venerdì 31 marzo 2017

10 doti innate (o quasi) che fanno la differenza

(Fonte: "Business People")

La top ten del World Economic Forum sulle qualità che saranno richieste nel 2020, nell'era dell'industria 4.0.

Saper fare non basta più, per distinguersi davvero al momento di un colloquio di lavoro serve ben altro che un curriculum ricco d’esperienze. Contano le soft skill, ovvero le abilità sociali, comunicative e gestionali che possono fare la differenza. 

Gli studi sull’argomento abbondano e l’elenco di qualità ricercate si allarga e si restringe. Ma il
World Economic Forum ha lavorato in prospettiva indicando quali saranno le dieci qualità più richieste nel 2020 nell’era dell’Industria 4.0. 


Se pensate di non essere all’altezza, avete tre anni per lavorare su voi stessi!

Risoluzione dei problemi

Sempre lei, immancabile  al primo posto. Sapersi adattare con resilienza alle difficoltà è una condizione vincente in ogni contesto.

Pensiero critico

Non servono automi, quelli ci saranno già nell’Industria 4.0.
Alle aziende servono persone in grado di capire, riflettere e rielaborare informazioni.


Intelligenza emotiva

Riconoscere, comprendere e gestire le emozioni, le proprie come quelle degli altri: chi sa farlo ha una marcia in più. 

Lavorare in gruppo

La sinergia in un gruppo di lavoro è il vero segreto per la buona riuscita di un progetto.
Ecco perché il team building ha sempre più successo. 


Prendere decisioni

È il 70% del lavoro di un manager, che deve ascoltare tutti ma decidere da solo alla fine.

Negoziazione

Non si può fare affidamento solo sull’istinto, il buon senso e l’esperienza, ma ci sono dei corsi appositi per imparare.

Flessibilità

In un’era che viaggia alla velocità della luce, la capacità di risposta in tempi brevi diventa
decisiva per il successo di una persona, un’azienda o un prodotto.


Creatività

Collegata in qualche modo al pensiero critico e alla risoluzione dei problemi, la capacità di pensare fuori dagli schemi è premiante nell’era della competizione globale.

Orientamento al servizio

Riguarda il sapersi rendere utile, essere premurosi, attenti e collaborativi nei confronti delle esigenze
delle persone.


Gestione delle persone

Saper guidare un team in modo sano, cioè valorizzando e motivando le persone è la capacità indispensabile di un leader che deve essere empatico, ma fermo nelle decisioni.

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giovedì 30 marzo 2017

Come fare colpo nei colloqui di lavoro

(Fonte: "Business Insider")

La responsabile della selezione di Facebook spiega come fare colpo nei colloqui di lavoro. Questo è l'articolo di "Business Insider".

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mercoledì 29 marzo 2017

Capi da capire

Su "Italia Oggi" ho letto una lettera e la risposta data dalla rivista che, forse, possono essere interessanti per qualcuno di voi.
Eccole!

Ho avuto un contrasto con il mio capo e ora non so come comportarmi per riconquistarne la fiducia.
Fabio, Cuneo


L’errore più grande sarebbe quello di rimanere focalizzati su un singolo episodio negativo, considerando il fatto che le occasioni di confronto saranno innumerevoli e molto diverse tra loro. 

Il comportamento di un proprio superiore sarà condizionato, non solo dai nostri risultati, ma anche da fattori legati alla sua personalità, all’andamento generale dell’attività, agli umori del momento e non dovrà, quindi, essere preso come dato certo il fatto di «non andargli a genio». 

Anche di fronte a un suo atteggiamento scostante sarà utile il cercare di non farsi condizionare eccessivamente, concentrandosi su se stessi e sul proprio lavoro, in modo da favorire una maggiore
«leggerezza» dell’atmosfera in ufficio.
Altri elementi significativi saranno il saper cogliere e l’adattarsi allo stile di comunicazione del proprio superiore: non ci dovremmo sempre e comunque aspettare che elargisca complimenti o fornisca spiegazioni rispetto al suo comportamento o a certe decisioni prese. Alcune persone,
infatti, si aspettano di essere comprese attraverso l’esperienza piuttosto che mediante le parole e sarà il loro atteggiamento nei nostri confronti a dover essere «letto» quale eventuale segnale di approvazione o di incoraggiamento. Con alcuni dei propri responsabili sarà importante prediligere
un aggiornamento continuo e la condivisione di dettagli operativi, con altri, invece, si dovrà optare per la presentazione del lavoro concluso.
Esistono molti modi di conquistare la fiducia del capo: sarà molto importante, ad esempio, il dar prova di essere una persona puntuale, organizzata e autonoma nel portare a termine un compito assegnato.
Il mostrarsi amanti del proprio lavoro sarà apprezzato, tuttavia dovremo saper dosare la «disponibilità da concedere»: l’eccesso, in questo caso, potrebbe sortire un effetto boomerang, abituando il proprio capo ad una reperibilità senza limiti e accordandogli la possibilità di cercarci anche al di fuori dell’orario di lavoro.


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martedì 28 marzo 2017

Manager, promuovi te stesso!

(Fonte: "Business People")

Se la pubblicità è l’anima del commercio, la reputazione è il segreto di una brillante carriera. Perché lavorare e impegnarsi per ottenere i migliori risultati, non vuol dire allo stesso tempo che questi traguardi vengano riconosciuti all’esterno. E talvolta nemmeno all’interno dell’azienda, ma questa è un’altra storia. 

Come fare, dunque, per costruirsi un profilo riconosciuto anche al di fuori della propria cerchia di collaboratori e superiori? Bisogna trasformare il proprio profilo in un marchio, da promuovere con strategie di marketing particolarissime che si possono racchiudere nella definizione di personal
branding.
Utilizzando le strategie proprie del marketing, il personal branding è un processo che punta a identificare e promuovere i punti di forza distintivi di un’azienda, di un prodotto e anche del singolo dipendente o manager. Una volta creato il profilo vincente, scatta il lavoro di promozione. Se il brand positioning viene definito solitamente come la strada per piazzare nella mente delle persone un marchio associandolo a particolari caratteristiche, allo stesso modo l’identità di un professionista deve inculcarsi nell’immaginario dei collaboratori, della sua business community, dei competitor. 

E, ultimo, ma forse più importante di tutti, degli head hunter.

I manager, soprattutto di un certo livello, tendono a sentirsi arrivati, pensano di non avere bisogno di promuoversi perché hanno raggiunto una certa posizione. Il problema nasce quando il lavoro lo si
perde, un’eventualità mai troppo remota di questi tempi. (...) 

Quando ci si ritrova a inoltrare curricula, però, è già troppo tardi, se non si è messo un po’ di fieno nella cascina della propria reputation. 
Come la formica della favola, un chicco alla volta può fare la differenza e permettere di emergere all’interno di una concorrenza sempre più spietata, competente e affollata. 


Se non si è mai data importanza alla creazione di una rete di relazioni, spesso non si sa da dove
cominciare per tornare in pista. E non si hanno nemmeno i mezzi per farlo in fretta. Mentre una volta gli head hunter andavano a verificare le referenze riportate su un curriculum vitae, oggi il lavoro di approfondimento di ciascun profilo parte dal Web. E da LinkedIn, ovviamente, che è sempre più un vero social network e non solo una raccolta di profili professionali. 


Serve una prima selezione immediata quando l’offerta è maggiore della domanda, anche per scovare in fretta le bugie (...). Non essere online può essere una strategia, ma non è vincente se ci si trova a competere con un altro manager che magari ha un blog, produce post su LinkedIn o viene intervistato da riviste o quotidiani.
I vecchi media sono ancora importanti come istituzione, perché comunicano affidabilità e un riconoscimento pubblico delle tue competenze. Sono tutti strumenti che danno un’immediata percezione di che tipo di professionista sei.
Magari hai meno competenze, però sai comunicare meglio. Usare bene i social network è una skill indispensabile almeno quanto saper gestire i collaboratori o coordinare un progetto. 


Una notazione fondamentale quest’ultima, perché LinkedIn non è Facebook. Se i gattini attirano
like, i quiz matematici sono squalificanti su una pagina professionale. Le regole sono semplici e note: avere una foto impeccabile, presentarsi con job title chiari, raccontare le proprie esperienze in modo
professionale. Ma questa è la parte facile. Poi bisogna entrare in gioco, attraverso il blog Pulsar e non solo: partecipare ai gruppi di discussione su argomenti di proprio interesse e competenza, conoscere persone, fare networking. Il personal branding passa per i contenuti, dunque, non
per la ruffianeria. Anzi, inviare un curriculum pochi minuti dopo aver stretto una connessione con una persona, è una sorta di tradimento relazionale. E di certo non fa bene alla propria immagine.

Tuttavia, il lavoro online non basta, se i rapporti rimangono virtuali. Il passo successivo deve essere quello di uscire dall’ufficio e incontrare le persone per trasformarle in ambasciatori del proprio
brand. Non vuol dire parlare ai clienti – quello fa parte del lavoro – ma aprire i propri orizzonti. La caratteristica vincente di un manager è la curiosità. Andare agli incontri di Confindustria serve a poco, si devono frequentare aree sconosciute, realtà piccole, culture emergenti: al momento giusto saranno contenuti unici che ci permetteranno di distinguerci dagli altri (...). Non se ne può
più di professionisti che parlano solo di lavoro. Nessun lavoratore serve all’azienda per 365 giorni: prendersi 40 giorni di riposo per dare ossigeno al cervello, viaggiare, conoscere, per sino avvicinare i competitor per crescere insieme, dà una marcia in più.
Essere monotematici è il deserto dell’intelligenza, fa perdere ogni punto di vista sul mondo.

Chi non sente di avere tra le sue corde la capacità di lanciarsi in quest’avventura, può chiedere aiuto a un coach. Ci sono due tipi di persone. Quelle autonome nel dna, che vanno avanti da sole. E i
lavoratori che hanno bisogno di sentirsi circondati da un gruppo, di vivere l’azienda (...). Per questi è più difficile rimettersi in gioco. Magari non hanno mai lavorato nel settore commerciale o nel marketing e non sono abituati ad avere rapporti con gli altri. Per chi viene dalla produzione, dal controllo di gestione o magari da un ufficio tecnico, anche solo l’idea di dover andare a un aperitivo
per fare networking fa sentire smarriti.
Il lavoro di coaching spesso si rivela innanzitutto un’impresa psicologica. Servono due tre anni per recuperare la sensazione di autonomia (...). Le persone nelle aziende non impiegano abbastanza tempo a conoscere se stessi dal punto di vista professionale, a comprendere punti di forza e aree da migliorare. La consapevolezza di sé è il punto centrale quando si parla di sviluppo personale. 


(...)

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lunedì 27 marzo 2017

In dieci anni persi quasi 500mila posti tra gli over 50

(Fonte: "Il Sole 24 Ore)

Non solo giovani. La disoccupazione fa breccia anche tra gli over 50: in 10 anni il numero di coloro che hanno perso il lavoro è più che triplicato, dai 150mila del 2006 ai 500mila del 2016, a fare
da contraltare alla crescita contemporanea dell’occupazione per i lavoratori della stessa fascia di età. Spesso poco istruiti, i disoccupati 50enni faticano a ricollocarsi: il 60% resta fuori dal mercato per un anno o più.


Né giovani né vecchi, spesso senza il sostegno dei genitori o la possibilità di arrivare presto alla pensione, intrappolati ai margini del mercato del lavoro in una condizione di ”inattività” cronica. Sono i disoccupati “senior”, quelli che hanno perso il posto dopo aver oltrepassato la soglia dei 50 anni. Una platea che si è allargata negli anni della crisi: oggi ne fanno parte quasi 500mila lavoratori, in prevalenza uomini (61%), con una crescita record nel giro di dieci anni, +225%, che
ha più che triplicato i 150mila del 2006.
 

Non solo i giovani, dunque, hanno pagato il conto salato della crisi.
Anche se “pesano” meno della metà degli under 30 senza lavoro (un milione), gli over 50 di sicuro non sono più una nicchia del totale di tre milioni di disoccupati in Italia: sfiorano addirittura
quota 1,2 milioni se si sommano anche i coetanei inattivi e scoraggiati (più di 670mila, cresciuti
del 72% dal 2006, in base al report realizzato dal centro studi Datalavoro per «Il Sole 24 Ore»).
«Le statistiche evidenziano che molte di queste persone spesso sono deluse – sottolinea il sociologo
Francesco Giubileo - ed è difficilissimo ricollocarle in pochi mesi, quasi impossibile dopo un paio di anni. 


In passato la soluzione era una mobilità protratta nel tempo per creare un ponte più o meno lungo diretto alla pensione. Una politica fatta tutta alle spalle delle future generazioni, che non possono più contare su aiuti di questo tipo».
Insomma, oggi più che mai,l’aumento della disoccupazione nella fascia di età più adulta rischia di cristallizzarsi nel tempo, anche perché si tratta di lavoratori poco istruiti - in oltre il 60% dei casi sono fermi alla licenza media - e che arrivano da settori saturi o in recessione (ad esempio,  l’edilizia).
L’anno scorso la quota di disoccupati senior di lunga durata (in cerca di un lavoro da un anno o più) è arrivata al 61%, contro il 53,8% dei più giovani, a riprova della difficoltà degli adulti a
reinserirsi nel mercato una volta perso il posto.
«Le implicazioni non sono da poco - commenta Luigi Campiglio, ordinario di politica economica all’Università Cattolica di Milano - visto che spesso si tratta di persone con figli ancora a carico che rischiano di restare in stand-by per lungo tempo, anche perché hanno competenze obsolete e faticano
a riqualificarsi».
 

Sullo scacchiere europeo, anche se il nostro tasso di disoccupazione degli ultracinquantenni, pur raddoppiato, resta sotto la media dell’area euro (6,3%, rispetto al 7,6%), a colpire è il ritmo di crescita dei disoccupati in valore assoluto (+225%): un abisso in confronto alla media europea
del +55%, che si allarga ancor di più se si considera il calo registrato in Germania (-54,6% e con un tasso di disoccupazione del 3,7 per cento).
Peggiore di noi tra i big risulta solo la Spagna, che colleziona più di un milione di disoccupati over 50, cresciuti addirittura del 343% in dieci anni.
 

Non tutto però sembra perduto. «La carta vincente resta comunque l’esperienza – conclude Giubileo -: ci sono infatti over 50 che sono nettamente preferiti ai giovani, perché possono offrire subito maggiori competenze maturate sul campo».
Si spiega così, in parte, il rovescio della medaglia, cioè la crescita dell’occupazione in questi anni tra gli ultracinquantenni, aumentati del 49% in valore assoluto (anche a causa dell’allungamento
dell’età pensionabile), con un tasso di occupazione che è passato dal 45,1% del 2006 al 57,9% del
2016, mentre quello degli under 30 è sceso dal 40,1 al 29,9 per cento.
L’altro “ingrediente” è quello demografico: l’ultimo rapporto Istat evidenzia che tra il 2000 e il 2015 è sì cresciuta la popolazione in età da lavoro, ma gli effetti della denatalità successiva al baby boom hanno prodotto un assottigliamento delle classi più giovani, quelle fino a 40 anni, mentre per l’effetto demografico opposto sono cresciute quelle senior, tanto che a partire dal 2013 il livello del
tasso di occupazione dei più anziani ha superato quello dei giovani (si veda l’infografica in basso). 


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venerdì 24 marzo 2017

Il diploma batte la laurea breve

(Fonte: "Italia Oggi")

Con la laurea breve si guadagna meno che col diploma di scuola superiore. I lavoratori in possesso di una laurea triennale percepiscono infatti una retribuzione media pari a 29.411 euro l’anno, mentre
coloro che hanno conseguito un diploma hanno un reddito lavorativo di 29.891 euro.
Non solo. La differenza tra la laurea quinquennale e quella breve, in termini di Ral 2016, è di oltre 12 mila euro l’anno.


È quanto emerge, tra l’altro, dal Jp Salary Outlook 2017, studio dell’Osservatorio Job-Pricing su base semestrale con le evidenze del mercato retributivo italiano e dei cambiamenti in atto. Per  quanto riguarda le differenze di salario per livello di istruzione, la Ral media dei laureati è di
39.743 euro, mentre quella dei non laureati di 27.782 euro, con uno scostamento pari al 43%. In particolare, emerge una netta differenza retributiva tra i lavoratori che hanno terminato un percorso di studi di laurea almeno quinquennale e coloro che invece si sono fermati alla laurea breve o non si sono laureati: la prima categoria presenta una Ral media superiore ai 41 mila euro lordi annui, la seconda non arriva mediamente ai 30 mila euro. 


La differenza tra le categorie di laureati e non si assottiglia spostando l’analisi sull’inquadramento professionale: solamente fra i dirigenti esiste infatti una differenza media di quasi 9 mila euro fra i laureati e i non laureati (6,5%), mentre la distanza fra gli impiegati (circa 1.200 euro in valore assoluto), non è così netta. Non c’è invece alcuna differenza tra i quadri, mentre è leggermente negativa tra gli operai. Dall’indagine emerge che la differenza retributiva alla base del titolo di studio conseguito non si valorizza tanto all’interno dello stesso inquadramento professionale, quanto con la maggiore possibilità di ambire a una qualifica manageriale. Tra i non laureati, infatti, solo il 3% occupa una posizione apicale, mentre fra i laureati la percentuale sale al 25%: un laureato su quattro è almeno quadro, mentre solo tre non laureati su cento diventano quadro o dirigente. Nel dettaglio, il 42% di coloro che sono in possesso di un dottorato di ricerca è dirigente o quadro, percentuale che scende al 39% per il master di secondo livello, al 28% per la laurea magistrale, al 27% per il master di primo livello e solo al 5% per la laurea triennale. Andando ad analizzare i trend delle retribuzioni tra il 2015 e il 2016, emerge che i non laureati hanno beneficiato di un aumento del Ral, in media, del 2,4%, mentre i laureati di solo lo 0,6%.

Vi sono in particolare alcuni livelli di istruzione a cui è associato un trend positivo e superiore anche ai due punti percentuali, come il diploma di qualifica professionale, la laurea breve e il master di
I livello. Analizzando le singole qualifi che si può invece notare come i trend siano maggiormente differenziati.
I trend più significativi sono tra i dirigenti, quadri e operai a lavoratori con la sola scuola
dell’obbligo, mentre tra gli impiegati il trend più elevato colpisce i lavoratori con un master di primo livello. 


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giovedì 23 marzo 2017

Soft skill necessarie

Fonte: ("Italia Oggi")

Riagganciandoci al discorso di ieri sull'impreparazione italiana nell'affrontare le lingue straniere, eccovi un altro articolo sull'argomento.

Lingue straniere, competenze sociali, gestione d’équipe o leadership, organizzazione, e ancora finanza e budget, negoziazione, informatica, ricerca e sviluppo. Ecco la top ten delle soft skills,
ossia delle competenze trasversali spesso più ricercate nel mondo del lavoro. In Italia e all’estero.
Che vedono inciampare i giovani italiani proprio sulla conoscenza delle lingue straniere, a partire
dall’inglese.
 

L’incompetenza linguistica degli italiani sull’inglese, Ocse a parte, è confermata anche da Adp che
si occupa di Risorse umane.
Dalla ricerca su «La forza del lavoro in Europa», se da un lato il lavoro dei sogni, per un italiano su tre, è all’estero (in Germania), dall’altro la conoscenza della lingua è chiaramente un fattore
determinante. Tra gli italiani alla domanda «per che tipo di competenze e formazione senti di necessitare di aiuto», il 29,1% ha risposto «linguistiche», il 24,4% vorrebbe aumentare le proprie
competenze nell’It, il 23,5% nell’utilizzo di nuovi dispositivi e tecnologie.
Tre intervistati su dieci, dunque, desiderosi di espatriare e consapevoli dei propri limiti di  comunicazione.
«In Italia», spiega Nicola Uva, direttore marketing di Adp, «è forte la voglia di un’esperienza di lavoro all’estero, ma questo non deve per forza essere considerato da un punto di vista negativo.
Certo, l’emigrazione dei talenti è data sicuramente in parte dalla mancanza di buone opportunità
nel nostro Paese, ma dall’altro lato fa parte di un normale processo di crescita che coinvolge tutta l’Europa».
Risultato: impari l’inglese chi può, se vuol trovare più facilmente lavoro, in Italia e soprattutto
all’estero.


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mercoledì 22 marzo 2017

Lavoratori bocciati in inglese

(Fonte: "Italia Oggi")

Italiani bocciati dall’Ocse: competenze scarse o comunque poco adeguate a soddisfare le esigenze
del mercato del lavoro. Ecco cosa ostacola in Italia l’aumento delle retribuzioni e l’incremento del benessere.


Nel rapporto elaborato dall’Organizzazione parigina sull’economia italiana, il cosiddetto «skill mismatch» è uno dei punti critici. Il 12% dei lavoratori italiani risulta sovraqualificato in
competenze linguistiche, perché non in grado di utilizzare completamente le proprie competenze
linguistiche e le proprie capacità sul lavoro.
Nell’8 % dei casi è invece sottoqualificato, poiché non in possesso delle competenze normalmente
necessarie al lavoro che svolge. Percentuali che superano le medie europee rispettivamente del 10% (per i sovraqualificati) e del 4% (per i sottoqualificati). 


Il dato rattrista ma in fondo non sorprende. Basta guardare i dati elaborati dal sistema informativo Excelsior di Unioncamere in collaborazione con il Ministero del lavoro, che fotografano l’incontro
domanda-offerta nel nostro Paese. Un’assunzione su cinque tra quelle che le imprese hanno in programma nei primi tre mesi del 2017 può comportare difficoltà a reperire personale adeguato. Un problema che sembrava si stesse superando (nel 2016 ha interessato il 12% delle assunzioni totali),
che invece nel settore privato torna alla ribalta.
Le imprese hanno necessità di profili qualificati (pari al 22% del totale delle assunzioni programmate contro il 17% nel 2016). Tecnici, ad esempio, ai quali le imprese destinano il 15% delle
assunzioni in programma tra gennaio e marzo. Il 40% delle assunzioni previste riguarderà figure intermedie (15% per i profili impiegatizi e 25% per quelli del commercio e dei servizi), il 24%
operai e solo nel 13% dei casi personale non qualificato.
 

Le maggiori difficoltà di reperimento, secondo Excelsior, riguardano professioni specialistiche (40%), tecniche (quasi il 30% del totale) e operai specializzati (25%).
Al top di questa graduatoria si trovano ingegneri, architetti e figure assimilate, difficili da reperire nel 56% dei casi, a cui seguono i dirigenti (53%), gli specialisti in scienze fisiche e naturali (49%), gli specialisti della salute (46%) e gli specialisti in scienze economiche e gestionali di impresa (41%).
Come per le difficoltà di reperimento, anche la richiesta di esperienza, è determinante in 66 casi su 100 e aumenta con l’avanzare del livello professionale richiesto.
Quote molto elevate, attorno al 76-77% del totale, vengono segnalate dalle imprese delle costruzioni,
dei servizi dei media e della comunicazione e dei servizi turistici e della ristorazione.
L’esperienza insomma conta: già nel percorso formativo bisogna effettuare una pratica diretta del contesto d’impresa. Un aspetto, questo, sul quale la riforma della scuola interviene introducendo
in maniera strutturale negli istituti tecnici e nei licei periodi di alternanza tra scuola e lavoro.
 

Per cercare di ridurre questo gap, Unioncamere e Anpal (Agenzia nazionale politiche attive del lavoro) hanno siglato un protocollo d’intesa in cui si impegnano a progettare e sviluppare
applicazioni in grado di informare utenti e operatori dei centri per l’impiego sulle opportunità di lavoro, sulle imprese ad alta potenzialità occupazionale, e di offrire guide personalizzate on line sull’orientamento formativo.
La didattica delle competenze è spesso descritta come una moda importata dal mondo anglosassone. In realtà, il nesso fra il conoscere e l’agire è un tratto importante della tradizione del pensiero occidentale.
Pensiamo alle figure tradizionali dei «sapienti» antichi: la filosofia, e più in generale la cultura, non
nascono forse come tensione ad un conoscere, che non è mai fine a se stesso, ma è sempre finalizzato ad agire come cittadino di una polis, e dunque come soggetto consapevole e responsabile?
Soggetto consapevole, responsabile e soprattutto potenziale lavoratore, e motore della società. Più del sapere o del fare singolarmente, in sostanza conta per chi deve assumere il «saper fare». Il Jobs act e la Buona scuola, scrivono i tecnici Ocse, «vanno nella giusta direzione». Vi sono segnali
importanti di miglioramento nella qualità dell’insegnamento.
I quindicenni italiani in lettura, matematica e scienze progrediscono più velocemente rispetto ai
coetanei europei. Ma è sul livello di competenze medio, ancora insufficiente, che bisogna investire. L’Italia potrebbe incrementare il proprio livello di produttività lavorativa del 10% se riducesse il livello di disparità all’interno di ciascun settore al livello corrispondente alle migliori pratiche
dell’Ocse (Adalet McGowan e Andrews 2015). Dunque, la direzione è segnata ma per gli italiani c’è ancora da lavorare. O meglio da imparare, prima di poter (sperare di) lavorare. 


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martedì 21 marzo 2017

Vietato conservare la mail 10 anni

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Il datore di lavoro non può accedere in maniera indiscriminata alla posta elettronica aziendale e ai dati personali contenuti negli smartphone forniti al personale: l’acquisizione di questi dati è lecita, infatti, solo se sono avviene nel rispetto dei criteri generali definiti dal codice della privacy.
Il provvedimento 547 del 22 dicembre 2016 del Garante della privacy, (...), conferma le indicazioni
già desumibili dagli orientamenti precedenti, ma risulta comunque molto importante in quanto
fornisce esempi concreti su come applicare tali orientamenti.
L’intervento del garante scaturisce dal reclamo proposto da un dipendente contro il trattamento di dati personali effettuato dall’ex datore di lavoro, il quale - anche dopo la fine del rapporto, intervenuto per licenziamento- non aveva disattivato immediatamente l’account di posta elettronica aziendale usato dal lavoratore, identificato con il suo nome e cognome.
Il datore di lavoro aveva conservato la possibilità di accedere a tutte le e-mail, in entrata e in
uscita, e aveva prelevato alcuni file presenti sui sistemi aziendali ma contenenti informazioni
personali relative al lavoratore; inoltre, l’azienda aveva collocato queste comunicazioni elettroniche presso un server destinato a conservarle per 10 anni.
Il Garante esclude che il datore di lavoro possa raccogliere i dati contenuti nelle comunicazioni elettroniche in transito sull’account usato dal dipendente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, senza averlo informato preventivamente circa le modalità e le finalità di raccolta e conservazione dei dati, e circa i tempi entro i quali l’account di posta elettronica continuerà a essere attivo dopo la fine
del rapporto di lavoro.
Queste informazioni devono essere date in quanto sussiste l’obbligo, in capo al titolare del trattamento dei dati, di fornire una preventiva informativa circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti effettuati, in attuazione del principio di correttezza fissato dal Codice della privacy.
Il Garante considera illecita anche la mancata disattivazione dell’account di posta elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro senza informazione adeguata all’interessato e ai terzi.
Confermando un orientamento già espresso in precedenti occasioni, il Garante stabilisce che la rimozione degli account riconducibili a persone identificate (o identificabili) deve essere accompagnata dall’adozione di sistemi automatici volti a informarne i terzi e a fornire a questi ultimi indirizzi alternativi, in modo che non si interrompano le comunicazione relative all’attività professionale del titolare del trattamento.
Viene inoltre censurata la durata eccessiva (10 anni) del periodo di conservazione sui server
aziendali dei dati e dei contenuti delle comunicazioni elettroniche intrattenute dal dipendente.
Tale durata sarebbe lecita solo se l’azienda dimostrasse la sua coerenza con le ordinarie necessità di gestione dei servizi di posta elettronica. Nel caso esaminato manca questa prova e quindi la durata decennale viene giudicata non conforme ai principi di necessità, pertinenza e non eccedenza stabiliti dal Codice, oltre che lesiva dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, nella misura in cui consente alla società di effettuare un controllo massivo, prolungato e indiscriminato dell’attività del lavoratore.
Infine, il Garante rileva che è illecita la scelta del datore di lavoro che si riserva la facoltà di
accedere da remoto ai documenti archiviati su un apparecchio telefonico portatile, in occasione del verificarsi di eventi genericamente indicati, se questa facoltà non è accompagnata  da apposite procedure che attestino il rispetto dei principi di liceità, necessità, pertinenza e non eccedenza dei trattamenti.


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lunedì 20 marzo 2017

La magia degli elenchi

Business Insider ci parla delle "to do list" e degli errori da non fare quando le compiliamo.

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venerdì 17 marzo 2017

Allenare alla felicità

(Fonte: "Business People")

Il coaching in Italia è una disciplina vista ancora con sospetto perché siamo in ritardo, non solo rispetto agli Stati Uniti ma anche all’Europa stessa, dove è raro trovare importanti aziende senza una figura di questo tipo. 

(...)
 
Quando si pensa a un coach bisogna pensare a un allenatore sportivo, qualcuno che allena la tecnica e la preparazione atletica e mentale di una persona in funzione del raggiungimento di determinati obiettivi in uno sport. Questa figura fa la stessa cosa su altri campi, dalla medicina al management: allena il talento della persona in funzione della sua crescita.

Un coach è un leader?
Tendenzialmente no, ma deve essere all’altezza di allenare un leader. Il che significa che se fa il follower e cerca il consenso del leader, è fuori dai giochi.

(...)

Il coaching performativo americano mira a introdurre tecniche e strumenti di miglioramento in funzione del raggiungimento di un determinato obiettivo ed è disciplina che non ha attecchito in Italia perché qui non abbiamo una vera cultura degli obiettivi, nemmeno a livello aziendale. 
La declinazione umanistica è nata con l’obiettivo di combinare la crescita delle persone e il raggiungimento di obiettivi, con la felicità e l’efficienza delle performance, valorizzando le singole vocazioni e passioni insieme all’aspetto relazionale. È un allenamento sul campo per il raggiungimento di un benessere organizzativo, di un progetto di vita fatto di risultati concreti e tangibili, verificabili.

In sostanza si vuole allenare le persone a essere felici?
Sì. Una persona o un’azienda diventano felici nella misura in cui rendono felice qualcun altro. Spesso però lo fanno sacrificandosi, e questo genera una delusione profonda. Il coaching umanistico punta ad armonizzare l’aspetto individuale della soddisfazione personale con l’aspetto relazionale, perché le persone non possono essere slegate dal loro contesto, è all’interno della propria vita che possono diventare felici esprimendo le proprie specificità e non sopportando faticosi sacrifici.

Perché affidarsi a un coach?
Perché il coach allena la persona dentro al suo contesto, sul campo della propria vita. Lo aiuta a scoprire e valorizzare i talenti che già possiede.

Quali tipologie di persone si rivolgono a una figura simile?
Le più disparate, è una dimensione molto orizzontale. Andiamo dagli imprenditori o manager di azienda alle donne che escono da situazioni di violenza domestica, fino ai genitori e agli adolescenti. Chiunque abbia una tensione forte a comprendere quali risorse ha dentro di sé che non riesce però a esprimere, si rivolge a queste figure.

Cosa ne pensate? Avete qualche esperienza di coaching?

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giovedì 16 marzo 2017

Più ricco di energia chi sa cooperare e ama il cambiamento

C’è una stretta correlazione tra le performance di un’impresa e un ambiente di lavoro sereno.
Ce ne parla "Affari&Finanza".

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mercoledì 15 marzo 2017

Carismatico e lavora in squadra è il capo del brand di successo

Leadership diffusa, condivisione delle esperienze, autogestione della carriera, candidature aperte e innovazione tecnologica. Sono questi i trend più diffusi nel mondo del lavoro secondo l’ultima ricerca di Top Employers Insistute, relativa al 2016 e realizzata su un campione di 600 aziende in 102 Paesi, tra cui le 79 imprese italiane che sono state certificate Top Employers Italia. 

Ce ne parla "Affari&Finanza".

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martedì 14 marzo 2017

Manuale ed eventi per socializzare cambia il benvenuto al neoassunto

C’era una volta il kit di benvenuto per neoassunti: una pacca sulla spalla (ma non sempre) e pedalare. Era il battesimo dell’acqua, come dicevano i dirigenti di lungo corso, buttate il giovane in mare e vediamo se sa nuotare.

E oggi? Ce ne parla "Affari&Finanza".

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lunedì 13 marzo 2017

La sfida: intercettare i desideri dei talenti

Il problema per le aziende è evitare la fuga dei dipendenti migliori. Fare leva sullo stipendio non basta. La chiave diventa personalizzare l'offerta in base alle esigenze mostrate da ogni addetto: le strategie per rendere attraente un posto.
Ce ne parla "Affari&Finanza".

E ancora, sempre dalla stessa testata, "L'impiegato felice spinge le quotazioni dell'azienda".

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venerdì 10 marzo 2017

Welfare aziendale, crescono servizi e beneficiati


Il premio di produttività può essere convertito in prestazioni prima d'ora non contemplate per legge e anche i quadri possono godere dei benefit.
Più di 5 milioni di dipendenti nel 2016 hanno ricevuto in media 1.500 euro per la performance di risultato detassata.

Ce ne parla: "Affari&Finanza".

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giovedì 9 marzo 2017

Ai manager italiani manca la capacità di fare squadra

I manager italiani sono molto creativi e capaci di gestire il caos, ma hanno difficoltà a valorizzare i talenti.
Ce ne parla "Affari&Finanza".
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mercoledì 8 marzo 2017

Trucchi per le password


(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Non si può ormai più fare a meno dei «pin» e delle password. Servono per il conto in banca, per gli
acquisti online, per attivare lo smartphone, collegarsi ai social media, vedere i film (...), ritirare i soldi al bancomat. I codici di accesso sono ormai così tanti che una persona su quattro li dimentica,una su tre usa la propria data di nascita e tre su quattro utilizzano la stessa password peraccedere a funzioni diverse.

Gli hacker e i ladri di identità sono molto felici di questo: rubare codici insicuri è un gioco da ragazzi, visto che la gente lascia abitualmente tracce di sé ovunque, rivelando sui social date e nomi (come quello del cane o del gatto) che poi adotterà come codice.
Sembra incredibile, ma nonostante l’incremento esponenziale dei furti online, la password ancora più usata al mondo è 123456, seguita dalla più astuta 123456789 e dall’intramontabile «Qwerty», le
prime sei lettere della tastiera del computer. Katherine Mills, esperta di mentalismo e membro dell’esclusivo Magic Circle di Londra, di cui fa parte anche il principe Carlo,ha detto al «Daily Mail» di essere in grado di scoprire le password scelte da qualcuno semplicemente osservandone il volto o il linguaggio del corpo mentre risponde a precise domande. Mills consiglia di scegliere password composte solo da codici casuali, che non abbiano nulla a che fare con la propria storia personale, con i parenti e con gli animali di casa.
Il problema è come ricordarle, visto che la cosa più semplice, appuntarsele su un foglietto da tenere nel portafogli, è a giudizio degli esperti anche la peggiore da fare. 

(...)

Una password sicura deve contenere una sequenza di almeno 12 lettere maiuscole e minuscole e di numeri scelti in modo del tutto casuale.

Ricordare password complesse non è difficile, se le si associa a un’immagine: viaggiare con un’Alfa Romeo ascoltando i 99 Posse crea il codice AR99P.

(...)

Il vecchio metodo delle spie della Guerra Fredda è ancora il più efficace: a ogni lettera dell’alfabeto corrispondono numeri e lettere scritti in una tabella.

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martedì 7 marzo 2017

La mobilità premia sul lavoro

(Fonte: "Italia Oggi")

Compie trent’anni il programma Erasmus che, dal 1987 ad oggi, ha coinvolto 3 milioni e mezzo di studenti e oltre 120 mila insegnanti, portandoli a trascorrere un periodo (da nove mesi a due anni) di studio nell’università di un altro Paese e, quindi, a vivere in una città straniera. Prerogativa del
programma è ampliare il percorso formativo dello studente dandogli la possibilità di respirare una dimensione «altra», internazionale e favorendo l’apprendimento di una nuova lingua. Un’esperienza
di vita, in sostanza, prima che di studio. Dopo quasi trent’anni, nel 2014 si è approdati all’Erasmus
Plus, il nuovo programma di mobilità dell’Unione Europea per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport, che ha sostituito, raggruppandoli sotto un unico nome, tutti i programmi di
mobilità dell’Ue. Con un finanziamento di 16,4 miliardi di euro per i sei anni 2014-2020.
Dal rapporto presentato nel 2015 dalla Commissione europea sul primo anno di Erasmus Plus, le borse di mobilità per studenti, tirocinanti, insegnanti, volontari e altri giovani hanno permesso a quasi 58 mila italiani di partire (650 mila in Europa), con un impegno fi nanziario di 92,80 milioni di euro. Buona la performance dell’Italia, che è fra i Paesi che hanno maggiormente beneficiato dei finanziamenti europei. 


Seconda solo alla Turchia per numero di candidature presentate. Il settore universitario ha beneficiato di oltre 53 milioni di euro, impiegati per sostenere le mobilità di oltre 34 mila studenti, professori e staff, a seguire la formazione professionale (25 milioni), la mobilità per i giovani (quasi 10 milioni), la formazione per il personale della scuola (3.6 milioni) e per il personale impegnato
nell’educazione degli adulti.
L’Alma Mater Studiorum di Bologna, l’Università degli Studi di Padova, la Sapienza di Roma, l’Università degli Studi di Torino e la Statale di Milano sono le prime cinque università italiane per
studenti in uscita. Spagna, Francia, Germania, Regno Unito, Portogallo le destinazioni preferite
dagli italiani.
A ciò si aggiungono i dati dello studio di impatto Erasmus in ambito di istruzione superiore, con un
focus sulle quattro macro regioni europee (Nord, Sud di cui fa parte l’Italia, Est, Ovest), elaborato su oltre 71 mila persone intervistate fra studenti, ex studenti e staff (accademico e amministrativo) per verificare l’impatto della mobilità Erasmus in termini di occupabilità, competenze e carriera a livello europeo.
Per gli studenti che hanno maggiormente beneficiato delle mobilità si rileva una riduzione dei tempi di disoccupazione.
Sul fronte dei tirocini, ad esempio, il 51% degli italiani ha ricevuto un’offerta di lavoro dall’impresa
europea in cui veniva svolto il traineeship (media europea 30%). L’esperienza di mobilità ha avuto un’influenza positiva anche sullo spirito di imprenditorialità: in Italia il 32% degli studenti con esperienza di tirocinio Erasmus è intenzionata ad avviare una start-up e il 9% l’ha già realizzata. I laureati che sono partiti in Erasmus hanno una maggiore mobilità lavorativa: il 93% è disposto
a trasferirsi all’estero per lavoro e sono maggiormente disposti a cambiare datore di lavoro rispetto a chi non ha realizzato una mobilità Erasmus. 


(...)

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lunedì 6 marzo 2017

Saper scrivere è così importante?

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

Tra i colpevoli della notevole inabilità alla scrittura di buona parte degli studenti italiani ci sono anch’io. Ho appena messo 18 al compito scritto di uno studente della laurea magistrale in Lettere (quinto anno di università) che meritava invece di essere bocciato perché, a parte conoscere maluccio il programma, ha grosse difficoltà nello scrivere: mette male la punteggiatura, usa i verbi
sbagliati, confonde le preposizioni (scrive per esempio che «la squadra ha l’intenzione a partecipare», anziché “di partecipare”) non sa fare un riassunto, nel senso che invece di riassumere
l’intero brano assegnato sintetizzandone il contenuto lo riassume frase per frase: «L’autore di questo brano dice che... Poi dice che... Poi dice che...», e così via. Lo studente che io adesso promuovo potrebbe prima o poi diventare un insegnante, e con un insegnante simile i suoi futuri studenti certamente non impareranno a scrivere (ci si potrebbe domandare: può questo aspirante insegnante
imparare a scrivere nei prossimi anni, tra il suo quinto anno di università e la sua eventuale,
speriamo scongiurabile, entrata in servizio? No, non può, non s’impara a scrivere a ventitré anni). E allora perché l’ho promosso?
 

Dato che si discute, in questi giorni, della cattiva scrittura degli studenti, mi pare che la risposta
a questa domanda possa interessare tutti. Ma non c’è una sola risposta, ce ne sono molte, o meglio c’è una risposta che si complica, si sfrangia in tante risposte più piccole, una causa che si può scomporre in concause.
Diciamo intanto che lo studente a cui ho dato 18 ha ripetuto l’esame quattro volte. La quarta è andata meglio delle tre precedenti, nel senso che lo studente non ha smesso di impegnarsi: ha letto, ha studiato. Ma, quanto alla scrittura, non può fare più di così: avrebbe dovuto imparare a scrivere decentemente molti anni fa, ma non ha imparato, e adesso è tardi. Alla quarta volta l’ho promosso perché, come mi ha ripetuto fino alla nausea, il mio è «il suo ultimo esame», la tesi è già pronta da
tempo, ed è una tesi che non riguarda la mia materia: lo studente si laureerà in storia contemporanea.
Bocciarlo ancora (e poi ancora, e ancora) avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli l’esistenza. Tra l’altro, lo studente non è affatto sciocco, e ha un libretto più che dignitoso. Non sa scrivere in un italiano decente, ma ha una media del 27-28, alcuni 30. Esami orali, voti in parte anche meritati. Di fatto, il mio è uno dei non molti esami scritti
che ci siano a Lettere; i pochi altri sono test a crocette, o sono esami scritti in cui il docente
(legittimamente?) bada più al contenuto che alla forma. Ma insomma, alla quarta volta – lo
studente è civile, è anche, ripeto, intelligente – non me la sono sentita di bocciarlo ancora, e gli ho regalato un voto.


Quattro volte? Sì, perché l’università italiana è quel luogo felice in cui gli studenti possono
ripetere lo stesso esame virtualmente all’infinito.
Tre sessioni l’anno, uno o due appelli a sessione, più eventuali sessioni straordinarie: i miei studenti possono, come si dice, “tentare” il mio esame cinque o sei volte l’anno, finché non lo passano (e infatti quattro non è il record: ci sono studenti che lo hanno ripetuto sei, sette volte). In altre nazioni, chi viene bocciato all’esame per due volte deve ripetere l’intero anno; in alcune, una pluri-bocciatura comporta l’espulsione dall’università.
Non in Italia. In Italia, una volta entrati, si ha il diritto di ripetere gli esami quante volte si vuole, così come si ha il diritto di non frequentare le lezioni. È la libertà.
Una volta entrati, ho detto, e qui sta l’altro problema, perché la porta dei dipartimenti di Lettere, a differenza di quella – poniamo – delle facoltà di Medicina, è sempre aperta. Ci sono in alcuni atenei, come mini-deterrenti, dei test d’ingresso, ma sono test che hanno l’obiettivo di permettere allo studente di autovalutarsi, di capire se quella è davvero la sua strada, più che di stabilire chi può o non può frequentare i corsi. Di fatto, è normale leggere, nei bandi, che «l’esito del test non
preclude la successiva immatricolazione al Corso di Laurea» (cito dal sito dell’Università di Bologna); e di fatto accade spesso che a Lettere finiscano per iscriversi ragazzi e ragazze che non hanno passato l’esame d’ammissione a corsi universitari o para-universitari più selettivi ma di tutt’altra indole, come Fisioterapia. Lettere è un ripiego, magari momentaneo, in attesa di riprovare il test di Fisioterapia.
Perché questa generosità, questa politica di accoglienza erga omnes? Per varie ragioni.
La prima è che non si può mettere il numero chiuso a tutti gli indirizzi di studio, altrimenti molti studenti non saprebbero che fare, dopo le superiori. A differenza dei corsi di medicina o di fisioterapia, i corsi di Lettere e Filosofia non hanno bisogno di laboratori, perciò non esistono ragioni oggettive che impongano un filtro agli iscritti: dove si formano venti latinisti – questa la ratio (non molto razionale, in verità) – se ne possono formare quaranta. La seconda è che gli studi umanistici sono spesso intesi come una sorta di viatico all’emancipazione personale, non solo cioè un percorso professionalizzante ma l’occasione per una crescita culturale, per migliorare se stessi:
negare questa chance a studenti magari non manifestamente vocati alla carriera di intellettuali
ma volenterosi, zelanti, davvero capaci di trarre profitto da lezioni su Aristotele, Shakespeare, Michelangelo, può apparire ingiusto, anche odioso. La terza, la più importante, è che qualsiasi università ha tutto l’interesse ad avere – nei limiti (assai elastici) imposti dalle sue strutture, e dall’ampiezza del suo corpo docente – il maggior numero possibile di studenti, un po’ perché gli studenti pagano le tasse e un po’ (soprattutto) perché il ministero dell’Istruzione finanzia le università in proporzione al numero dei loro iscritti.
Pochi studenti vogliono dire pochi soldi per aprire corsi di studio, assumere docenti, reclutare
giovani ricercatori, organizzare congressi eccetera.
Questa spiegabile politica delle “porte aperte” ha il suo prezzo: a Lettere s’iscrivono molti studenti che non avrebbero bisogno di fare l’università ma di fare o rifare un buon liceo, e che – tra le altre cose – non sanno scrivere in italiano perché nessuno glielo ha mai insegnato.
Lo studente a cui ho dato 18 è uno dei tanti: nelle sue condizioni, o peggio, si trova la maggior parte degli studenti che s’iscrivono a Lettere. Bocciarli tutti? È quasi impossibile. (1)Perché bocciare a ripetizione la metà o più dei candidati all’esame di Letteratura italiana vorrebbe dire in pratica bloccare le carriere di decine e decine di studenti, con ovvie ripercussioni sulla vita dell’intero dipartimento. (2) Perché le università vengono premiate dal Ministero anche in ragione della rapidità con cui gli studenti concludono i loro studi, cioè arrivano alla tesi: vale a dire che le università sono fortemente motivate a licenziare in fretta i loro studenti, a non avere fuori-corso; e i
docenti sono tacitamente invitati ad aderire a questa policy, nel loro stesso interesse. (3) Perché
bocciare qualcuno perché non sa scrivere non è così facile. Abituati a “badare al contenuto e non alla forma”, molti studenti non riescono a capire perché io dia tanta importanza ai loro errori o alla loro sciatteria nello scrivere.
Se anche lo capiscono, se arrivano ad ammettere che la forma è importante, possono non capire perché ciò che scrivono non va bene, o possono obiettare che si tratta di errori veniali, di pura distrazione, che non giustificano la bocciatura. Offesi da questa ingiusta persecuzione, possono, a norma di regolamento, rivolgersi al rettore o al direttore di dipartimento per chiedere di fare l’esame (oralmente) con un altro docente della stessa materia.
Supereranno l’esame, si laureeranno; e alcuni andranno a insegnare.
Tutta questa spiegazione per dire che una delle ragioni per cui gli studenti non sanno
scrivere (insieme alla disaffezione alla lettura, al contagio del linguaggio affrettato degli sms e di Facebook, alla prevalenza del visivo sullo scritto, eccetera) è che non sanno scrivere molti dei laureati in Lettere che andranno a insegnare nelle scuole, laureati che non potranno ovviamente insegnare ad altri ciò che loro stessi non sanno fare. Questo accade perché, come ho cercato di spiegare, tutti gli attori coinvolti (gli studenti, le famiglie, i docenti universitari, l’amministrazione universitaria) hanno interesse a far sì che le cose vadano in questo modo, ragion per cui non si vede
proprio come sia possibile uscire da questa situazione, salvo un ripensamento complessivo della formazione scolastica e universitaria, con enormi investimenti e progetti di medio-lungo periodo che ignorino l’utilità immediata e le mode: niente che sia realistico aspettarsi (l’idea che, come recita il manifesto steso dal «Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità», la salvezza
possa venire da «una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione
delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari» mi pare molto ingenua).
Oppure no? La soluzione potrebbe arrivare, sta già arrivando forse, da tutt’altra direzione, il nodo potrebbe essere tagliato anziché sciolto. Provo a spiegarmi.
La competenza nella scrittura, il saper scrivere decentemente, declina anche per una ragione molto semplice e concreta, una ragione che – magari inconsciamente – è ben chiara agli studenti che hanno fretta di laurearsi (e più ancora alle loro famiglie che li mantengono), e cioè che saper scrivere decentemente, alla fine, non è così importante. Lo era senz’altro nell’Epoca della Scarsità, quando coloro che avevano accesso alla sfera pubblica erano pochi, e soprattutto quando il sapere tecnicoscientifico era percepito come meno rilevante rispetto a quella infarinatura umanistica che
dava accesso alle professioni di prestigio sia nel settore pubblico sia in quello privato,
un’infarinatura della quale il saper scrivere non bene, magari, ma “elegante” costituiva una parte non secondaria (che poi l’elegante confliggesse spesso con il bene, onde l’atrocissimo
bellettrismo italiano, è un altro discorso).
Era un saper scrivere che implicava, prima ancora della cura nello stile, la calligrafia (abolita come materia alle elementari nel 1985, quando Disegno e scrittura diventano Educazione all’immagine) e la consapevolezza di come andava strutturato un testo “ben fatto” (accapo, rientri, maiuscole, corsivi, formule protocollari ed escatocollari, eccetera).
Non è invece molto importante, saper scrivere, nell’Epoca dell’Abbondanza, quando ogni
individuo ha infinite possibilità di scrivere e di essere letto da un pubblico infinitamente più ampio di quello sul quale potevano contare gli scrittori del passato. Dato che lo scrivere (e anche lo scrivere per un pubblico) è diventato un’attività ordinaria come parlare o come leggere, molti di coloro che scrivono sono indifferenti alle regole della buona forma, o non le hanno mai veramente imparate. Per esempio. Scrivere direttamente al computer è una cosa tanto normale, per gli studenti di oggi,
che far loro osservare che sarebbe meglio scrivere prima su carta, e solo in un secondo tempo passare alla “bella” sullo schermo, suona come una bizzarria. Di fatto, è una raccomandazione
che faccio spesso ai miei studenti, ed è significativo che, come mi spiegano, nessun altro – genitore o insegnante – gliel’abbia mai fatta prima. Si pensa evidentemente che i “nativi digitali” siano così abituati al pc da essere in grado di scrivere direttamente su schermo: ma basta leggere quello che scrivono per capire che non è così. O meglio, basta leggere quello che scrivono se chi legge è in grado di distinguere una frase corretta da una frase scorretta, e una frase ben congegnata da una frase sbilenca: una competenza che, per le ragioni che ho detto, manca a molti insegnanti.
Ma non è che si scrive peggio perché si scrive di più, o più in fretta. Si scrive peggio soprattutto
perché l’infarinatura umanistica che era tenuta in gran conto fino a qualche generazione fa è diventata secondaria, a fronte di altre competenze, o a fronte di niente, ed è per esempio perfettamente possibile entrare a far parte della “classe dirigente” senza aver letto dei libri e senza saper scrivere in italiano.
 

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venerdì 3 marzo 2017

Le 9 regole per affrontare un colloquio di lavoro

Gli errori più comuni e i consigli degli esperti per essere presi in considerazione per un impiego.
Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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giovedì 2 marzo 2017

Il premio di produttività danneggia le donne

Premio di produttività e donne al lavoro. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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mercoledì 1 marzo 2017

Odi il tuo lavoro?

Se odiate il vostro lavoro ma non sapete cosa altro potreste fare per vivere, "Business Insider Italia" viene in vostro soccorso con questi suggerimenti!

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