venerdì 28 aprile 2017

Nelle imprese entra il lavoro agile

(Fonte: "Il Dirigente")

Il nuovo disegno di legge del governo sullo smart working – che contiene anche norme sulla tutela del lavoro autonomo (...) – interviene per dare risposte sia alle imprese che intendono modernizzare
l’organizzazione del lavoro sia a quei lavoratori la cui prestazione diventa sempre più professionale e ibrida.
Le nuove tecnologie consentono oggi una grande libertà del modo di organizzare il lavoro, sia per le
aziende che per i lavoratori, e offrono nuove opportunità professionali e occupazionali.
Si lavora – a tutti i livelli – sempre più per obiettivi e vengono gradatamente abbandonati parametri
di valutazione come l’orario di lavoro, la presenza effettiva in azienda, l’inquadramento. I lavoratori
chiedono flessibilità di entrata e uscita e maggiori possibilità di lavorare da remoto, destrutturando
i concetti di orario e sede di lavoro. La perdita del posto di lavoro per alcuni inizia a essere vissuta come una fonte di arricchimento delle proprie competenze e non come un dramma, si vivono fasi di lavoro subordinato e fasi di lavoro autonomo, a patto ovviamente che il mercato sia sufficientemente
dinamico.
 

Consapevole di tale libertà nei modelli organizzativi già in essere nelle aziende, il governo ha acconsentito a non introdurre una nuova regolamentazione rigida, ma uno schema libero e snello di possibilità, per consentire il massimo del risultato a chi vuole usufruire dei vantaggi offerti dall’impiego delle nuove tecnologie.
L’intenzione del governo è quella di dare risposte normative rispetto al profondo cambiamento culturale avvenuto in questi anni nelle aziende e di agevolare “un’articolazione flessibile della prestazione di lavoro subordinato in relazione al tempo e al luogo di svolgimento”, come recita la relazione del disegno di legge.
Azienda e lavoratore decideranno in piena libertà il “come” e il “quando”, se il lavoro in modalità
remota sarà svolto uno o più giorni a settimana o al mese o per più ore al giorno.


(...)

Una nuova legge riconosce la flessibilità dei tempi e dei luoghi del lavoro. Lo smart working viene introdotto come uno schema libero di organizzazione aziendale, non come una nuova fattispecie
di lavoro.

Perché il lavoro possa essere definito “agile” deve essere svolto in parte all’interno dei locali  aziendali e in parte all’esterno, anche senza una postazione fissa, tramite l’utilizzo di strumenti tecnologici ed entro i limiti dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale. Una prima definizione, più rigida, è stata superata durante l’iter parlamentare, a tutto vantaggio della libertà di scelta tra azienda e lavoratore.
Il lavoro agile deve essere adottato sulla base di un accordo scritto stipulato tra datore di lavoro e lavoratore, che può essere a tempo indeterminato o determinato. L’accordo disciplina le modalità di
esecuzione della prestazione lavorativa svolta fuori dai locali aziendali, il potere di controllo del datore di lavoro, i tempi di riposo del lavoratore, le modalità di recesso delle parti.
Il lavoratore agile ha diritto al medesimo trattamento economico e normativo riconosciuto ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni all’interno dell’azienda, compreso il diritto all’apprendimento permanente e alla certificazione periodica delle competenze. Ha diritto inoltre all’assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali.
Allo smart working vengono applicati i medesimi incentivi fiscali e contributivi riconosciuti per altre
modalità di lavoro.
Concludendo, la nuova legge rappresenterà una grande opportunità per lavoratori e imprese, una modalità che consentirà di migliorare il benessere dei lavoratori, la loro fidelizzazione e quindi la produttività in azienda. Non solo un modo diverso di concepire il lavoro, ma anche un nuovo stile di vita e un nuovo “stile aziendale”. Quello che serve per competere efficacemente in un’economia che cambia.



(...)

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giovedì 27 aprile 2017

Dai campi estivi alla governante il welfare privato dell’industria

(Fonte: "Affari&Finanza")

Quando si scopre che il 40% dei dipendenti privati riceve un premio di produttività grazie ai contratti integrativi, e che il 25% può optare per un paniere di benefit, non si può fare a meno di concludere che qualcosa di nuovo e di significativo stia effettivamente accadendo nel mondo del lavoro italiano.  Abbiamo  ormai  ventimila  contratti aziendali e territoriali che distribuiscono bonus di risultato a 5 milioni di dipendenti. Un quinto di questi contratti offre a circa tre milioni di lavoratori quello che viene definito il “secondo welfare” o welfare aziendale: un vestito su misura di beni e servizi che le imprese cuciono addosso ai propri dipendenti.

C’è di tutto in questa operazione di sartoria: dal classico carrello della spesa alle polizze sanitarie, dalle borse di studio per i figli ai campi estivi, dal babysitting on demand all’aiuto psicologico, dall’asilo nido alla  previdenza  integrativa.  Lì dove lo Stato non arriva, arriva il tuo datore di lavoro. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe obiettare. È da oltre un secolo che  le  aziende,  soprattutto  le
più grandi, cercano in vario modo e con fini diversi di prendersi cura del benessere dei propri lavoratori. All’inizio con interventi invasivi e totalizzanti: alloggi, scuole, strade, strutture ricreative e assistenziali. Il villaggio operaio di Crespi d’Adda, con le sue casette complete di giardino e
orto e la piscina al coperto, nasce già alla fine dell’800. In piena era fascista viene costruita la
Città Sociale di Gaetano Marzotto, dove ci sono persino uno stadio e un teatro. E ancora nel
dopoguerra  l’idea  del villaggio operaio viene riproposto  da  Enrico Mattei con Metanopoli,
mentre la Fiat di Valletta distribuisce i libretti azzurri delle mutue e organizza le colonie estive per i  bambini. Con Adriano Olivetti, poi, il welfare di impresa esce addirittura dalla dimensione aziendalistica (dove gli scopi sono quasi sempre  la  produttività e in non pochi casi l’allontanamento  degli operai da sindacati e partiti di sinistra),  e  assume  le  forme  di un’utopia  sociale,  quasi  una
sorta di socialismo aziendale.

Quei grandi progetti oggi sono  solo  un  ricordo:  l’impresa non pretende più di organizzare ogni aspetto della vita dei propri dipendenti ma più modestamente offre loro pacchetti di benefit tra i quali il lavoratore è libero di scegliere. È il modello Luxottica, seguito da molte altre aziende. Oltre a differenziare i servizi proposti, quel modello prevede fin dall’inizio la loro negoziazione con i
sindacati. Insomma, basta con il paternalismo, largo alla contrattazione.
Ed  è  proprio  partendo da questo principio che il governo Renzi decide alla fine del 2015 di intervenire per dare un colpo di acceleratore agli accordi aziendali e territoriali.
Da una parte reintroduce  la  detassazione  dei premi di produttività (solo  il  10%  al  posto  delle
normali  aliquote  Irpef), dall’altra consente ai lavoratori di sostituire il premio con una serie
di benefit  totalmente esenti, incardinando quindi il welfare aziendale all’interno della contrattazione. All’inizio lo sgravio viene applicato a premi fino a 2 mila euro e ai lavoratori con reddito fino a
50 mila. Poi, con la legge di bilancio 2017, salgono sia l’uno che l’altro: 3 mila e 80 mila euro.

Ma sgravi a parte, è soprattutto con la lunga serie di prestazioni offerte in sostituzione dei premi che il governo spera di  favorire  la  diffusione  dei contratti  di  secondo  livello, pressoché sconosciuti alle piccole imprese. Si va dall’istruzione ai buoni spesa, dalla previdenza integrativa al telelavoro, dai congedi parentali all’assistenza  sanitaria.  Le  ultime due in cima alla graduatoria delle  prestazioni  più  richieste, secondo il nuovo Rapporto Wellbeing di OD&M Consulting (Gi Group).

Poco alla volta, sindacati, lavoratori e aziende si lasciano convincere dal nuovo welfare aziendale. Sembra un sistema in cui tutti alla fine guadagnano: il lavoratore ottiene subito i servizi che desidera senza pagare un euro di tasse; su quei servizi l’impresa non versa i contributi, senza tuttavia che questo riduca in modo significativo la futura pensione del dipendente. Il risultato è un clima di relazioni più sereno e un più elevato grado di “fidelizzazione” dei dipendenti. L’interesse per i benefit detassati comincia a diffondersi e si traduce a poco a poco in una robusta crescita dei contratti integrativi e in particolare di quelli che prevedono forme di welfare. Nel 2014 i lavoratori  meritevoli  di  premio erano due milioni e 700 mila. Oggi hanno superano i cinque milioni, tre dei quali possono optare per il welfare. Il segno che questa volta non sono solo le grandi imprese  a  farsi  coinvolgere,  è l’accelerazione degli accordi territoriali - quelli preferiti dalle imprese  minori  -  ormai  quasi  il
20% del totale. Resta invece ancora molto indietro il peso del Sud e delle Isole, con contratti integrativi che non riescono ad andare oltre il 7,5% del totale.

Dunque, sono soprattutto le piccole e medie imprese del Centro-Nord a rompere gli indugi e a seguire almeno in parte l’esempio tracciato dai gruppi più affermati. Che intanto rafforzano ancora  di  più  i  pacchetti  welfare previsti dai loro integrativi: Ferrero con i suoi bonus agli orfani dei  dipendenti,  Fiat-Chrysler con mense, testi scolastici e centri estivi, Nestlé con il nido aziendale  alla  Perugina,  Ikea  con  i quattro mesi di congedo parentale pagato. E ancora una volta Luxottica,  il  gruppo  apripista, che in aggiunta a tutti i servizi offerti già da tempo, mette a disposizione dei suoi dipendenti due nuove figure atipiche: lo psicologo e il maggiordomo. Il primo offre servizi di counseling giorno e notte. Il secondo paga le bollette, ritira gli esami medici, porta i vestiti in lavanderia, conciliando così i tempi del lavoro con quelli della vita privata dei dipendenti. I piccoli e medi imprenditori, che non hanno la capacità di offrire direttamente tutti questi panieri, ricorrono ai voucher e uniscono le forze in reti territoriali. Andrea Keller, ad di Edenred Italia, società del gruppo leader nel mondo nei servizi prepagati alle imprese e inventore del ticket  restaurant,  è  ottimista: «Dall’ultima ricerca da noi commissionata alla Doxa risulta che il 78% delle pmi considera il welfare aziendale un’occasione da cogliere assolutamente. Lo strumento del voucher è a questo riguardo essenziale e noi, dopo le esperienze in Francia e in Inghilterra, lo stiamo utilizzando con successo anche in Italia attraverso il ticket-welfare che coinvolge un’ampia rete di operatori accreditati». 


Sono proprio questi operatori esterni alle aziende a ingrossare il giro di affari del welfare  aziendale.  Tenendo  conto che il premio di risultato destinato  a  ciascun  lavoratore  è  tra 1.000 e 1.500 euro, e che i dipendenti che possono scegliere i benefit sono circa 3 milioni, il business complessivo potrebbe aggirarsi tra i 3 e i 4,5 miliardi.

Tutti soddisfatti dunque? Imprese,  lavoratori,  operatori  del welfare? In realtà questo sistema non è privo di punti deboli. Innanzi tutto l’accesso è ancora negato ai tre quarti dei dipendenti privati, e a quasi tutti quelli residenti nel Mezzogiorno. E c’è poi una preoccupazione di fondo che coinvolge il rapporto tra pubblico e privato. Lo spiega  Franco  Martini,  segretario confederale della Cgil, che pure condivide la diffusione dei benefit d’azienda: «Attenti a non depotenziare  lo  stato  sociale.
Se il governo da una parte riduce la spesa sociale e dall’altra detassa il welfare aziendale (riducendo così le entrate pubbliche), non fa che trasferire risorse da chi è più debole a chi è in grado di pagarsi i servizi sociali grazie alla sua azienda, ossia a una  minoranza  fortunata,  in prevalenza dipendenti di grandi aziende del Nord. Il problema si manifesta in modo particolare nella sanità, dal momento che le polizze private sono tra le prestazioni più richieste in azienda. Dunque, va bene il welfare aziendale  ma  a  patto che non scatti questo travaso ingiusto di risorse». Di parere opposto  è  la  ricercatrice  Franca Maino, che per il Centro Einaudi ha curato l’ultimo rapporto sul secondo welfare: «Non vedo questo  rischio  di  sostituzione pubblico-privato,  oggettivamente lo Stato non può garantire e di fatto non garantisce tutta una serie di servizi particolari, come per esempio quelli che facilitano la vita delle donne. Deve invece puntare su servizi universali, a cominciare dal contrasto alla povertà e al disagio. Le risorse pubbliche per tutti non ci sono, è bene saperlo». Eppure in molti casi lo Stato sembra ammainare la bandiera anche nei cosiddetti servizi universali, se è vero, come ci spiega il Censis, che undici milioni di italiani  hanno  rinunciato  alle  cure per motivi economici o per via delle lunghissime liste d’attesa.
Proprio alla luce di questa incapacità del welfare  pubblico di  tener  testa  ai  bisogni  crescenti dei cittadini, c’è chi guarda con sospetto al doppio filo (tra salario e welfare) che unisce in modo sempre più indissolubile il lavoratore  alla sua azienda: se sarà quest’ultima a offrirgli gran parte dei servizi
sociali, il timore di essere licenziato potrebbe spingerlo ad accettare  condizioni  di  lavoro
peggiorative pur di non perdere il suo welfare oltre al suo stipendio. Anche per questo, dicono i sindacati, è importante che lo Stato non arretri sul terreno della spesa sociale. Così come è necessario che quei panieri di benefit aziendali restino ben radicati all’interno della contrattazione tra sindacato
e impresa e non vadano a sostituire pezzi crescenti di salario.


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mercoledì 26 aprile 2017

Trovare lavoro online

Cosa fare e non fare online per trovare un lavoro e tenerselo? Ce lo racconta "La Stampa".

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lunedì 24 aprile 2017

La seconda vita di quadri e manager

Completiamno il discorso sul lavoro over 50 illustrato dal Sole 24 Ore con questo ultimo articolo.

Tra le migliaia c’è la storia di Paolo C. Gli anni sono 57. A 54 la multinazionale francese della grande distribuzione di cui era responsabile degli acquisti gli comunica che la ristrutturazione in corso coinvolge il suo posto. Con l’entusiasmo di un trentenne racconta che oggi è responsabile commerciale di un’azienda che si occupa di Food delivery, con taglio salutista.
Per arrivarci c’è voluta una parentesi di due anni di ricerca di un lavoro (...) una parentesi senza retribuzione ma in cui ha dato il suo contributo al fundraising e al marketing di una serie di progetti.
 
I curriculum come quello di Paolo C. - profilo alto, internazionale, a360° con un’incursione nel volontariato - «dieci anni fa la maggior parte delle aziende non li prendevano nemmeno in considerazione », racconta Isabella Covili Faggioli, presidente di Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale) e partner della società di head hunting I.C. Consulting. E invece adesso «c’è un’inversione di tendenza». I cinquantenni sono tornati di moda. Per molti motivi.
«Si va in pensione più tardi, ma soprattutto si ha di fronte una persona equilibrata, con esperienza»,
continua Covili Faggioli.
Nel libro dei sogni delle aziende, racconta Roberto D.G., 59 anni, alla terza transizione professionale,
oggi direttore generale di una multinazionale, c’è scritto ti assumo il venerdì, il lunedì sei operativo e in qualche mese si vede qualche movimento positivo sul conto economico.
E sei flessibile, sia dal punto di vista della mobilità territoriale, sia da quello retributivo perché una
volta uscito da un’azienda puoi ricoprire una nuova posizione anch
e guadagnando il 25-30% di meno.
 
Tra l’altro sul piano personale hai una stabilità che non richiede presenza continua in famiglia. Se lo dice questo top manager che ha appena assunto un venditore cinquantenne forse vale la pena provare a capire quanto si può generalizzare.
 
«Oggi l’esperienza conta tanto», secondo la lettura che dà Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager che rappresenta i manager e i quadri dell’industria. «Se prendiamo le Pmi - dice Cuzzilla - i 50enni sono un vantaggio perché non impongono investimenti in formazione, garantiscono un’operatività pressoché immediata, hanno relazioni personali consolidate,
l’
agenda nei settori di provenienza, spesso esperienze sul mercato interno ed estero». Molte Pmi che si affacciano su nuovi mercati fanno così tesoro dell’esperienza di manager usciti da grandi multinazionali.

(...) 
 
Guido Carella, presidente di Manageritalia che rappresenta i manager, i quadri e i professional dei servizi e del terziario, attribuisce un peso importante alla riforma Fornero, che «ha innalzato
l’età pensionabile e allungato la vita professionale delle persone, facendo sì che le competenze e
l’esperienza di chi ha 50 anni restino in azienda». Bisogna però evitare «di soffocare il turn over e la
flessibilità, vitali nelle imprese, e proprio per questo va completata la riforma del mercato del lavoro
rendendo operativi i servizi per l’occupabilità coinvolgendo tutti gli attori», osserva Carella.
 
In questi anni professional, quadri e manager negli anta, però, non sono stati con le mani in mano e oggi è un automatismo che non funziona più quello secondo cui sotto gli anta si è più abili sui social o si hanno più competenze tecnologiche e digitali. A dirlo è la storia di Clara Canzi, 55 anni appena compiuti, che dopo 20 anni come responsabile hr di una multinazionale, ha iniziato un percorso di outplacement che le ha aperto un nuovo mondo professionale e personale: «Ho deciso di cambiare -
racconta -, ho lasciato l’azienda e ho trovato una mia way out nella libe
ra professione. Oggi faccio consulenza alle Pmi sui temi delle risorse umane e delle managerializzazione e porto nellepiccole realtà il mio zainetto con tutto quello che ho imparato in oltre 30 anni in grandi multinazionali».
 
La formazione ha fatto la sua parte sia all’interno delle imprese, sia, per chi è uscito, nelle aule delle associazioni manageriali e delle società di outplacement. Giovanni Pedone, da cinque anni country
manager in Italia di Lee Hecht Harrison che si occupa di career transition e fa parte del gruppo Adecco, osserva che nelle aziende c’è stato un salto culturale che porta a superare il dato anagrafico e questo accade perché «se prendiamo, per esempio, i manutentori delle linee di produzione o i tecnici degli impianti, le competenze sono indissolubilmente legate all’esperienza e gli anta rappresentano un’area di affidabilità. Al di là del dato anagrafico che è un dato oggettivo ci sono poi tutti i percorsi di riqualificazione che sono stati fatti». Anche dai cinquantenni. Se andiamo a vedere i numeri questo ha fatto sì che «nel 2016 oltre un quarto delle 1.360 persone supportate nella transizione di carriera era over 50 e nell’86% dei casi la ricollocazione è avvenuta in meno di 6 mesi», dice Pedone. Da Experis, la talent company del gruppo Manpower, parlano «della richiesta da parte delle aziende di professionalità con competenze tecniche e trasversali distintive e di un certo livello di maturità nel gestire, supportandone lo sviluppo di carriera, le generazioni più giovani già entrate o in attesa di ingresso n
el mondo del lavoro». Già perché a cinquant’anni le aziende sanno bene che, tra l’altro, si può fare anche la staffetta generazionale.

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Palestre e abbonamenti ora le aziende vogliono dipendenti “in forma”

(Fonte: "Affari&Finanza")

Addio telefonini e auto in leasing. I nuovi benefit aziendali sono sempre più  immateriali  e  strizzano
un occhio a spiritualità e benessere. Una recente ricerca Top Employers Institure rivela come il 76% delle imprese si preoccupa dell’equilibrio fisico  dei  dipendenti.  In  che modo?  Offrendo  palestre  e
counseling. Nuovi fringe benefit che entusiasmano i dipendenti  improvvisamente trasformati in energici e produttivi.  La  ricerca  Top  Employers fotografa una cultura della salute aziendale in continua evoluzione: il 71% propone  pacchetti  benessere con opzioni che oscillano da programmi fitness a corsi di yoga, massaggi e incontri con il nutrizionista. Tra i più attenti alla salute, indubbiamente, ci sono gli americani. Secondo un sondaggio del 2016, infatti, un quarto delle aziende statunitensi hanno un centro fitness. Ma  anche da  noi  le aziende con palestra annessa sono sempre di più. American  Express  ha  inaugurato un welness center nella nuova sede romana. «Si tratta di un’area dove più di mille lavoratori possono dedicarsi al benessere  attraverso  dei  corsi personalizzati in base alle loro esigenze», spiega Melissa Peretti,  country  manager American  Express  Italia.  E non poteva mancare la palestra  aziendale  in  Technogym: un vero centro sportivo
di 3500 metri quadrati che fornisce consulenze con personal trainer e lezioni di Tai Chi, Group Cycling e Functional Training. La multinazionale americana Sas, per la sede milanese, ha sdoganato una palestra di 200 metri  quadrati  con macchine  isotoniche  ma,  soprattutto,  attrezzature  utili
per la correzione della postura. Palestra interna (con sauna) anche per la casa farmaceutica Elli Lilly di Sesto Fiorentino e per la Unicredit di Milano. Sempre a Milano chi lavora per Microsoft può allenarsi in una sala da ginnastica aperta sino alle 22, un campo di calcetto e un percorso running. Mentre Elica ha inaugurato uno spazio fitness disponibile anche per gli stagisti. 


Ma l’abitudine alla ginnastica in ufficio non è così naturale per tutti. Anzi. Imbarazzi e  timidezze sono più  che comprensibili.  Un  articolo  del  Wall Street Journal, intitolato The Etiquette Minefield at the Company Gym, affronta i problemi legati al galateo dello sport al lavoro. Perché se è vantaggioso avere una palestra a pochi passi dalla scrivania, può essere imbarazzante ritrovarsi
a sudare copiosamente fianco a fianco con il proprio capo. Ancora più complicato il dress code (per così dire) imposto da quelle realtà del nord Europa che hanno inserito la sauna tra la sala riunioni e i vari uffici. Un articolo sulla BBC ha recentemente sollevato il “sauna pensiero ”. Per Katariina Styrman, chief  executive  officer  di  The Finnish Sauna Society di Helsinki: «È normale andare in sauna con il capo perché ci si dovrebbe dimenticare di titoli e stipendi».  Sempre  nella  civile
nord Europa, la Nokia ha addirittura tre saune nelle sedi principali.  Le  usa  regolarmente Finn  Tommi  Uitto,  vicepresidente  senior  delle  vendite  di prodotti: «Nella sauna non ci sono titoli e non ci sono vestiti, ma  soprattutto  non  ci  sono ego. Siete soli con i vostri pensieri e le vostre parole e lo stesso vale per l’altra persona».
Sarà anti ego, nicchiano però gli impiegati più riservati, ma l’imbarazzo rimane. E allora per molte imprese la soluzione ottimale si sta rivelando un punto sportivo (convenzionato) fuori dal lavoro. Lo sa bene il manager Chip Bergh che per anni (quando era ai vertici di Procter & Gamble) si è allenato nella palestra della multinazionale portandosi da casa un asciugamano e usando la stanza delle pulizie come spogliatoio.
Forte della sua esperienza Borgh, ora Ceo in Levis Strauss & Co, ha immediatamente scartato l’idea di costruire una palestra interna (anche per motivi di costi) ed ha offerto ai dipendenti un abbonamento in unsuper club vicino all’azienda per soli 50 dollari. Il luogo non muta però la sostanza. Bergh ha confermato che fare esercizio: «Rende i dipendenti più felici e più impegnati». 


(...)

Anche in Fastweb si è scelta una terza via: portare i lavoratori fuori dall’ufficio facendoli correre all’aperto. È stato così lanciato un programma basato sul running: in meno di 3 giorni più di 250
persone hanno aderito al #RunHappyCrew. «La corsa unisce benessere, formazione e motivazione, ma non solo.
Correre insieme agli altri significa scoprire emozioni nuove, e contribuisce a far crescere la connessione e la collaborazione tra le persone - spiega Alberto Calcagno, amministratore delegato di
Fastweb e grande appassionato di corsa - vogliamo introdurre la corsa con un programma strutturato per runner».


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venerdì 21 aprile 2017

Il paradosso italiano: più escono più rientrano

"Il Sole 24 Ore" ci racconta i cinquantenni al lavoro.

E questo è un altro articolo sempre sull'argomento: "Le donne riconquistano spazio".

L'ultimo è questo articolo: "I senior hanno chance ma non sottraggono posti ai più giovani":

INTERVISTA a Michele Tiraboschi

(...)

In questa fase di debole ripresa economica, quali caratteristiche degli over 50 apprezzano le imprese?
 

Alcune aziende individuano nei lavoratori over 50 quelle professionalità già formate che non necessitano di ulteriori investimenti per la costruzione delle loro competenze. Inoltre la morsa della crisi può aver riportato sul mercato ex lavoratori che hanno avuto la necessità personale o familiare di ricominciare a percepire un salario pieno per far fronte alle esigenze economiche.
 

A crescere tra gli over 50 è però anche la disoccupazione: per chi perde lavoro è più facile o più difficile trovare lavoro rispetto a un giovane?
 

Se aumenta l’età pensionabile anche per coloro che non avevano un lavoro e che pensavano di andar presto in pensione è probabile che aumenti anche il numero dei disoccupati. E spesso trovare lavoro per un over 50 è complesso soprattutto per quei profili che hanno un livello di competenze molto basso e che faticano a offrire capacità che interessano imprese che hanno esigenze molto diverse
rispetto a quelle che avevano negli anni in cui questi lavoratori si affacciavano sul mercato.
 

C’è davvero competizione tra junior e senior nella ricerca del lavoro?
 

La velocità con cui le tecnologie oggi cambiano i sistemi produttivi allarga ancor di più la distanza presente tra generazioni e tra le competenze che rispettivamente si possiedono, per cui è molto difficile pensare che vi sia una competizione tra generazioni. Questo presupporrebbe un principio dei
vasi comunicanti tra flussi in entrata e in uscita che i dati hanno smentito più volte. L’urgenza nel nostro paese è aumentare invece i tassi di occupazione in tutte le fasce d’età.
 

Ci sono risvolti sul piano sociale connessi alla crescita della disoccupazione senior?
 

Sicuramente il fatto che tale tipologia di disoccupazione si presta più delle altre ad avere una durata lunga e che rischia di rendere difficile la maturazione dei requisiti necessari per la pensione. Si tratta inoltre di una disoccupazione che si accompagna spesso a esigenze di cura e di salute diverse da quelle dei giovani, che i sistemi di welfare oggi faticano a sostenere e che diventano quindi ancor più insostenibili con l’assenza di un reddito.
 

E rispetto alla crescita dell’occupazione di questa fascia d’età?
 

Rilevante è il tema delle malattie croniche. Il network europeo per la promozione della salute nei luoghi di lavoro ha stimato che in Europa quasi il 25% della popolazione in età di lavoro soffre i disturbi di almeno una malattia cronica. Per contro, le proiezioni al 2020 del tasso di partecipazione al mercato del lavoro in Europa degli over 55 registrano un incremento di 8,3 punti percentuali. Certo
è che, nel lungo periodo, la presenza di lavoratori affetti da malattie croniche diventerà un tema imprescindibile in un contesto di drastico invecchiamento.


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giovedì 20 aprile 2017

La carica degli over 50: al lavoro in 7,5 milioni


Un occupato su cinque nel 2004, ora uno su tre - Ma molti senior espulsi dal mercato fanno fatica a ricollocarsi. Ce ne parla "Il Sole 24 Ore".

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mercoledì 19 aprile 2017

Lavoro e social

(Fonte: "Corriere Innovazione")

(...)

Un  dato  su tutti:  l’8,4%  dei  candidati  ha trovato  nel  2015  lavoro  grazie ai social network (+1,4% rispetto al 2014). Stiamo parlando di numeri  ancora  minoritari  e per di più focalizzati su alcune figure professionali ma il dado è  tratto.  

(...)

I  dati  rivelano  che  LinkedIn è  utilizzato  da  chi  cerca  occupazione  soprattutto  per  scopi
pratici  (diffusione  del  curriculum vitae, sviluppo dei contatti  professionali  e  ricerca  di annunci)  mentre  Facebook viene  preferito  per  scopi  sociali  come  controllo  della  reputazione dei datori di lavoro, personal  branding  e ricerca di potenziali  contatti.  Nel  complesso  però  LinkedIn  rimane
la piattaforma preferita dai selezionatori per qualsiasi attività.  E  in  sede  di  colloquio  il 32%  dei  selezionatori  dichiara di porre domande ai candidati sulla  loro  presenza  sui  social media e il 28% dichiara di aver scartato almeno una persona a causa  di  contenuti  pubblicati online.
Un  recruiter  oggi  arriva  ad avere  molte  più  informazioni di  quante  il  candidato  stesso possa immaginare o possa desiderare  di  voler  condividere.
Sappiamo  anche  quali  sono  i motivi più comuni per l’esclusione  online:  la  presenza  di
informazioni che contraddicono il curriculum vitae, una valutazione negativa della personalità e la pubblicazioni di immagini  improprie  o  inopportune. «Al contrario la presenza di  opinioni  politiche  espresse dai  candidati  —  (...) — si è rivelata irrilevante  per  i  selezionatori».  È
interessante  annotare  anche come  chi  gestisce  un  blog  abbia maggiori probabilità di essere contattato online, così come  coloro  che  fanno  riferimento nel proprio Cv ai propri profili  presenti  sui  social.
La  conclusione  potrà  sembrare  paradossale  ma  oggi grazie al web i reclutatori cercano  i  candidati  e  contemporaneamente  i  candidati  cercano  di  essere  reclutati.  E  contrariamente  a  quanto  si  può pensare  non  esistono  distinzioni  tra  colletti  blu  o  impiegati,  middle  o  top  manager.
Questo sia perché sono in forte trasformazione le stesse categorie  professionali  sia  perché  —  (...)  — possiamo  tranquillamente  affermare che è online la totalità della forza lavoro». Di fronte a
queste novità, che contengono come  visto  molte  opportunità e  qualche  rischio,  qual  è  la
strategia migliore da adottare?
Il  suggerimento  che  si tende a dare a selezionatori e candidati è di  combinare  l’attività  online
con  quella  offline.  Il  web  tende  a  privilegiare  settori  come l’information technology, la ricerca  e  sviluppo,  amministrazione, finanza, comunicazione istituzionale  e  public  relations.  Mentre  l’offline  resta ancora  il  terreno  migliore  per chi si propone nei settori della produzione  e  della  logistica.

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martedì 18 aprile 2017

I manager e la capacità di innovare

(Fonte: "L'Impresa")

Le macchine sono sempre di più intorno a noi. Ma le persone restano centrali. Questa la tesi di Francesco Varanini, autore del libro Macchine per pensare (...).

Come sta cambiando il rapporto fra persone e macchine?
Il rapporto uomo macchina è diventato davvero problematico, dalla rivoluzione industriale in avanti. Prima le macchine erano degli strumenti in mano alle persone. Magari complicate, come l’orologio, che Newton prese ad esempio per descrivere la complessità dell’universo. Ma erano strumenti usati
dalle persone. Non esisteva ancora la dimensione dell’automa, una cosa che assomiglia alle persone e si avvicina ad avere un’anima.
Il problema comincia con la rivoluzione industriale. In realtà c’erano stati dei precursori: i giochi da salotto alla corte francese e austriaca. L’ingegnere francese Vaucanson all’inizio del 1700 costruisce i primi automi da salotto. Il flautista che suona. L’anatra che digerisce. Avendo rapporti con la corte è stato nominato ispettore dell’industria pubblica tessile. Quelli che conosciamo come telai Jacquard, poi diventati in Inghilterra elementi base della rivoluzione industriale, sono nati in Francia. Jacquard era un tecnico francese che aveva ereditato e trasformato in macchine per la fabbrica le idee di Vaucanson sviluppate per le macchine da salotto.

Oggi computer e smartphone sono diventati strumenti di massa, usati da miliardi di persone.
Credo che si possa dire che ci sono due tipi di macchina. Il primo gruppo sono le macchine che organizzano il lavoro e la società. Il secondo tipo sono le macchine utensili, nelle mani dell’uomo. La macchina che fa paura che provoca ancora reazioni di rifiuto, come avvenne durante la rivoluzione
industriale con il movimento dei Luddisti, è la macchina che organizza e realizza il lavoro da sé, sostituendo spesso le persone. La macchina strumento continuiamo a usarla ma non ci condiziona e non ci fa paura. C’è una prima svolta. Le macchine si diffondono e diventano sempre più importanti e necessarie per far fronte alla complessità. Così il giovane ingegnere americano Hollerith inventa una macchina - basata sull’uso di schede perforate, come il telaio Jacquard - per elaborare i dati dei censimenti pubblici. Queste macchine sono i precursori dell’informatica, che non nasce negli anni
’40 dello scorso secolo, ma molto prima. È un storia europea, prima che americana. Le macchine informatiche derivano da una riflessione sul controllo sociale. Il Panopticon, il carcere immaginato da Bentham, dove da una garitta centrale si possono osservare tutti i detenuti, è il prototipo della macchina che controlla.

Ma come hanno origine i computer moderni?
All’inizio del XX secolo si estende l’uso delle schede perforate è la stessa tecnologia alla base dei telai Jacquard. Un giovane ingegnere americano, Hollerith, ha pensato di costruire delle macchine basate sulle schede perforate per snellire l’elaborazione dei dati raccolti nei censimenti. Alla fine del 1800, una volta fatto un censimento ci volevano circa 5 anni per elaborare i dati. Allora egli pensò di usare le macchine a schede perforate, cioè tabulati codificati per essere elaborati dalla macchina
più rapidamente, per ottenere prima i risultati di un censimento.

Le macchine moderne sono oggi collegate in una rete globale, come presagiva George Orwell…
Sì questo è un altro grande cambiamento, perché il fatto che le macchine siano tutte collegate fra di loro ha tolto alle macchine stesse la caratteristica di semplici strumenti.
Il personal computer, per esempio, era un progetto già maturo negli anni ’60, anche se non era ancora diffuso. Poi nella seconda metà degli anni ’70 è stato compiuto un grande salto, grazie al genio di Steve Jobs che ha creato il primo personale computer di uso facile e semplice. Ma in quel periodo il personal computer era una specie di martello o penna evoluti. Ancora uno strumento nelle mani delle persone. Per svolgere compiti semplici, come scrivere o fare dei calcoli.
Un utensile usato per espandere i propri spazi di libertà. Il collegamento in rete è stato un modo per connettere i computer a un server centrali, tornando al concetto del Panopticon. I personal computer originari erano certo più complessi, lenti e meno performanti di quelli odierni. Ma facevano
meno paura. Servivano a pensare memoria e conoscenze. Le grandi macchine nate all’inizio del XX secolo erano invece degli strumenti che ci fanno paura e oggi siamo tornati a queste paure ancestrali.

Oggi si parla di industria 4.0. Le macchine rischiano di sostituire anche la testa delle persone?
In un certo senso sì. Ci sono degli scenari che vanno in quella direzione. Di qui a 40 anni, secondo alcuni. O un po’ più in là, secondo altri. Ma molti prefigurano una società in cui gran parte del lavoro svolto dall’uomo potrà essere svolto da una macchina. Questo è un altro dei motivi di timore da parte delle persone. Oppure, e questo è lo scenario che io vedo, è solo una comoda via di uscita. Le persone in generale temono la complessità. I problemi politici, sociali, economici che non riusciamo a risolvere. La scienza ha cambiato molte credenze derivanti dalla religione. Abbiamo perciò bisogno di immaginare qualcuno o qualcosa che ci sostituisca. Da un lato temiamo queste macchine… Già Freud immaginava le macchine come qualcosa che sta nei sogni delle persone e che non conosciamo bene, che non sapevamo controllare. Oggi i timori sono cresciuti, perché le macchine sono molto più pervasive. Ma, nel contempo, ci affidiamo alla macchina come una soluzione facile dei nostri problemi. Le macchine, pensiamo, si occuperanno per noi di gestire tutta una serie di attività. La complessità, l’industria, l’ambiente.

Il lavoro dei manager oggi è principalmente di ideare, immaginare, realizzare, gestire, controllare.
In una visione estrema, possiamo immaginare che in futuro anche i manager saranno sostituiti da
macchine pensanti?
Ci sono alcuni scenari che lo prevedono. Alcuni, devo ammettere, un po’ spinti ad arte dai produttori di macchine e sistemi. Ibm e Google, ad esempio, hanno creato sistemi per sostituire le macchine alle persone. Ibm ha lanciato il servizio online Watson, che dà una serie di risposte attingendo a un patrimonio di conoscenze vastissimo. È un sistema cognitivo, assimilabile a una macchina. In generale, molti presentano come una cosa bella l’interazione fra uomo e macchina pensante. Ci sono software allo studio e alcuni già disponibili, che possono sostituire le persone in alcune attività, anche molto importanti. Ad esempio alcuni software sostituiscono il medico nel fare le diagnosi. Oppure il direttore risorse umane, nel valutare i collaboratori o nella selezione del personale. E qualcuno immagina software destinati a sostituire specifiche figure professionali. Avremo un algoritmo che replica il direttore finanziario e uno per l’amministratore delegato.

Intelligenza artificiale. Un’altra grande sfida.
Anche in questo caso ci sono diversi scenari. Chi costruisce sistemi di intelligenza artificiale prevede di sostituire alcune funzioni umane con le macchine pensanti e in questo caso intelligenti. In realtà sta a noi esseri umani decidere se lasciarsi sostituire o no. Questa è una scelta etica. Ma è anche una presa di posizione di fronte alle macchine. Sta a noi decidere se lasciare alle macchine il nostro posto. Non solo in attività manuali ma anche in attività intellettuali, come giornalisti, scrittori o ingegneri. Oppure possiamo cercare di decidere noi cosa fare, anche di fronte a un’alternativa reale, digitale, computerizzata. Io propendo per questa soluzione. Secondo me la scelta spetta sempre alle persone. Il progetto dell’intelligenza artificiale è nato proprio con l’idea di sostituire le persone. Il primo a ipotizzarlo in modo strutturato, nell’era moderna, è stato Turing. Poi sono seguiti i ragionamenti sugli automi di Von Neumann all’inizio degli anni ’50.
L’intelligenza artificiale è nata con l’idea di imitare e simulare il comportamento umano.

È un punto chiave. Dobbiamo chiederci: cosa ce ne facciamo di macchine che imitano e simulano il nostro comportamento?
Alla fine di studi e ricerche riusciremo ad avere solo una imitazione, probabilmente peggiore,
della fantastica macchina pensante che è l’uomo. Magari meno costosa, assoggettabile al comando
di qualcuno. Ma sarà sempre una imitazione e una simulazione. A partire da quegli studi teorici sono
stati fatti enormi passi avanti. Oggi abbiamo a disposizione una massa immensa di informazioni, i cosiddetti Big Data. Informazioni reali sul comportamento reale delle persone. L’interrogativo di fondo resta un altro. Cosa farebbe la macchina, in una certa situazione, se non imitasse e simulasse il comportamento umano, ma se prendesse davvero una propria decisione autonoma.
Se si deve accettare una sfida è proprio questa.

Il fattore umano, con i suoi limiti ed errori, non è meglio di una fredda macchina per prendere decisioni?
La macchina dà l’idea della perfezione, ma non ha sentimenti. Nel mio libro sostengo che c’è una inutile rincorsa nel cercare di trasformare in un programma ciò che le persone sanno già fare benissimo. E ciò che l’uomo sa fare benissimo, e che la macchina non riesce ancora a simulare, è la capacità di prendere e scommettere su ipotesi interpretative, senza avere alcuna certezza.
Non all’interno di un quadro e di un modello costruito. Ma in una situazione non prevista. I modelli alla base dei quali si costruisce l’intelligenza artificiale si basano su ciò che è già accaduto, non su ciò che potrebbe accadere. L’uomo sa muoversi in una situazione inattesa.
Le macchine possono aggiornarsi via via attraverso le informazioni che derivano dall’esperienza umana. Ma non credo che potranno mai davvero competere con l’uomo. Ma rispetto chi, per motivi imprenditoriali o ideologici, insiste su questa ipotesi.

Qual è la risposta che alla fine danno coloro che propendono per l’intelligenza artificiale?
La realtà in cui noi crediamo di vivere non esiste. Noi pensiamo di essere qui, ma in realtà siamo
frutto di un programma e viviamo in una sorta di simulazione alla Matrix, costruita dal computer. Un
filosofo, Fredkin, parla di filosofia digitale e sostiene proprio questo.
Una ipotesi forte. Ipotesi più deboli sostengono che noi comunque non viviamo più nel mondo che abbiamo creato. Ora in qualche misura viviamo in una Infosfera. Oppure Onlife. Qualcosa che è a metà fra l’online e l’offline. Preciso che non condivido questo approccio. C’è un manifesto della Commissione Europea, ispirato da un filosofo italiano, Luciano Floridi, che sostiene che ormai viviamo nell’Infosfera (...). Un esempio? Viviamo dentro Facebook e siamo assoggettati alle regole di quel mondo. Noi possiamo fare solo ciò che in quel mondo è permesso di fare. In un certo modo sta diventando vero, sia chiaro, ma solo perché noi accettiamo di stare dentro questo ambiente e ne subiamo le regole. Chi lo dice che un personaggio o un ministro deve comunicare via Facebook o via
Twitter? Certo che se accettiamo di stare dentro l’Infosfera siamo in un mondo che qualcuno, umano, ha costruito e ha stabilito che certe cose si possono fare e certe cose no.

Alla fine i manager sono persone chiamate a prendere decisioni. Dotate di ragione e sentimenti.
Questo è un tema centrale. La parola dell’anno è la post-verità. Il fatto che esita una verità è frutto di una lettura del mondo logicoformale. Una cosa o è vera o è falsa. Non ci sono opinioni, sensazioni, cultura. Non c’è il contesto. Una cosa è vera o falsa in assoluto.
Immaginiamo se poi questa logica dovesse essere la base per le decisioni di una macchina. In Facebook è partita la caccia alle notizie false, le fake news. Il punto di partenza è cercare di subordinare tutta la vita dentro un modello già costruito dove certe cose esistono o non esistono. Il problema della sostituzione delle persone è di creare un algoritmo, un calcolo che preveda una certa risposta a un certo stimolo. O magari risposte a domande che non sono state fatte, ma partendo da uno scenario prefissato. È comunque un calcolo, ma già fatto. Di fronte all’uso che può fare un
manager di questi strumenti, siamo di fronte a un bivio: noi abbiamo sempre più informazioni e conoscenze. Oggi un manager analizza i dati, con sistemi di business intelligence o analytics, data mining. Trovo delle chiavi di lettura, basate su dati reali. La decisione però non è mai automatica. C’è sempre il fattore umano. L’algoritmo è tutta un’altra cosa. Vediamo il caso del motore di ricerca che ci offre  delle indicazioni. Ma, attenzione, gli esperti sanno che il ranking, l’ordine di priorità con
cui vengono mostrati i risultati non è scientifico, ma si basa su alcuni presupposti inseriti nell’algoritmo.

Torniamo a un esempio pratico.
Da lungo tempo esiste il pilota automatico che assiste il pilota di aerei. Possiamo pensare che lo stesso accada per i manager? Secondo i costruttori la macchina impara da sola. Ma apprende sempre in base a un algoritmo, a un criterio. Oggi attraverso l’analisi dei comportamenti umani sul web, sostengono alcuni, si può comprendere se si avvicina o no una epidemia di influenza. Scriviamo a qualcuno ammalato. Chiediamo consigli. E così via. E lasciamo tracce di tutto questo. Attraverso le tracce si può capire lo sviluppo dell’epidemia.
Ma un conto è un essere umano che segue delle tracce. Un’altra storia è se le tracce sulla rete vengono interrogate non da un essere umano, ma da un algoritmo.

Einstein disse una volta: la logica ci porterà da A a B. l’immaginazione ci porterà ovunque. Possiamo immaginare delle macchine che abbiano anche la creatività, oltre alla logica?
Secondo i costruttori di macchine, che seguono la logica del filosofo Bertrand Russell, sì. Ma è sempre una simulazione del modo di immaginare dell’uomo. Quindi siamo sempre un passo indietro. Partiamo da una domanda: cos’è l’intelligenza. Comprende una serie di capacità di analisi e soluzione dei problemi. La parola intelligenza deriva dal latino e prevede la capacità di scegliere. Una macchina può copiare il modo di scegliere partendo dal comportamento di un milione di persone. Ma ci sarà sempre un’altra persona che sceglie qualcosa di diverso. Quindi il concetto stesso di intelligenza prevede sempre qualcosa di diverso o differente che l’uomo per caso o per scelta scopre. Lo dimostra la storia delle scoperte scientifiche o dell’evoluzione sociale. Le rotture della continuità potrebbero essere imitate dalla macchina, ma ci sarà una persona che farà ancora qualcosa di diverso.

Qual è il punto di equilibrio fra manager e macchine pensanti?
Usare le macchina partendo dal nostro cervello. Inventare, immaginare, narrare.
Accorgersi degli stati di mano. Il modo di funzionare della nostra mente è del tutto diversa dalle modalità alla base del funzionamento di un computer, che si basa su un calcolo. L’uomo calcola, ma anche sogna, immagina, crea, inventa. Nel caso dei manager, in particolare, un suggerimento è
quello di coltivare la cultura umanistica. È proprio la risposta alla presenza della macchine. Nei calcoli le macchine ci sono di grande aiuto. Ma la capacità di innovazione, cogliere nuovi trend, lo si fa con la cultura umanistica. L’alternativa è fidarsi dei tecnici e affidarsi a loro. Sono quelli che costruiscono le macchine. Si finisce per subire la lettura del mondo dei tecnici. E possiamo
immaginare che siano anche gli unici che sanno difendersene. Invece credo che la cultura umanistica che abbraccia tanti campi, con l’uomo al centro, aiuti a comprendere e usare meglio le macchine.

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venerdì 14 aprile 2017

Quali hobby indicare nel curriculum?

Business Insider ci suggerisce quali hobby indicare nel curriculum. E quali evitare...

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giovedì 13 aprile 2017

Gli under 35 al lavoro? Sono crollati dal 41% al 22% degli occupati

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

(...)
L’innovazione che manca nelle aziende
Il problema dell’Italia degli ultimi vent’anni, e ancor più dei prossimi venti (...) è che nei luoghi in cui si genera la ricchezza del Paese stanno venendo meno le principali fonti di innovazione: i giovani. Una ricerca del «Corriere della Sera» sulla base della banca dati dell’Istat mostra come la demografia del lavoro in Italia stia subendo uno smottamento sotterraneo, quasi unico in Europa per intensità. Oggi essa è alla radice di buona parte del letargo dell’economia italiana e spiega un bel po’ della lentezza con cui la produttività del lavoro avanza rispetto alla media dell’area euro (dall’inizio del secolo, del 12% in ritardo). L’invecchiamento negli uffici e nei piani fabbrica è così veloce che obbliga a ripensare al più presto a come in Italia si studia, ci si aggiorna e ci si organizza in azienda. Del resto non esiste altro modo di far emergere i punti di forza nascosti in quella che, lasciata a se stessa, diventa ormai la grande debolezza del Paese.
Lavoratori sempre più vecchi
I numeri, a prima vista, non perdonano. Non c’è solo l’aumento medio di quasi sei anni dell’età media degli occupati in Italia nell’ultimo quarto di secolo, da 38 a quasi 44 anni. Colpisce di più come questo stia accelerando: a partire dal 2008 l’età media dei 21 o 22 milioni di persone al lavoro nel Paese aumenta in certe fasi di sei mesi ogni anno, o poco meno; solo gli sgravi alle assunzioni e il Jobs act sembrano contrastare un po’ la deriva.
Su dinamiche del genere conta la pura e semplice demografia: in Italia vive la popolazione dall’età mediana più alta al mondo (45,1 anni) dopo la Germania e il Giappone. Incide però anche l’ultima riforma delle pensioni, che dal 2011 ha allungato la permanenza dei più anziani al lavoro per riequilibrare il sistema dopo decenni di promesse insostenibili. Pesa poi soprattutto l’emarginazione dei giovani: il tasso di occupazione per chi ha fino a 24 anni è appena del 17% (studenti ovviamente esclusi).
Emarginati i giovani
Così nell’ultimo quarto di secolo i luoghi del lavoro in Italia hanno subito una trasformazione antropologica, che prosegue. Sono sparite 3,6 milioni di persone di meno di 35 anni (erano quasi 9 milioni, sono poco più di cinque). Sono apparse 4,2 milioni di persone in più la cui età supera i 45 anni; il numero dei lavoratori attivi fra i 55 e i 64 anni è raddoppiato da due a quattro milioni, tanto che il Fondo monetario internazionale stima che in Italia nel 2020 un quinto degli occupati sarà in questa fascia e nel 2015 lo sarà quasi un occupato su quattro.
In sostanza i lavoratori più giovani, energici e innovativi si sono rarefatti dal 41% al 22% della popolazione produttiva; quelli più anziani sono aumentati da un terzo alla metà. Una parte devono averla le preferenze culturali nel Paese per persone più esperte, o più ricche di rapporti sociali, perché il numero degli occupati di oltre 65 anni è esploso: oggi questi lavoratori anziani sono oltre mezzo milione, più 41% in 25 anni.
Due milioni di lavoratori in più in vent’anni
Naturalmente questa non è una torta immutabile non è un gioco a somma zero perché oggi lavorano in Italia quasi due milioni di persone in più rispetto vent’anni fa (22,9 contro 21 milioni). Nell’economia attiva può esserci spazio per tutti. Ma una composizione così squilibrata delle età del lavoro ha conseguenze. Uno studio dell’Fmi del dicembre scorso («The Impact of Workforce Ageing on European Productivity») mostra che l’Italia, con la Grecia, è la più esposta a perdite di produttività proprio perché gli occupati invecchiano: da due decenni questo fenomeno sotterraneo sta limando via uno 0,2% l’anno dalla capacità di far crescere il valore generato in un’ora di lavoro; sono differenze impercettibili nel breve, ma corrosive per profitti e salari quando si accumulano nel tempo. Secondo lo studio dell’Fmi l’invecchiamento erode le capacità nei lavori più fisici e in quelli meno ricchi di conoscenze; non ha effetti su addetti alle vendite, impiegati di banca o periti elettronici; e l’accumulo di esperienza addirittura aumenta la produttività per funzioni dense di conoscenza come quelle di docenti, avvocati, medici, giudici o manager. Il problema dell’Italia è che la sua quota di laureati e diplomati è fra le più basse d’Europa: deve farla salire in fretta per affrontare il giorno, vicino, in cui l’età media degli occupati arriverà al mezzo secolo o più.


(...)

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mercoledì 12 aprile 2017

10 errori da non fare durante il colloquio

Torniamo sul tema degli errori da non fare durante il colloquio con questo articolo  de: "la Repubblica".

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martedì 11 aprile 2017

Siamo diventati pigri?

"Il Corriere della Sera" ci racconta il crollo della produttività in Italia.

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lunedì 10 aprile 2017

Il manager flessibile

I manager diventano più poliedrici, aperti e capaci di reagire ai cambiamenti. Ce lo racconta "la Repubblica".

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venerdì 7 aprile 2017

Addio ufficio e orario di lavoro

Su "Italia Oggi" si parla di flessibilità e lavoro spiegando in cosa consista il nuovo contratto agile.

Come al solito mi limito a riportare le notizie che possono interessarvi. Ognuno di voi sa leggere bene anche tra le righe. Vero? ;)

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giovedì 6 aprile 2017

Imprese piccole e poco innovative

Il sistema Italia rischia. L'articolo è de: "la Repubblica".

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mercoledì 5 aprile 2017

I lavoratori infelici si assentano

Repubblica ci racconta che l'insoddisfazione in azienda è per la prima volta in crescita dal 2012 e che in Italia le cose vanno anche peggio.

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martedì 4 aprile 2017

Italiani in pausa pranzo

(Fonte: "D")

L'orologio segna le 13 e lo stomaco pure. E' l'ora della pausa pranzo, c'è chi la salta e chi va in palestra, chi si è portato il panino da casa e chi s'avventura nei bar sotto l'ufficio.

(...)

Mai come quest'anno la percentuale dei dipendenti che si sono dichiarati attenti a consumare pranzi equilibrati è stata così alta, quasi il 50% dei lavoratori che presta attenzione alla qualità di quello che mette nel piatto in pausa pranzo. 

(...)

Il 77% dei lavoratori italiani vorrebbe mangiare cibo di stagione e a chilometro zero, l'84% ritiene più importante il bilanciamento dei nutrienti. E c'è anche una richiesta all'azienda: al di là del distributore automatico, i dipendenti gradirebbero un cesto di frutta fresca messo a disposizione (gratis) dall'azienda.

Ma ci sono anche 3 miti da sfatare a proposito della pausa pranzo:
  1. Non è vero che saltare il pasto fa bene alla linea. Si rischia di mangiare molto di più al passo successivo.
  2. Il desk eating non è meglio del bar per non eccedere. No: non solo consumare il pranzo alla scrivania è triste, ma mangiucchiare uno spuntino al volo significa non saziare completamente la fame, con il rischio di continuare a fare la spola tra il desk e la macchinetta degli snack.
  3. Il panino meno calorico di un primo piatto? Dipende dal panino. Così pure per gli snack ai distributori, piccoli ma insidiosi in quanto a grassi.
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lunedì 3 aprile 2017

Sorridi! Sei in ufficio

Ricordate questa discussione? Torniamo al tema dell'umorismo in ufficio con un articolo di "D".

E' un'arma potentissima e chi la sa usare può assumere ruoli che contano parecchio in azienda, ma è anche a doppio taglio: basta un passo falso per bruciarsi la carriera.
Si tratta del senso dell'umorismo, un fattore analizzato nei minimi dettagli dai (...) ricercatori della Wharton School della Pennsylvania (...).

Gli scienziati hanno dimostrato che saper ridere (e far ridere i colleghi) è il più potente alleato per rinforzare le relazioni in ufficio e conquistare la fiducia dei vicini di scrivania.

Pare che l'umorismo abbia a che fare anche con il livello di competenza e professionalità: più una persona si sente a proprio agio nel lavoro che svolge, più riesce a sviluppare un alto livello di umorismo, ammaliando i colleghi e diffondendo nell'ufficio un senso di sicurezza, affidabilità e relax.

(...)

Le persone più potenti sonno meno inibite e più inclini all'umorismo. Si crea una sorta di circolarità. Più si è potenti, più si fa ricorso all'umorismo e più si solletica la risata fra i colleghi, più si aumenta il proprio status. E' un moto perpetuo. (...)

Ma attenzione: il rischio di sbagliare una battuta è altissimo e chi usa l'umorismo in ufficio, spesso, gioca d'azzardo, nel senso che è un amante del rischio, perché l'esito non è sempre scontato.

(...)

Ecco cosa consigliano i ricercatori della Wharton Schoool per essere divertenti.
  1. Imparare a conoscere bene quello che provoca la risata. Ridere è un processo inconscio, ma la scienza ci dice che le risate scattano quando si ha un senso di superiorità verso qualcun altro; quando si nota una differenza fra l'aspettativa e il risultato effettivo; quando si prova un senso di solievo da uno stato d'ansia.
  2. Non prendersi troppo sul serio e imparare a ridere di se stessi è importante, perché fare delle battute autoironiche, anziché sugli altri, evita situazioni imbarazzanti e frizioni con i colleghi.
  3. Il tempismo della battuta è importante. Se il momento giusto è già passato, lasciate perdere. E cercate soprattutto di capire quando non è il momento di essere divertenti.
  4. Non esagerare, si rischia di diventare il clown della classe, mai preso sul serio.
  5. Memorizzar alcune battute spendibili in ufficio tutti i giorni. Leggere libri divertenti e tenersi informati.

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