  genetico  e  antropologico in particolare nel nostro sud. Da tempo le statistiche ci raccontano che il modello familista e clientelare viene usato a man bassa e resta il primo canale di ricerca del lavoro.
La propensione alle raccomandazioni  e  alle  spintarelle  non deve però essere un alibi: se gli
italiani preferiscono le reti personali,  forse  dipende  anche dalla debolezza delle altre reti, in particolare quella dei centri per  l’impiego  e  delle  agenzie del lavoro private. Sarà ancora un problema di culture profonde, ma intanto agenzie e centri pubblici  cambiano  strategia, aumentando qualità ed efficacia  dei  loro  servizi.  Intanto  le statistiche  battono  il  ritmo: l’82% degli italiani cerca un impiego  rivolgendosi  ad  amici  e parenti. Sono dati Eurostat al terzo trimestre 2017: la percentuale è in leggero calo, ma era al 74% nel 2007, prima della crisi. Il ricorso alla rete personale e  amicale  nel  nostro  paese  è  peggiore rispetto agli altri paesi Ue, dove la media è al 68,0%. In Italia appena il 25% di chi cerca lavoro bussa a un ufficio pubblico.  È  il  dato  peggiore
della  Ue  e  siamo  lontani  da Germania  (73,4%),  Francia (55,7%) e Regno Unito (33,9%).
Ancora  più  basso  il  ricorso  al privato: solo il 14,4% di chi cerca lavoro dichiara di rivolgersi
alle agenzie del lavoro a fronte di  Francia  (32,9%)  e  Regno Unito (21%). Che fare? Le agenzie e i centri pubblici cercano di porre rimedio e si preparano a sfoderare nuove idee e strumenti per il 2018. «Ogni mese sono in media più di 400mila i lavoratori  occupati  tramite  le agenzie  del  lavoro  e  circa 40mila  hanno  un  contratto  a tempo  indeterminato  -  spiega Alessandro  Ramazza,  presidente  Assolavoro  -  Occorre  proseguire,  valorizzando  la funzione degli attori specializzati nell’incontro domanda-offerta  di  lavoro  e  completando  poi  una  rivoluzione  culturale verso la meritocrazia. Dove sono più presenti le agenzie sono migliori  gli  indicatori  sia  economici sia sociali (minor diffusione di lavoro nero o sotto-tutelato)». «Sappiamo che persone e opinione pubblica non riescono  ancora  a  vedere  nelle agenzie delle alleate in grado di creare un ponte rapido con le imprese - rincara Rosario Rasizza,  presidente  Assosomm  - Eppure i nostri dati sono in aumento  e  siamo  convinti  che  il nostro  ruolo  economico  e  sociale  crescerà  in  modo  esponenziale.  Mettiamo  in  gioco  i nostri strumenti e le filiali radicate  nel  territorio.  Dobbiamo
poi far conoscere un aspetto distintivo  rispetto  ai  centri  per l’impiego: la nostra capacità di
offrire formazione di qualità e gratuita». «Il sistema dei centri  per  l’impiego  necessita  di
maggiori investimenti - conclude  Maurizio  Del  Conte,  presidente Anpal - ma è indispensabile un coordinamento a livello nazionale,  per  favorire  economie  di  scala  e  maggiore  efficienza.  Siamo  chiamati  a  garantire pari opportunità a tutti i cittadini e su tutto il territorio nazionale. Per questo i servizi al lavoro, declinati a livello regionale, devono avere un punto di raccordo che li metta a sistema.  Senza  mai  dimenticare che al centro delle politiche attive del lavoro c’è la persona».


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lunedì 19 febbraio 2018

Le 4 tipologie di capo che fanno scappare i dipendenti

Recentemente su LinkedIn ho letto una riflessione interessante su quali siano le quattro tipologie di capo che creano maggiore disagio alle persone che lavorano con loro.
Vediamole insieme:

1 - Il capo "marionetta"

Questa tipologia di superiore è interessata solamente a mantenere i propri privilegi e ad eseguire gli ordini. Un capo marionetta non si schiererà mai dalla parte dei suoi uomini se questo può creargli problemi e gestire le persone così, inevitabilmente, farà perdere fiducia a chi lavora con lui perché non si sentirà adeguatamente spalleggiato.

2 - Il capo "King Kong"

Il capo King Kong è il tipo di leader che, non appena ha conquistato una posizione di vertice, tende immediatamente a dimenticare da dove viene e inizia ad esercitare il suo potere esprimendo ogni volta che può la differenza tra chi comanda e chi deve semplicemente ubbidire.
Uomini (e donne) di questo genere non sono minimamente interessati a costruire relazioni ma semplicemente a trattare chi sta sotto di loro come persone inferiori.

3 - Il capo "superman"

Chi non ha mai conosciuto un capo "superman" alzi la mano. Si tratta di quei capi che sono assolutamente convinti che l'organizzazione sia tutta sulle loro spalle e che, per questo motivo, tendono a prendere decisioni senza consultare nessuno e ad ignorare ogni tipo di feedback.
Una persona di questo tipo, ovviamente, non potrà mai crescere professionalmente perché non ammetterà mai di non sapere qualcosa e di avere bisogno ancora di imparare qualcosa da qualcuno.

1 - Il capo "sorvegliante"

Questa ultima tipologia di superiore si concentra solamente sui suoi sottoposti per controllarli da vicino e, quando è possibile, terrorizzarli con questa idea del controllo continuo.
Questo è un capo soffocante che non fa altro che demoralizzare le persone che lavorano con lui e spegnerne la creatività.

Qualcuno di voi si è imbattuto qualche volta in un capo come quelli descritti?

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venerdì 16 febbraio 2018

La sostenibilità conta per la busta paga?

 Ecco chi paga i manager anche per gli obiettivi sociali e ambientali. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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giovedì 15 febbraio 2018

Ecco i profili più richiesti nel 2018

Ecco i dieci ruoli per manager e neulaureati che le aziende cercheranno nel 2018. L'importante è che mastichino bene il nuovo linguaggio del web.
Ruoli chiesti più o meno in tutti i settori produttivi e nei servizi. Le retribuzioni variano in base all'età e all'esperienza. E per chi ama vivere all'estero c'è il project manager.
Ce ne parla "la Repubblica".

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mercoledì 14 febbraio 2018

Crescono le morti bianche Nel 2017 sono state 1.029

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Mille e ventinove. Tanti sono stati i morti sul lavoro nel 2017 (gennaio-dicembre), secondo quanto è stato comunicato dall’Inail con l’ultimo bollettino.
«Commentare dei dati quando parliamo della vita delle persone è sempre difficile - dice il vicepresidente di Confindustria, Maurizio Stirpe -. Il tema della sicurezza sul lavoro è importante, prioritario e evidentemente non si fai mai abbastanza. Confindustria, su tutto il territorio con le associazioni, lavora da tempo per diffondere la cultura della sicurezza e soprattutto della prevenzione.
Serve infatti potenziare le iniziative di formazione sia per gli imprenditori, che per i lavoratori».
Nel 2017 le denunce di infortunio con esito mortale sono aumentate dell’1,08% rispetto al 2016, quando erano state 1.018.
L’aumento riguarda tanto gli uomini che sono stati 6 in più (passando da 921 a 927), quanto le
donne che sono state 5 in più (passando da 97 a 102). Nella distinzione dei settori, i decessi sono stati 857 (841 nel 2016) nell’industria e nei servizi, 141 in agricoltura (133 nel 2016) e 31 per conto
dello Stato (44 nel 2016). «Siamo davanti ormai costantemente a circa un migliaio di morti sul lavoro all’anno, in tutti i settori - osserva il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan -. Ci vuole una presa di coscienza e di responsabilità molto, molto più forte da parte di tutti». «Il 2018,
per quanto riguarda gli incidenti sul lavoro, si é aperto malissimo», rincara il leader della Cgil
Susanna Camusso. «Già nel 2017 -aggiunge Camusso - c’era stata una crescita degli incidenti mortali. Tutto questo ci dice che la precarizzazione del mercato del lavoro é uno degli elementi che
mette a rischio i lavoratori».
Prendendo i dati complessivi degli infortuni c’è un lieve miglioramento. In totale nel 2017 le
denunce sono state 635.433, lo 0,22% in meno rispetto alle 636.812. Questo risultato si deve
essenzialmente al calo delle denunce di infortunio in occasione di lavoro che sono state lo 0,74% in meno, mentre pesa sempre di più il fenomeno degli infortuni in itinere.
La soluzione del problema chiede però un coinvolgimento a diversi livelli. Stirpe osserva che
«è necessario coinvolgere tutti gli attori della prevenzione in azienda, ma anche nelle istituzioni, su questi temi: politiche, strategie, personale, risorse, processi e risultati per una gestione totale
della sicurezza. Servono norme chiare e indirizzare sempre maggiori risorse per rafforzare la prevenzione a tutti i livelli. Serve un grande lavoro di squadra. Noi continueremo a non abbassare la
guardia e a potenziare il nostro impegno in questa direzione».


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martedì 13 febbraio 2018

Il lavoro si trova all’asta

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

C’è un piccolo esercito - ancora invisibile – di lavoratori che scambia prestazioni professionali sulle piattaforme digitali. È la spallata finale della sharing economy alle agenzie di intermediazione?
Presto per dirlo. Certo è che il settore del recruiting sta vivendo una vera e propria rivoluzione.
Freelance, traduttori, informatici e creativi, ma anche artigiani ormai lavorano anche così: serve il
nuovo logo aziendale, una traduzione al volo, la verifica di una pagina di bilancio? Basta aprire un sito specializzato, inviare la richiesta, fissare il compenso e attendere che qualcuno nella folla dei lavoratori (da cui crowd work) risponda.
In alcuni casi (...) si apre una vera e propria asta: solo il progetto migliore viene premiato e si aggiudica la ricompensa. Chi ci guadagna? Tutti: chi vince la competizione e di conseguenza la somma messa in palio; il committente che in modo rapido ottiene il lavoro richiesto; e infine il sito, che mette a disposizione la piattaforma di scambio, cui va solitamente una fee.

(...)

Numeri che inquadrino questa fetta di lavoro digitale (...) ancora non ci sono; tracce se ne scovano in una recente ricerca (fine 2017) compilata dagli accademici dell’Università dello Hertfordshire, in collaborazione con la Federazione per gli studi progressivi europei (Feps), Uni Europa e Ipsos Mori, racconta che il 22% della forza lavoro attiva in Italia ha riferito di avere svolto un lavoro di massa. Le stime hanno rilevato che 5,68 milioni di persone su sette paesi europei mappati potrebbero
guadagnare oltre la metà del loro reddito sulle piattaforme: oltre un milione di persone nel Regno Unito e in Germania e oltre due milioni di persone in Italia.
Si tratta di dati sovrastimati, secondo Antonio Aloisi ricercatore di Diritto del lavoro alla Bocconi,
che però raccontano di quanto il fenomeno stia prendendo piede anche in Italia assumendo il profilo quasi di un nuovo comparto.
«Le piattaforme che scambiano attività di concetto attirano principalmente due profili di lavoratori:
il lavoratore autonomo puro che si apre così a un mercato globale con infinite possibilità ma anche una tipologia di lavoratore più debole, magari espulso dal mercato, costretto a lavorare da remoto. Il terreno è ancora inesplorato. E, ammesso che ci siano rischi, bisogna attrezzarsi per governarli».
Potenzialità enormi dunque per questo segmento del lavoro digitale, «la cui forza – continua
Aloisi – si fonda sulla parcellizzazione: si affidano a una “folla” micro parti di un grande progetto,
una sorta di esternalizzazione globale, per poi tirare le fila laddove ha sede la mente».
Con le piattaforme cade il vincolo geografico, aggiunge Ivana Pais, professore associato di sociologia alla Cattolica di Milano, e i contesti economicamente più deprivati, dove anche il costo della vita è basso, possono guadagnare dal lavoro remoto. «Intravedo un rischio, quello cioè dello strapotere della piattaforma – aggiunge – in grado di distruggere con algoritmi sempre più sofisticati la reputazione dei lavoratori, scaricando i rischi su persone esposte al mercato senza alcuna tutela». Tuttavia il lavoro all’asta, secondo la sociologa, funziona perché «è praticato da professionisti che non ne fanno la loro prima attività. La retribuzione infatti non è la leva motivante. Vediamo impegnate nelle aste le comunità di creativi o quelle scientifiche che vivono la gara anche come sfida intellettuale». 


(...)


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lunedì 12 febbraio 2018

Il demansionamento non giustifica l’assenza

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Un lavoratore, adibito a mansioni inferiori a quelle svolte in precedenza, in violazione della norma contenute nell’articolo 2103 del codice civile (nella formulazione anteriore alla riforma del 2015), ha atteso oltre due mesi prima di richiedere la riassegnazione alle mansioni precedentemente svolte e - dal giorno immediatamente successivo all’invio della lettera di diffida - si è assentato dal posto di lavoro per «oltre quattro giorni», venendo perciò licenziato dalla società.
Tale decisione è stata ritenuta illegittima dalla Corte di appello di Firenze che, rilevando la «platealità della degradazione» subita dal lavoratore - privato delle responsabilità dapprima rivestite e adibito all’esecuzione di lavori di bassa manovalanza quali la pulitura del piazzale esterno all’azienda - ha ritenuto giustificato, in base all’articolo 1460 del codice civile, il rifiuto da parte del
dipendente di rendere una prestazione diversa da quella in precedenza assegnatagli.
Nel decidere il ricorso proposto dalla società, la Cassazione (sentenza 836/2018) punta invece
la propria attenzione sulla proporzionalità della reazione del lavoratore all’inadempimento datoriale e sulla sua rispondenza al principio di buona fede. In tale prospettiva la Corte osserva come il dipendente demansionato non possa sospendere ogni attività lavorativa ove il datore di lavoro
assolva a tutti gli altri obblighi su di sé gravanti (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale eccetera), potendo rendersi totalmente inadempiente e invocare l’articolo 1460 del codice civile soltanto se totalmente inadempiente l’altra parte.
L’adibizione a mansioni inferiori, precisa infatti la Cassazione,consente al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica e/o del livello di appartenenza, «ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo
giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato invia cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore, ex articoli 2086 e 2104 del codice civile, e può legittimamente invocare l’articolo 1460 del codice, rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte».
Alla stregua di tale principio, già più volte affermato in sede di legittimità (Cassazione 2033/2013;
12696/2012;29832/2008; 25313/2007), e valutando contrario a buona fede il comportamento del
dipendente, la Cassazione ha accolto il ricorso della società e ha dichiarato quindi legittimo il licenziamento intimato al lavoratore.


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venerdì 9 febbraio 2018

Lo smart working decolla nelle grandi imprese del Nord “Lavoratori soddisfatti” (4)

(Fonte: "Affari&Finanza")

“Serve fiducia, è la base del sistema” il lavoro flessibile visto dai manager 

Si sente parlare sempre più spesso  di  smart  working ma non sempre è ben chiaro che cosa si intenda con questo termine. OD&M Consulting, società di Gi  Group  specializzata  in  HR
Consulting, ha provato a fare un po’ di chiarezza in questo campo, coinvolgendo in un sondaggio online responsabili delle risorse umane e imprenditori di diverse aziende e arrivando alla conclusione  che  lo  Smart  working viene considerato soprattutto un nuovo  approccio  organizzativo basato sull’organizzazione e gestione flessibile delle attività di lavoro rispetto a tempi, spazi, ambienti e strumenti, piuttosto che come una semplice modalità di lavoro,  come  previsto  dal  Jobs Act per gli autonomi, la normativa  che  regola  il  “Lavoro  Agile” (L.81/2017, artt. 18-24).
«Negli ultimi cinque anni l’attenzione  posta  allo Smart working sta crescendo notevolmente anche in Italia — spiega Rossella Riccò, responsabile area Studi e ricerche di OD&M Consulting —
L’interesse di istituzioni e aziende al tema tende a concentrarsi sull’aspetto tecnologico che rende possibile passare da forme di lavoro tradizionale a forme di lavoro agile e sull’aspetto normativo che definisce il framework entro il quale poter agire, ma spesso non viene fatta chiarezza rispetto al significato attribuito al concetto  di  Smart  Working,  ai  motivi che possono spingere le aziende a ricorrervi, ai benefici e alle criticità che possono essere collegati alla sua adozione».
Per ben il 75% degli intervistati,  infatti,  quando  si  parla  di Smart  working  ci  si  riferisce  a
“una organizzazione e gestione delle attività del lavoro rispetto a tempi, spazi, ambienti e strumenti”; per un altro 9,5% si tratta della “possibilità di lavorare anche fuori dell’azienda in luoghi scelti a discrezione del lavoratore”. L’8,3% ha risposto che è una “modalità di lavoro con tecnologie avanzate che permettono la connessione da remoto”, il 6% che è una “modalità di lavoro con orari flessibili che possono essere gestiti in  autonomia  dai  lavoratori”, mentre per il restante 1,2% è una “modalità di lavoro da casa”.
Dall’indagine  condotta  da OD&M  Consulting  emerge  che questo nuovo modello organizzativo, direttamente collegato al tema della Flessibilità, ma anche a quello della responsabilità e autonomia,  viene  adottato  dalle aziende innanzitutto per migliorare  il  Work-Life  Balance  delle
proprie persone (48,8%), poi per migliorare l’efficienza organizzativa (19%, incrementando la produttività individuale 10,7% e riducendo i costi 8,3%), per attrarre, motivare e trattenere le persone in azienda (17,9%), cambiare cultura manageriale (11,9%) e solo in  misura  residuale  per  Csr (2,4%).
Secondo gli intervistati, i principali benefici dello Smart working si concretizzano in un aumento  della  motivazione  delle persone,  in  un  miglioramento del  loro  work-life  balance  e  in una maggiore focalizzazione sugli  obiettivi/risultati  piuttosto che sulla presenza in ufficio, tutte risposte indicate da più di un manager su due. Il Lavoro agile porta però miglioramenti anche sul fronte dell’aumento della produttività, della “promozione della cultura della fiducia”, oltre a ridurre gli spostamenti dei lavoratori che sono così meno soggetti a stress. L’indagine indica poi alcuni  benefici  “secondari”,  che non sono però assolutamente da sottovalutare: lo Smart working
sviluppa l’autonomia lavorativa, fa aumentare il benessere delle persone e riduce i costi connessi
agli spazi lavorativi. Esso riduce inoltre l’assenteismo, aiuta ad attrarre le persone più preparate e,
più in  generale,  aumenta l’efficienza aziendale.
«Per diventare agili, gli elementi fondamentali su cui le aziende sono  chiamate  a  concentrare  i
propri sforzi sono cultura, mindset e organizzazione del lavoro —  afferma  Riccò  —  Solo  dopo
aver agito su questi elementi profondi che definiscono il “cosa deve cambiare in azienda” entrano
in gioco gli interventi strumentali su tecnologia, policy organizzative e gestione degli spazi aziendali che sono gli elementi più visibili e maggiormente dibattuti dello Smart working».
La principale criticità connessa  allo  Smart  working  sembra consistere nel realizzare il cambiamento culturale  per passare da un orientamento al comando, controllo  e  “presenzialismo”  a un orientamento su risultati (risposta indicata dal 64,3% degli intervistati). Non è però questa l’unica difficoltà: bisogna infatti anche “realizzare un cambiamento organizzativo” (48,8%), fare i conti con una “riduzione della sinergia fra colleghi” (46,4%), assicurare “la sicurezza dei dati sensibili e della  privacy”  (42,9%)  e  quella “dei lavoratori fuori dagli ambienti di lavoro”.
«Dallo studio emergono dieci elementi chiave attraverso i quali è possibile definire lo Smart working — conclude Riccò — Autonomia e responsabilità, spostamento del focus dalla presenza ai risultati, diffusione della cultura della fiducia, adozione di una leadership partecipativa, attitudine
all’utilizzo  di  strumenti  digitali, definizione dei Kpi dei risultati ottenuti  attraverso  lo Smart  working, capacità di prestare attenzione a privacy e sicurezza dati, condivisione dei valori e predisposizione  al  cambiamento  e all’adattamento veloce».


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giovedì 8 febbraio 2018

Lo smart working decolla nelle grandi imprese del Nord “Lavoratori soddisfatti” (3)

(Fonte: "Affari&Finanza")

La Pubblica Amministrazione chiamata a lanciarsi in pista 

L’anno che si è appena aperto dirà molto sulla capacità della Pubblica Amministrazione  italiana  di  imboccare una volta per tutte la strada dello smart working. La legge approvata dal Parlamento a maggio dello scorso anno ha infatti tolto ogni scusa di assenza delle norme, ridando slancio a un fenomeno che aveva avuto una prima scossa dalla riforma Madia. Le amministrazioni sono ora chiamate a buttarsi  in  pista,  magari  prendendo  spunto dalle realtà che si sono cucite addosso i
panni della PA agile senza attendere il quadro  legislativo.  Gli  esempi  virtuosi  non mancano,  dalla  Provincia  autonoma  di Trento alla Regione Lombardia passando per il Comune di Torino e altri enti locali.
Ma c’è una PA che per prestigio, importanza e ambizione potrebbe rappresentare il miglior traino.
Si tratta della Presidenza del Consiglio dei ministri, che senza troppi proclami sta portando avanti un piano di smart working (fino a 5 giorni al mese, forse si arriverà a 8) con l’obiettivo di entrare a regime con tutti e 400 i dipendenti entro la fine del 2018. Le sensazioni sono positive perché la
sperimentazione avviata negli scorsi mesi, ampiamente  condivisa  con  i  sindacati, non ha riscontrato difficoltà particolari e ha ottenuto feedback positivi dai 60 dipendenti coinvolti. Gli sforzi profusi per aumentare la capacità dei dipendenti di programmare i contenuti, gestire i progetti e
uscire dal ciclo giornaliero stanno pagando. Ed è stata in particolare l’analisi preventiva e successiva del lavoro svolto in modalità smart a determinare finora la buona riuscita.
Nemmeno il trambusto delle prossime elezioni sembra in grado di frenare i progetti nati fra le stanze di Palazzo Chigi. Non è un bene solo per la Presidenza del Consiglio, visto che quest’ultima sta supportando altre importanti amministrazione su vari fronti (scrittura delle direttive, predisposizione delle circolari, organizzazione della formazione e altre attività). Nel corso di quest’anno entreranno infatti in fase sperimentale il Consiglio di Stato, il Miur e il ministero dell’Ambiente. Saranno coinvolte alcune centinaia di dipendenti e il passaggio alla fase operativa è prevista per alcuni
uffici già entro metà anno. Insomma, un contagio positivo da parte di Palazzo Chigi.
Attualmente  in  Italia  si  contano  oltre 305mila smart worker ma, sottolinea Mariano  Corso,  responsabile  scientifico dell’Osservatorio Smart Working, “sono almeno 5 milioni i lavoratori le cui mansioni permetterebbero di adottare questo modello, con importanti incrementi di produttività ed effetti positivi sulla vita privata e sulla società”. Vantaggi interessanti anche per la PA, che si trova di fronte a una possibile svolta: «Il 2017 è stato un anno importante perché è stata chiarita la cornice normativa, togliendo alibi a chi riteneva mancassero i presupposti legali all’applicazione di questo modello. Il 2018 sarà l’anno della verità perché capiremo se lo smart working potrà finalmente diventare realtà anche  nella  Pubblica  Amministrazione.
Per promuoverne davvero la diffusione nel settore pubblico, e soprattutto per trarne il massimo beneficio, occorre però — avverte Corso — accompagnare il cambiamento con interventi di affiancamento ai manager pubblici per supportarli nel ragionare per processi, identificare indicatori di prestazione e gestire e valutare i collaboratori per obiettivi».

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mercoledì 7 febbraio 2018

Lo smart working decolla nelle grandi imprese del Nord “Lavoratori soddisfatti” (2)

(Fonte: "Affari& Finanza")

“Il modello funziona promuove il merito e sta attraendo talenti ”

La corsa allo smart working da parte delle grandi aziende prosegue. È presto per parlare di un vero e proprio boom italiano, ma i segnali positivi ci sono.
Ed è una buona notizia per tutto il Paese, che da una piena diffusione  dello  smart  working  potrebbe ottenere benefici per oltre 13 miliardi di euro secondo le stime del Politecnico di Milano.
Naturalmente ci sono realtà che si sono mosse con largo anticipo e gruppi che si stanno organizzando in questi mesi. Proprio il doppio punto di vista dei pionieri e degli entranti può aiutare a capire meglio quanti, dove e quali siano i vantaggi di un’adozione diffusa.
Tra le aziende che hanno fatto da apripista rientra a pieno titolo Nestlé Italia, che ha siglato il primo accordo sindacale nel 2012.
Un’intesa che ha avviato un percorso sperimentale verso la flessibilizzazione degli orari: «Il progetto è nato su input dei bisogni espressi dai dipendenti, soprattutto dalle donne, ma si è poi evoluto come uno strumento di benessere  per  tutti  —  racconta Chiara Bisconti, responsabile benessere e inclusione di Nestlé Italia — La conciliazione degli orari e dei bisogni aiuta il lavoratore e al tempo stesso garantisce l’avvicinamento dell’azienda ai concetti di meritocrazia, lavoro per obiettivi  e  coesione  dei  team».
L’ingresso  nell’era  dello  smart working è stato guidato dai responsabili delle risorse umane, ma ha avuto una spinta fondamentale  dai  vertici  aziendali.
«Un  forte  coinvolgimento  del top management è decisivo, così come decisiva è la condivisione
degli intenti con i sindacati», sottolinea  Bisconti,  che  evidenzia anche la necessità di mantenere
un approccio flessibile di fronte alle necessità dei dipendenti. La bontà del modello scelto da Nestlé è testimoniato dai numeri: 5mila  giornate  di  lavoro  agile fruite con una media di 3 giorni al mese, 2mila persone coinvolte e  tasso  di  adesione  vicino  al 100%.
Più recente ma altrettanto soddisfacente è stata l’esperienza di Axa Italia, partita comunque prima di altre realtà con un progetto pilota nel marzo 2016. La messa a regime dello smart working nel corso del 2017 ha incontrato un  tasso  di  adesione  elevato (81% per i funzionari, 56% per gli impiegati), che si è tradotto in un miglioramento della produttività, della motivazione e di altri indicatori. «Abbiamo fatto di questa nuova modalità di lavoro un fattore di attrazione dei nuovi talenti e di miglioramento della vita dei dipendenti. Due vie di sviluppo essenziali in un settore in grande  trasformazione  come  il nostro  —  commenta  Maurizio Di Fonzo, direttore Risorse umane, organizzazione e change management di Axa Italia — Più fiducia, meno controllo e orientamento al risultato: l’impatto che lo smart working ha sulla vita lavorativa va oltre la possibilità di rimanere  a  casa».  Attualmente su 1466 dipendenti eleggibili sono più di 920 gli smart worker, con una media di una giornata fuori ufficio a settimana. A garantire la buona riuscita del progetto è soprattutto il monitoraggio costante dell’esperienza dei lavoratori:  «Abbiamo  immaginato fin da subito un sistema aperto ai feedback. Questo ci consente di avere un quadro chiaro dell’implementazione  e  di  valutare  al meglio l’eventuale introduzione di misure specifiche».
Nel  corso  degli  ultimi  anni moltissime aziende hanno seguito la strada tracciata in Italia da
Nestlé, Axa e dagli altri pionieri.
E da Hera a Italdesign passando per A2A e Ferrero, giusto per citare alcune delle new entry più recenti, il numero continua ad aumentare  (insieme  al  livello  di soddisfazione). Negli ultimi  ingressi rientra anche Maire Tecnimont, gruppo attivo nel settore ingegneristico,  tecnologico  ed
energetico, che ha ribaltato l’approccio adottato finora. Non ha cioè previsto un numero massimo di giornate in modalità smart working, ma ha fissato un giorno obbligatorio a settimana di presenza  in  ufficio.  L’obiettivo  è coinvolgere almeno mille dipendenti una volta a regime. «Non ci siamo focalizzati sulla conta dei giorni ma sulla creazione di una modalità innovativa ed efficace
di lavoro — spiega Franco Ghiringhelli, senior vice president Risorse umane, organizzazione  e
Ict di Maire Tecnimont — Abbiamo siglato l’accordo sindacale lo scorso  settembre  e  già  stiamo
avendo dei ritorni estremamente positivi, sia in termini di clima aziendale sia di produttività».


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martedì 6 febbraio 2018

Lo smart working decolla nelle grandi imprese del Nord “Lavoratori soddisfatti”

(Fonte: "Affari&Finanza")

È una legge giovane, ma promette di essere una grande opportunità per ripensare il lavoro del futuro. Si tratta dello smart working (legge 81), detto anche lavoro agile o flessibile, cioè lo strumento che consente al lavoratore di scegliere — in accordo con la propria azienda — gli orari e il luogo in cui svolgere la sua attività. L’obiettivo è migliorare l’equilibrio tra tempi di vita e di lavoro, aumentare la produttività e il benessere dei dipendenti, a beneficio dei lavoratori stessi e dell’azienda.
Negli ultimi anni un buon numero di imprese in Italia ha iniziato a utilizzare forme di flessibilità lavorativa e, con l’approvazione della legge, simili modalità sono proliferate. Secondo una
recente ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano solo nel 2017 il lavoro agile è aumentato del 14% rispetto all’anno precedente (e del 60% rispetto al 2013), raggiungendo quota 305 mila smart worker, l’8% del totale dei lavoratori presi a campione, più della metà dei quali sono impiegati nelle regioni del nord Italia. Persone, fa notare il Polimi, che si distinguono per maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e maggiore padronanza di competenze digitali rispetto agli altri lavoratori.
In particolare, la ricerca riporta che l’adozione dello smart working cresce tra le grandi imprese: il 36% ha, infatti, già lanciato progetti strutturati (il 30% nel 2016), ben una su due ha avviato o sta per avviare un progetto. Ma le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro sono ancora limitate e riguardano circa il 9% delle grandi aziende. «Tra queste c’è la Ferrero: su oltre 12 mila ore lavorate in modalità agile, ne sono state risparmiate circa 5.000 di viaggio» premette Mario Fusani, giuslavorista e partner dello studio Legale GF Legal Stp, che ha analizzato a fondo la legge 81.
«Lavorare in modalità smart — aggiunge — ha influito positivamente sulla capacità individuale di organizzare il proprio tempo, sul rispetto delle scadenze e sull’autonomia di gestione del proprio lavoro. I manager non hanno riscontrato differenze tra la quantità e la qualità del lavoro in modalità smart, rispetto a quello svolto in azienda».
Un altro esempio pratico riguarda Generali: «L’esperimento è partito dalla sede di Milano ma
verrà esteso o probabilmente è stato già esteso anche a quella di Roma — sottolinea Fusani —. In
questo caso è stata riscontrata maggiore soddisfazione dei lavoratori, maggiore produttività e
capacità di regolarsi in autonomia».
Non solo, il rapporto di fiducia con l’azienda è migliorato perché «la società fornisce ai lavoratori un ufficio mobile, ossia un pacchetto tecnologico completo di pc, telefono e software per accedere al gestionale della compagnia. Formazione di base su tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», osserva l’avvocato. E ancora: il caso Axa. «Qui tutto il personale aziendale può optare per lo smart-working. Per questo motivo, non vi sono più postazioni fisse ma ambienti dedicati a creatività, innovazione, collaborazione e concentrazione», puntualizza Fusani.
Significativo infine l’esperimento di smart working portato avanti da Tim nel periodo 2016-2017 (primo semestre), realizzando un risparmio di oltre 1.400 tonnellate di Co2 e 302 mila ore di pendolarismo in meno. «Ora è allo studio una fase 2 — spiega Fusani — modalità agile per un giorno alla settimana fino a 44 giorni all’anno, di cui al massimo 16 potranno essere lavorati presso una sede esterna ai locali aziendali qualora ricorrano esigenze di cura familiare o
tecnico-professionali, ovvero di modalità casa-lavoro. In casi eccezionali, possono essere previsti sino a 3 giorni alla settimana, anche continuativi, con un massimo di 12 giorni al mese. I lavoratori coinvolti sono tra 9-11 mila».
Se tra le grandi imprese lo smart working ormai è una realtà diffusa, anche tra le Pmi cresce l’interesse sebbene a prevalere siano approcci informali. La ricerca del Polimi riporta che il 22% delle aziende di piccole e medie dimensioni ha progetti di lavoro, ma di queste solo il 7% lo
ha fatto con iniziative strutturate; un altro 7% non conosce il fenomeno e ben il 40% si dichiara
“non interessato” in particolare per la limitata applicabilità nella propria realtà aziendale. Un discorso a parte merita la Pubblica Amministrazione: solo il 5% degli enti ha attivi progetti strutturati e un altro 4% pratica lo smart working informalmente, ma a fronte di una limita applicazione c’è un notevole fermento, con il 48% che ritiene l’approccio interessante, un ulteriore 8% che ha già pianificato iniziative per il prossimo anno e solo il 12% che si dichiara non interessato.
In conclusione, la ricerca del Polimi fa notare che è prematuro tracciare un bilancio sullo smart working, perché quello che si vede è solo la punta dell’iceberg. In effetti, sono ancora pochi i progetti di sistema che ripensano i modelli di organizzazione del lavoro e estendono a tutti i lavoratori flessibilità, autonomia e responsabilizzazione.
Eppure, ribadisce lo studio, i benefici economico-sociali potenziali sono enormi: l’adozione di un modello “maturo” di smart working per le imprese può produrre un incremento di produttività pari a circa il 15% per lavoratore, che a livello di sistema Paese significano 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi. Per i lavoratori, anche una sola giornata a settimana di remote working può far risparmiare in media 40 ore all’anno di spostamenti; per l’ambiente, invece, determina una riduzione di emissioni pari a 135 kg di CO2 all’anno.


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lunedì 5 febbraio 2018

Famiglia e lavoro: le email fuori orario creano problemi

Conseguenze disastrose anche per il rendimento lavorativo. L'esperto: "Il datore di lavoro deve puntare su una personalizzazione delle procedure organizzative e gestionali". Lo leggiamo su: "la Repubblica".

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venerdì 2 febbraio 2018

Le armi nascoste della manipolazione

"la Repubblica" ci parla di manipolazione e ci è sembrata una riflessione interessante da proporvi dato che i manipolatori esistono anche negli ambienti professionali e riconoscerli e non restarne vittime è fondamentale per lavorare in modo più sereno.
Cosa ne pensate?

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giovedì 1 febbraio 2018

Risorse umane in efficienza

(Fonte: "Italia Oggi")

Nel settore industrial servono sempre più profili che, all'interno della divisione risorse umane, aiutino l'azienda a tagliare i "rami secchi" nella struttura aziendale e a portare al massimo la produttività. Attualmente questi ruoli sono presenti soprattutto nelle grandi aziende, ma si stanno allargando sempre di più anche verso altre realtà imprenditoriali. Questa figura quindi deve raggiungere il risparmio dei costi, in modo da migliorare il posizionamento del mercato e incrementare il livello dell'offerta rispetto alla concorrenza. 

Il suo percorso di formazione essenzialmente prevede lo sviluppo di competenze molto trasverasali che permettono una visione sistemica dell'organizzazione, mettendone in relazione i diversi elementi. La capacità di questo ruolo si completa con l'acquisizione delle competenze necessarie per la gestione delle persone, in cui è leader e coach della squadra con la quale lavora e ne favorisce la crescita.
In un periodo di crisi economica questa figura è sempre più richiesta dalle grandi e piccole imprese. Solitamente lavora in un team, scelto dal medesimo, per controllare attentamente tutti i rami dell'azienda e scoprire quali fattori possono essere migliorati. Questo team rappresenta un vero e  proprio gruppo di consulenza aziendale e, dopo aver individuato tutti i principali problemi, indirizzerà l'azienda verso una posizione ottimale nel mercato.
Una scarsa ottimizzazione delle risorse a disposizione comporterebbe invece un basso rendimento finanziario.
L'obiettivo primario in questo professionista essenzialmente è la massimizzazione del valore per il cliente e la contemporanea riduzione delle risorse necessarie a generarlo. Per conseguirlo, è necessario riorganizzare i propri processi secondo principi fondamentali, come il flusso del valore, e quindi mediante la diffusione della cultura del miglioramento continuo e del problem solving, reimpiegando le migliori risorse aziendali in nuove sfide strategiche. Nelle aziende di successo oggi sono più che mai cruciali le figure che occupano le posizioni di vertice, per esempio manager per i quali non è più sufficiente occupare una posizione precostituita, ma è necessario possedere le competenze del "sapere fare" a tutti i livelli dell'impresa.

Questo profilo è portatore dell'approccio snello, è in grado sia di generare una visione vincente per l'azienda in cui opera, sia di guidare con competenza l'operatività delle persone con cui lavora, affiancandole nei momenti cruciali del loro lavoro e aiutandole nel prendere le migliori decisioni.
In questo tipo di cultura questo professionista introduce il metodo scientifico all'interno delle organizzazioni e, attarverso un percorso di sperimentazione e apprendimento continuo, è in grado di innalzare progressivamente le capacità delle persone e dei team con i quali opera. Un simile risultato richiede di partire dalla comprensione di ciò che è valore per i propri clienti, per poi rivedere tutti i processi: dalle operations (produzione e logistica) a quelli per l'innovazione (gestione del knowledge management e sviluppo dei nuovi prodotti e processi), sino a quelli connessi al mercato (marketing e vendita).

Se il lavoro di questo professionista prevede anche la cessione del ramo d'azienda, si procede all'identificazione di possibili acquirenti e ad una valutazione del valore transazionale del ramo (...) . Nella prima delle due attività sono anche coinvolti il marketing, le vendite, il finance dell'azienda. Nella seconda, soprattutto l'amministrazione e la finanza. In entrambe le attività le funzioni aziendali sono quasi sempre affiancate da un advisor (...).

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