lunedì 31 dicembre 2018

Quando bisogna staccare dal lavoro?

Qual è il momento giusto per staccare dal lavoro? Ce lo racconta "Il Corriere della Sera".

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venerdì 28 dicembre 2018

Pensa come Coco, diventerai Steve

Si possono imitare le persone di successo? Ce ne parla "TuttoScienze".

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giovedì 27 dicembre 2018

Cosa accade al nostro corpo dopo 8 ore alla scrivania?

Molti di noi passano ogni giorno almeno otto ore alla scrivania senza soffermarsi su ciò che accade al corpo. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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lunedì 24 dicembre 2018

L'orario flessibile vale la rinuncia a una parte di stipendio

A cosa sareste disposti a rinunciare in cambio dell'orario flessibile? Ce ne parla "la Repubblica".

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venerdì 21 dicembre 2018

Ancora sul multitasking...

Non si capisce come mai ma il multitasking è un argomento che ai nostri quotidiani piace tantissimo. Eccovi, allora, l'ennesimo articolo...

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giovedì 20 dicembre 2018

Il lavoro c'è ma specializzato

(Fonte: "Affari&Finanza")

In Italia c'è un problema di competenze e di orientamento dei giovani al lavoro. Molti di loro sono inattivi perché la scuola non è riuscita ad attrarli. In questo momento, invece, il mercato necessita di profili con una spiccata specializzazione. Persone che potrebbero generare valore per le aziende alle prese con una forte digitalizzazione. Sviluppatori in ambito IT, esperti di macchinari a controllo numerico e manutenzione, addetti specializzati per i distretti manifatturieri, fino ai profili manageriali in ambito di gestione, pianificazione, produzione ed export. 

E' lungo l'elenco di professionisti che potrebbero essere subito inseriti all'interno di molte aziende, figure professionali che la scuola oggi non è in grado di formare.

(...) 

Riflessione interessante, voi cosa ne pensate?

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mercoledì 19 dicembre 2018

Quando un hobby fa bene alla carriera

Le persone di successo spesso hanno un hobby. Eccovi quelli di alcune persone che sono diventate famose grazie al loro lavoro.

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martedì 18 dicembre 2018

Investire in formazione per attutire l'impatto della robotica sul lavoro

("Affari & Finanza")

Ci sarà un impatto negativo dellla rivoluzione tecnologica sul mondo del lavoro ma solo nel breve termine. Assisteremo sicuramente a uno spostamento delle professionalità, destinate ad essere sempre meno manuali e prevedibili. Dobbiamo quindi smetterela di fare formazione solo quando c'è bisogno e giocare d'anticipo, garantendo ai lavoratori del futuro il giusto mix di flessibilità, conoscenza e curiosità.

(...)

Il dibattito sull'impatto che avrà la tecnologia sul mercato del lavoro sembra ormai aver superato l'iniziale fase disfattista. E le stime sul saldo tra lavoro perso e creato hanno recentemente iniziato a restituire addirittura un segno positivo. Nel breve termine un impatto ci sarà, soprattutto con la diffusione della robotica che è già ovunque ma l'intelligenza artificiale, i big data, la blockchain e le altre tecnologie non elimineranno il lavoro. Anzi, probabilmente lo eleveranno. Ci sarà uno spostamento delle professionalità: ad esempio in un supermercato ci saranno meno cassieri e più analisti dei dati. In ogni caso, più che provare a indovinare il saldo è importante diffondere la cultura digitale e le competenze. Il mercato del lavoro 4.0 si giocherà una buona fetta di sostenibilità proprio su questo fonte. E in particolare sull'equilibrio continuo tra formazione, aggironamento e riqualificazione del capitale umano.

Bisogna riconvertire le competenze obsolete in competenze innovative. (...) C'è bisogno di un cambio di paradigma: non dobbiamo più formare il lavoratore quando sorge un bisogno, bensì giocare d'anticipo. Dobbiamo cioè immaginare le trasformazioni e impostare dei percorsi specifici. Se allarghiamo l'orizzonte temporale ai prossimi 5-10 anni, è ovvio che un ruolo chiave sarà nelle mani dellle università e in generale del sistema scolastico. (...)
Ormai tutto ciò che impariamo dura sei mesi, un anno o al massimo due. Non è più in discussione l'essenzialità della formazione continua ma la relativa modalità di esecuzione. Ad esempio dobbiamo capire come far diventare curiosa una persona che non lo è. E non è affatto semplice. 

Aziende, università, centri di ricerca, corpi intermedi, associazioni e altri soggetti saranno chiamati agli straordinari. E un ruolo chiave spetterà ai big. L'85% delle PMI italiane è in ritardo sul fronte digitale, esistono ancora aziende senza un sito web. Le imprese piccole e medie possono senza'altro fare qualcosa in più ma va riconosciuta loro l'impossibilità di incidere significativamente sul sistema formativo ed educativo. 

(...)

Tutti stanno investendo sull'articial intelligence e, in particolare, sul machine learning, perché consente di sviluppare processi in grado di riprogrammarsi automaticamente. E' una tecnologia che toccherà tutti i settori, dall'automotive alla manifattura, passando per i servizi professionali .

(...)

In Germania la scossa iniziale è stata data dai big che hanno tracciato una rotta digitale, portandosi dietro le tantissime piccole medie imprese della filiera.
La scommessa tecnologica rischia in ogni caso di risultare perdente senza le competenze.

(...)

Sullo sfondo resta la disfida avanguardista dei famosi lavori che ancora non esistono, ma che qualcuno si troverà a fare. Dobbiamo incidere profondamente sui metodi di insegnamento, abbandonando il mero trasferimento di nozioni. I lavori del futuro hanno bisogno di flessibilità e curiosità perenni. E pure di un'attitudine naturale a mettersi in discussione: solo le persone formate per vivere con l'aspettativa di un continuo cambiamento saranno pronte ad affrontare qualsiasi scenario.

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lunedì 17 dicembre 2018

Divertirsi a licenziare?

Possibile che ci si possa divertire a licenziare le persone? Sembra proprio di sì e che si forniscano anche serie motivazioni.
Cosa ne pensate?


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venerdì 14 dicembre 2018

Rivelereste il vostro stipendio? E a pagamento?

Sembra che le persone non vogliano rivelare neanche sotto tortura quanto guadagnano. Voi lo fareste? Leggete cosa dicono i ricercatori...

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giovedì 13 dicembre 2018

Il Corriere scopre le 5S

Fa piacere che anche i nostri quotidiani inizino a parlare di qualità.
In particolare, "Il Corriere Innovazione" ci racconta le 5S...


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mercoledì 12 dicembre 2018

Le sei cose da tenere sempre a portata di scrivania

Quali sono le sei cose che dovete assolutamente tenere a portata di scrivania? Eccole!

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martedì 11 dicembre 2018

Lavoro: un microchip sottopelle per essere assunti

Un'azienda statunitense utilizza il dispositivo da un anno. Gli impiegati lo usano per entrare in ufficio e fare acquisti.
Succederà anche da noi?

Leggiamo tutto su: "Il Corriere Innovazione".

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lunedì 10 dicembre 2018

Il pendolare è stressato e inquina

Secondo una ricerca fatta di recente, chi viaggia per lavoro è stressato e - ovviamente - inquina. Lo smart working potrebbe cambiare di molto le cose...

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venerdì 7 dicembre 2018

Qualche riflessione generale sulla qualità

Niente di nuovo o di particolarmente innovativo ma si tratta di un testo sulla qualità che potrà aiutare soprattutto gli amici più giovani che ci seguono, ecco perché vi segnalo questo articolo che è comunque un interessante spunto di riflessione.

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giovedì 6 dicembre 2018

Lavorate da casa? Ecco qualche trucco per farlo al meglio

Quali espedienti si possono adottare per essere più produttivi e concentrati sul lavoro quando si è a casa? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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mercoledì 5 dicembre 2018

I pro e contro della ISO 9010:2015

Qualche spunto di riflessione sui pro e contro della ISO 9001:2015. Cosa ne pensate? Aggiungereste qualcosa? Questo è l'articolo e questa la traduzione automatica.

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Ecco le professioni più richieste nei prossimi 5 anni


Fra le figure professionali emergenti gli esperti nell'analisi dei dati, nella sicurezza informatica, nell'intelligenza artificiale, nell'analisi di mercato. Ma anche chimici e specialisti di acquisti "verdi", tecnici di sistemi meccatronici, addetti alla logistica e profili sanitari. Ce ne parla "la Repubblica".

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martedì 4 dicembre 2018

Quali città offrono più possibilità di lavoro nel mondo?

In Italia la città che offre più possibilità di lavoro è Milano e direi che non ci sono grosse sorprese. La sorpresa arriva quando leggiamo come si posiziona nella classifica mondiale... 

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lunedì 3 dicembre 2018

Essere disciplinati è frutto di scelte

A volte ci lamentiamo di non riuscire ad essere più disciplinati nel seguire nuove abitudini che potrebbero darci una mano a indirizzare la nostra vita verso la strada desiderata. Che cos'hanno, dunque, in più le persone che riescono a mantenere nel tempo l'atteggiamento giusto?
Ce lo racconta Business Insider Italia.

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venerdì 30 novembre 2018

Il test di Einstein, la prova regina per l’assunzione

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

La prova logica di Einstein

E’ un test di logica, ma è usato nei colloqui di lavoro, quelli più difficili per valutare i candidati e la loro resistenza alla frustrazione e allo sforzo logico. Si chiama il test di Einstein anche se non è certo che sia stato proprio il grande fisico a inventarlo. 

Ecco il test: «Ci sono cinque case identiche, una accanto all’altra, ma di cinque colori diversi. In ogni casa vive una persona di nazionalità diversa e ciascuno di loro beve un certo tipo di bevanda, fuma sigarette di una certa marca e ha un certo tipo di animale domestico. Nessun proprietario ha lo stesso animale domestico, fuma lo stesso tipo di sigarette e beve lo stesso tipo di bevanda».


Chi è il proprietario del pesce?

Leggete la soluzione e scoprite se siete forti nei test di logica!


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giovedì 29 novembre 2018

Gli italiani valutano (e bocciano) il capo in ufficio

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

I lavoratori italiani non amano i loro capi. Non sono contenti di come li guidano e li valorizzano. Così l’insoddisfazione li porta a non apprezzarli, o quanto meno a non proporli come modelli di comportamento aziendale, come persone da consigliare per lavorarci insieme.
È quanto si deduce dall’indagine Good boss vs Bad boss realizzata dal «Centro sul cambiamento, la leadership e il people management» della Liuc Business school. «Il nostro obiettivo — chiarisce il direttore del Centro Vittorio D’Amato — è di comprendere il grado di propensione dei lavoratori a consigliare ad altri il proprio boss, oltre che di individuare una lista di comportamenti che caratterizzano un capo efficace».


Il campione di riferimento conta 632 lavoratori dipendenti tra operai, impiegati, quadri e
dirigenti di Pmi e grandi imprese. «Alla fine — spiega D’Amato — abbiamo calcolato
l’Nmps, il Net management promoter score, basato su un parametro formulato da
Frederick Reichheld dell’università di Harvard. Il risultato per i nostri capi è deludente: -
13,2%».
Il dato è ottenuto sottraendo la percentuale di «detrattori», cioè di chi ha dato uno score da 1 a 6 alla «consigliabilità» del suo capo (nel nostro caso il 39,3%), dalla percentuale dei «promotori» (score da 9 a 10, pari al 26,1%).
Tenendo conto che il restante 34,6% del campione si è collocato tra il 7 e l’8 venendo così
classificato come «neutrale», si conclude che ben il 73,9% degli interpellati non si spenderebbe nel consigliare ad altri di lavorare con il proprio boss.


L’indagine però va più in profondità, individuando i comportamenti che portano o non portano i collaboratori a sponsorizzare il loro capo. La condotta considerata più virtuosa e quindi tale da far pendere la bilancia dalla parte della consigliabilità è segnalata dal 54,7% dei lavoratori: «Lasciare un ampio grado di libertà nel modo in cui si conseguono i risultati». Seguono (50,5%) la «disponibilità ad ascoltare i collaboratori», il non aver «paura di prendere decisioni difficili» (40%) e la capacità di «chiarire gli obiettivi» (38%). All’ultimo posto (20%) l’attitudine a «definire chiaramente ruoli e responsabilità dei collaboratori». Quest’ultimo comportamento, considerato scontato per un capo appena accettabile, salta viceversa al primo posto (33,4% dei casi) nella classifica degli atteggiamenti che, mancando, portano i collaboratori a non consigliare il boss. Seguono (30,2%) il «non fornire feedback tempestivi», «non saper gestire le proprie emozioni e
quelle altrui» (26,6%) e «non definire con i collaboratori i criteri sui quali verrà valutata la
loro prestazione» (23,7%).


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mercoledì 28 novembre 2018

Nella prigione che cura i sudcoreani sfiniti dal lavoro

Vien quasi da dire che da queste parti siamo ancora fortunati...

(Fonte: "la Repubblica")

Le regole sono rigide. Uniforme blu da detenuti. Niente telefonini o orologi. Non si parla con gli altri ospiti. Si dorme sul pavimento su un materassino da yoga. Nella stanza solo una piccola toilette, neanche uno specchio. Chi penserebbe mai di rinchiudersi volontariamente in una prigione del genere, per di più a pagamento?

E invece in Corea del Sud sono tanti, più di 2mila persone, che da quando ha aperto nel 2013 hanno bussato alle porte di “Prison Inside Me”. Cercando di scappare da una vita quotidiana la cui pressione è insostenibile attraverso l’isolamento in questa struttura di Hongcheon, nel Nordest del Paese. Un po’ carcere, un po’ albergo, molto casa di cura.

Sono studenti schiacciati dalla feroce competizione del sistema educativo o lavoratori che non reggono turni interminabili, in un’economia dove si fatica oltre 2mila ore in media l’anno, più che in qualsiasi altro Stato dell’Ocse esclusi Messico e Costa Rica.


«La prigione mi dà un senso di libertà», dice alla Reuters nel mezzo della sua cella di cinque metri quadrati Park Hye-ri, 28 anni e un lavoro da impiegato d’ufficio, che ha pagato 90 dollari per una notte lontano dal mondo di fuori. Qualche comodità da vita libera agli ospiti viene concessa: un servizio da tè, una penna e un blocco note su cui lasciar scivolare i propri pensieri, qualche passeggiata all’aria aperta e sedute di ginnastica, ma in rigoroso silenzio.

Menù fisso: a colazione porridge di riso, a pranzo patate dolci bollite e a cena un frullato di banane, da consumare sempre nella solitudine della propria stanza, prima che la porta venga chiusa a chiave e la luce spenta.
La proprietaria della prigione, Noh Ji-Hyang, racconta che l’idea gli è stata data da una frase buttata lì quasi per caso dal marito, un magistrato che spesso e volentieri lavorava oltre dodici ore al giorno: «Piuttosto me ne starei confinato nell’isolamento per una settimana».

Lei l’ha preso sul serio, fondando la struttura grigia in mezzo alla campagna, un parallelepipedo con finestre alte e strette, una per ogni cella. «Dopo essere state qui le persone dicono che non è una prigione, la vera prigione è dove devono tornare», dice.


Negli ultimi mesi il governo guidato da Moon Jae-in ha preso una serie di misure per migliorare le condizioni dei lavoratori sudcoreani, aumentando il reddito minimo e abbassando il numero massimo di ore di lavoro a 52 a settimana, comunque una enormità. Nel frattempo però il livello della disoccupazione è salito al 4,2%, il massimo dalla grande crisi, mettendo ulteriore pressione sui cittadini.

«Non dovrei essere qui con tutto il lavoro che ho da fare – riconosce Park – ma ho deciso di fare una pausa e riflettere su di me per avere una vita migliore». 


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martedì 27 novembre 2018

Boom di anziani disoccupati che lasciano l'Italia

Aumenta il numero di persone che decidono di lasciare l'Italia e, tra queste, ce ne sono molte che non sono più giovani. Ce ne parla "Business Insider Italia".

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lunedì 26 novembre 2018

Colloquio: 6 errori da non fare

Quali sono i sei errori più comuni che si fanno durante un colloquio e come si possono evitare? Ce lo racconta "Il Corriere della Sera".

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venerdì 23 novembre 2018

Migliorare la produttività nell'open space

"D" ci suggerisce qualche consiglio per migliorare la nostra produttività se lavoriamo in un open space.

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giovedì 22 novembre 2018

Su LinkedIn il lavoro non si cerca, si attrae

Quali sono le tecniche per "attirare" il lavoro su LinkedIn? Eccovene alcune.

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mercoledì 21 novembre 2018

Tecniche di negoziazione

Che si tratti di lavoro, coppie o trattative con delinquenti o persone disperate, le tecniche di negoziazione sono abbastanza simili. Eccovi qualche consiglio da parte di un esperto.

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martedì 20 novembre 2018

La perfetta cover letter per trovare lavoro all'estero

Eccovi una serie di consigli per scrivere una cover letter capace di darvi qualche possibilità in più di trovare un lavoro all'estero.

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lunedì 19 novembre 2018

L'iniziativa di Batho Pele

Il servizio è un aspetto importantissimo della gestione della qualità, per questo motivo in Sudafrica hanno indetto un'iniziativa che prende il nome di Batho Pele per spingere le persone a migliorare i servizi governativi.

I principi sui quali si basa l'iniziativa sono:
  • stare in contatto regolarmente con la clientela;
  • fissare degli standard per il servizio;
  • migliorare l'accesso ai servzi;
  • assicurare cortesia;
  • fornire informazioni sempre migliori e sempre più dettagliate in merito ai servizi;
  • migliorare la trasparenza relativa all'erogazione dei servizi;
  • rimediare ad eventuali errori;
  • dare il maggior valore aggiunto possibile ai soldi spesi per poter usufruire dei servizi
Vi viene in mente altro che potrebbe essere aggiunto alla lista?

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venerdì 16 novembre 2018

Domande dei colloqui per metterti in difficoltà

Quali sono le domande che possono metterti più in difficoltà durante un colloquio e come fare per aggirarle? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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giovedì 15 novembre 2018

Siete stressati? Potreste avere questi sintomi

Ci sono alcuni sintomi che a volte non vengono ricondotti allo stress ma che ne sono, invece, la sua espressione. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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mercoledì 14 novembre 2018

Imparare a delegare

Quanti di voi sanno davvero delegare? Ecco alcuni consigli tratti da "Io donna" per imparare a delegare e vivere meglio.

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martedì 13 novembre 2018

Più produttivi lavorando solo 4 giorni?

Chi fa il weekend lungo (tre giorni) è più felice e produttivo. ce ne parla "Business Insider Italia".

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lunedì 12 novembre 2018

La lunghezza del CV

Se sei uno degli imprenditori più influenti del tuo settore e lavori nel campo da molti anni il tuo curriculum non può essere lungo solamente una paginetta, giusto?

Sbagliato! Ce lo spiega "Business Insider Italia".

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venerdì 9 novembre 2018

Quelli che il lavoro lo trovano all’happy hour

(Fonte: "la Repubblica")

Colazioni per scambiarsi contatti, pranzi a tema per fare rete. Ecco come cambia il modo di cercare un impiego (e i clienti) in un mondo di professionisti sempre più fluidi e nomadi.

Ogni mattina, in Italia, un professionista si sveglia e sa che dovrà correre velocissimo a colazione. Lì, in un bar alla moda o al buffet di un quattro stelle, incontrerà altri professionisti di ogni età con un caffè, una spremuta e la speranza non troppo vaga di trovare nuovi clienti o un lavoro. 

Benvenuti nel mondo in cui il curriculum è un reperto archeologico, i confini tra mestieri scompaiono e il tempo libero si mischia con quello dell’ufficio (per chi ancora ce l’ha o lo sogna). Un mondo in cui il lavoro si cerca tra uno spritz e un bicchiere di rosso, scambiandosi contatti e facendo gli incontri giusti al tavolo di un bistrot, che sempre di più, del resto, è l’ufficio dei nuovi globetrotter, liberi professionisti o professionisti liberi, capaci di unire competenze lontane e diverse.

(...)

Da tempo, i nuovi professionisti - digitali e non, millennial o più grandi - hanno preso a costruire relazioni di lavoro in contesti che una volta avremmo considerato improbabili, a meno di non scomodare l’Oscar Wilde della massima «i migliori affari si fanno a tavola». Colazioni a tema, happy hour, cene. Che si chiamino Aperijob, AperiHub o Fiordirisorse, l’obiettivo è riunire persone che dallo scambio di conoscenze possano portare a casa un contatto cruciale. 

(...)

In Italia, più che per questi esempi virtuosi, il networking è passato alla cronaca per la sortita di un ex ministro secondo il quale « nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula». «Quella frase è infelice perché suggerisce l’idea che basta avere i contatti giusti e zero competenze per farcela » spiega Francesca Parviero, learning experience designer. « Invece nel networking le skill sono essenziali: fare rete vuol dire riuscire ad avere perché si è capaci di dare » . 

Negli Stati Uniti, patria dei network internazionali più strutturati, c’è chi ha iniziato a vedere il fenomeno in una chiave più critica e a mettere in guardia. Adam Grant, professore alla Wharton School della Pennsylvania e autore di Give and Take, ha scritto di recente sul New York Times che il networking è sovrastimato: «È vero che fare rete può aiutare a fare grandi cose, ma è vero soprattutto il contrario: è fare grandi cose che aiuta ad avere un buon network». La ricetta migliore resta allora quella che all’happy hour unisce il confronto di competenze vere.

(...)

Negli anni 80, se chiedevi aiuto a un professionista, ti avrebbe detto: penso a tutto io. Mai qualcuno ti avrebbe messo in contatto con un collega gettandogli addosso una luce ancorché riflessa. Il networking invece accende questa magia. Dagli anni 80 si può uscire vivi, allora. Anche con un prosecco in mano.

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giovedì 8 novembre 2018

Un'azienda senza sede? E' possibile?

In Italia il telelavoro non decolla ma ci sono realtà dove funziona e sembra farlo benissimo. D'accordo, si tratta di settori particolari ma cosa ne pensate?

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mercoledì 7 novembre 2018

Il multitasking fa male

(Fonte: "Donna moderna")


Parliamo al telefono e intanto rispondiamo a un'email. Controlliamo i social mentre siamo al volante. In fondo siamo nati per fare più cose insieme, giusto? "A dire la verità le ricerche dicono il contrario" avverte Adam Gazzaley, neuroscienziato della University of California di San Francisco. "A livello mentale il multitasking non esiste, perché il cervello non è in grado di gestire in parallelo  due compiti diversi, soprattutto quando questi comportano una certa attenzione. Spingerlo in questa direzione ha un costo: la concentrazione si interrompe e la mente diventa ancora più sensibile alle distrazioni". 

E' tutta colpa del nostro stile di vita?

"Di certo peggiora la situazione, ma alla base c'è dell'altro. Siamo distratti per natura. Con ogni sistema di elaborazione dati (persino il pc), anche il cervello tende a deconcentrarsi. Lo fa di più oggi che ha raggiunto il picco più alto di evoluzione".

Come si spiega?

Basta guardare al passato. I comportamenti degli uomini primitivi erano risposte istintive: a una percezione esterna (per esempio l'odore di una bestia feroce) seguiva un'azione (la fuga). Nella società moderna, invece, ci prefiggiamo obiettivi sempre più complessi: intrecciati tra loro, ritardati nel tempo e condivisi con altre persone.

Con quali conseguenze?

"Per raggiungerli, non possiamo agire d'istinto. Dobbiamo prendere decisioni e pianificare una strategia d'azione che richiede il "controllo cognitivo": un pacchetto di abilità che servono a concentrare le risorse mentali. Tra queste ci sono l'attenzione, la memoria a breve termine e la gestione dell'obiettivo".

E' questo il processo che si inceppa?

"Proprio così. A differenza della nostra capacità di porci obiettivi sempre più sofisticati, il controllo cognitivo non si è evoluto: è rimasto un sistema antico e pieno di limiti".

Quali sono esattamente questi limiti?

"Restiamo sensibili agli stimoli esterni per una questione di sopravvivenza e in realtà non potrebbe che essere così: che cosa succederebbe, infatti, se non prestassimo attenzione all'odore di bruciato quando ci scordiamo di spegnere i fornelli? In più siamo vittime di distrazioni interne come i pensieri erranti. Ma anche la capacità di immagazzinare informazioni a breve termine ha delle falle. Basti pensare a quanto è difficile ricordare la strada quando guidiamo nel traffico, bombardati da musica e messaggini.

Quindi la tecnologia contribuisce a distrarci?

"E' la principale fonte di interferenze! Ma siamo affamati di informazioni: qualsiasi novità, che sia un aggiornamento delle notizie o il post di un amico sui social, stimola nel cervello il rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore che regala gratificazione. Da qui nasce l'ansia di tenere sotto controllo il nostro mondo virtuale. E non è finita".

Dica

"Tablet e smartphone ci spingono al multitasking. E anche se siamo convinti di gestire due azioni in contemporanea, per la mente non è così. Ogni compito poggia su una rete di neuroni diversa e questo spinge il cervello a passare di continuo da un circuito all'altro".

Si può imparare a limitare le distrazioni?

"Certo, perché il cervello è plastico: se lo alleniamo migliora come un muscolo. Per rafforzare il controllo cognitivo, sono utili meditazione, contatto con la natura, esercizio fisico e il cambio delle nostre abitudini".

Da dove cominciamo?

"Il problema numero uno è la costante disponibilità di informazioni, che va limitata. Dalla scrivania va fatto sparire tutto ciò che non serve. Sul computer deve esserci solo una schermata alla volta.

Non rischiamo di stufarci?

"Sì, è la noia è amica delle distrazioni. Per contrastarla è giusto dedicarci in modo esclusivo a un compito. Ma anche sapersi concedere delle pause in cui rigenerare l'attenzione, scarabocchiando o guardando nel vuoto".

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martedì 6 novembre 2018

L’intelligenza artificiale ‘spia’ le email aziendali


Altro che pausa caffè: ora l’intelligenza artificiale ‘spia’ le email aziendali per sondare l’umore dei dipendenti. Ce ne parla "Business Insider Italia".


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lunedì 5 novembre 2018

Parliamo di smart working

Qualche informazione del "Corriere Innovazione" sullo smart working.

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venerdì 2 novembre 2018

Meglio un imprenditore pessimista?

Quante volte sentiamo elogiare l'ottimismo come l'unica strada da percorrere per affrontare la vita nel modo migliore? Bene, sembra che per gli imprenditori le cose stiano in maniera leggermente diversa. Ce ne parla "Business Insider Italia".

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mercoledì 31 ottobre 2018

Strumenti come PowerPoint instupidiscono?

Sebbene l'articolo che ho letto parli dell'utilizzo di strumenti quali PowerPoint nell'ambito dell'insegnamento, credo che il ragionamento che c'è dietro all'esposizione possa valere in ogni ambito, anche in quello lavorativo.
Voi cosa ne pensate? Ritenete che corsi aziendali, presentazioni, riunioni basate su questi strumenti possano essere noiosi, poco efficaci e addirittura "instupidire" chi ascolta?

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martedì 30 ottobre 2018

Perché i buoni leader spesso sono anche buoni insegnanti

Da cosa si riconosce un buon leader? Spesso dal fatto che sia anche bravo a insegnare le cose. Ce ne parla questo articolo postato su LinkedIn (traduzione automatica che a volte è  davvero esilarante, portate pazienza!).

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lunedì 29 ottobre 2018

La prima cosa da fare quando si inizia un lavoro nuovo

Cosa bisogna fare come prima cosa quando si inizia un lavoro nuovo? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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venerdì 26 ottobre 2018

Ottimizzare una ricerca su Google

Sei sicuro di conoscere il modo migliore per trovare un'informazione specifica su Google? Se così non fosse, "Business Insider Italia" ce lo spiega in questo articolo.

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giovedì 25 ottobre 2018

Stipendi, il divario uomo-donna cresce ai piani alti

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Se sei donna, più sali più ti arrabbi con i colleghi uomini.
Le alte gerarchie aziendali, infatti, almeno dal punto di vista del gap salariale uomo donna, non sono per niente virtuose. Lo si deduce dall’indagine «Executive compensation outlook 2018» realizzata
dalla società di recruiting Badenoch & Clark, in collaborazione con JobPricing specializzata in analisi retributive.
Se infatti si considera l’intero mercato dei dirigenti, lo scarto nelle buste paga esiste ma non è drammatico: 94.315 euro lordi annui di retribuzione fissa per le donne, 103.405 per gli uomini, il 9,6% in più.


Più marcato e molto significativo diventa il gap se si passa alle società quotate in Borsa ma si resta nella fascia bassa dei dirigenti, i non executive, quelli cioè che non fanno parte delle direzioni aziendali. In quest’area le retribuzioni medie oscillano tra i 47.352 euro delle donne e i 65.576
dei corrispettivi uomini (+38,5%).
La disuguaglianza diventa infine formidabile se si resta nelle società quotate ma si considerano solo i profili executive: 276.156 euro se sei donna, 470.675 per il pari grado maschio, cioè ben il 70,4%
in più.


Un divario eccessivo? C’è di peggio. Perché se si va a segmentare il mercato delle quotate per livelli di fatturato, in certe situazioni le retribuzioni maschili diventano più del doppio di quelle femminili. E’ il caso per esempio dei presidenti dei consigli di amministrazione di aziende con alto giro d’affari (oltre gli 800 milioni di euro): le donne in questo caso subiscono un gap retributivo addirittura del
133,2%. C’è però una significativa attenuazione di queste differenze abissali se si vanno ad esaminare i ruoli apicali più operativi. Infatti una donna amministratore delegato di un’azienda quotata, posizione che riesce a raggiungere solo 5,6 volte su 100, fa ridimensionare il gap fino al
15,7%.


«È una fotografia impietosa (...) che mette bene in evidenza il ritardo notevole del nostro paese rispetto ad altri in ambito di carriera e retribuzioni delle donne. Eppure non mancano studi che dimostrano una correlazione positiva fra un elevato tasso di gender diversity dirigenziale e il successo di un’azienda». In definitiva, pur se negli ultimi dieci anni sia cresciuto di quasi sei volte
il numero delle donne presenti nei board aziendali, passando dal 5.9 % al 33,6% del 2017 (ma solo all’11,3% nelle quotate) ciò non ha intaccato le disuguaglianze retributive.


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mercoledì 24 ottobre 2018

Colloquio di lavoro? Ecco cosa fare subito prima

Hai un colloquio di lavoro in vista? Prima di tutto, "in bocca al lupo" e poi...sai come comportarti nei minuti che precedono l'incontro? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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martedì 23 ottobre 2018

Ecco il decalogo da mettere in pratica per un colloquio vincente

("Fonte: "Corriere Innovazione")

Dal linguaggio del corpo al dress code, le regole per affrontare con calma e preparazione uno dei momenti più stressanti della carriera. 

Fai delle ricerche

Informarsi è importante per capire chi cerca il datore di lavoro, cosa richiede la mansione e il background della persona che fa il colloquio. Più ricerche si conducono più possibilità si ha di rispondere in maniera appropriata alle domande poste durante l’incontro. Via allora anche alle ricerche su Google e social network.

Prepara delle risposte

Un’altra chiave per un buon colloquio è preparare delle risposte a domande previste. In primo luogo, occorre chiedere al capo del personale che tipo di colloquio aspettarsi. L’obiettivo è provare a determinare cosa verrà chiesto e preparare risposte dettagliate ma concise.

Vestiti in modo appropriato

Pianifica un guardaroba adatto all’organizzazione e alla sua cultura. Mantieni accessori o gioielli al minimo. Cerca di non mangiare o fumare prima del colloquio.

Sii puntuale

Non ci sono scuse per arrivare tardi a un colloquio. Cerca di arrivare quindici minuti prima. Porta con te copie del tuo curriculum vitae e il portfolio con i tuoi lavori. Porta anche carta e penna e spegni il cellulare.

Non dimenticarti le buone maniere

Una delle regole principali è essere educati e rivolgersi in maniera cordiale alle persone che si incontrano appena si entra nell'edificio. Quando si incontra la persona con cui si affronterà il colloquio è opportuno sorridere, creare un contatto visivo e dare la mano con la giusta energia (né floscia né da stritolare le ossa).

Sii conciso e non sparlare

Da evitare le risposte lunghe che possono annoiare l’interlocutore. Tenta di mantenere le risposte brevi e di essere pertinente. Mai parlare male di un posto dove si è lavorato in precedenza né di un ex collega. Il colloquio riguarda solo te.

Il corpo parla

Il linguaggio del corpo può distrarre chi parla con te o, peggio, bloccare la tua assunzione. Sono efficaci e positivi: il sorriso, il contatto degli occhi una postura solida, l’ascolto attivo e i cenni del capo. Sono negativi: la postura dinoccolata, lo sguardo perso nel vuoto, giocare con la penna. Ruotare con la sedia, tirare indietro i capelli, masticare la gomma o borbottare.

Fai delle domande

Gli studi mostrano che i datori di lavoro giudicano l’interesse nei confronti del lavoro anche in basa al fatto che il candidato ponga delle domande. Dunque è opportuno preparare delle domande in anticipo, aggiungendone altre che possono sorgere durante il colloquio.

Sii un buon venditore

Non è sempre la persona più qualificata a ottenere il lavoro. Ma quella che ha saputo rispondere meglio alle domande e mostrare che è la più adatta al lavoro. Alcuni paragonano il colloquio a una vendita: si sta vendendo al datore di lavoro la propria abilità di assolvere ai bisogni dell’azienda, risolvere i suoi problemi e contribuire al suo successo.

Ringrazia

Ringrazia chi ti ha sottoposto al colloquio. Comincia durante l'incontro, prima di congedarti. Subito dopo puoi inviare una mail di ringraziamento.

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lunedì 22 ottobre 2018

C'è un posto nel mondo dove lavorare fino a tardi non conviene

Sapete che c'è un Paese europeo dove lavorare fino a tardi fa una brutta impressione? Cosa ne pensate?

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venerdì 19 ottobre 2018

Le regole del capo perfetto

Leader o tiranno? Quali sono le regole per essere un capo perfetto? Ce le racconta "la Repubblica".

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giovedì 18 ottobre 2018

6 cose da tenere sempre a portata di scrivania

Quali sono le sei cose che ognuno di noi dovrebbe avere sulla scrivania? Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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mercoledì 17 ottobre 2018

Schiacciare un pisolino aiuta a prendere decisioni

Uno studio dell’Università di Bristol mostra che 90 minuti di sonno possono contribuire all’elaborazione di informazioni presenti nel subconscio, portando a scelte più lucide. Ce lo racconta "la Repubblica".

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martedì 16 ottobre 2018

Ordine? Team building? Forse no...

Vi hanno insegnato che una scrivania ordinata e una squadra che segue i dettami del team building sono indice di efficacia e di efficienza? Alcune nuove teorie lo smentiscono...

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lunedì 15 ottobre 2018

4 strategie digitali per ottenere un colloquio

Siete alla disperata ricerca di un colloquio? Forse uno di questi suggerimenti può fare per voi...

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venerdì 12 ottobre 2018

17 modi per rovinarsi la salute in ufficio

Pur essendo più sicuro di altri, il lavoro alla scrivania nasconde comunque numerose insidie da non sottovalutare. Ce ne parla "Il Corriere della Sera".

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giovedì 11 ottobre 2018

Bandire computer, msartphone, ecc. dalle riunioni?

Su LinkedIn ho trovato uno spunto di discussione che reputo interessante e che mi piacerebbe sviluppare con voi.

Come giudicate il fatto che qualche collega utilizzi il computer o lo smartphone durante le riunioni di lavoro?
A causa delle ultime ricerche sul tema (qui ne trovate una) sono parecchie le aziende che stanno già proponendo riunioni senza dispositivi per promuovere la collaborazione e l'efficienza degli incontri (ne parla la CNN).

Cosa ne pensate? Da voi come funziona?

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mercoledì 10 ottobre 2018

Welfare in azienda

(Fonte: "Corriere Economia")

Il welfare aziendale funziona, non tocca, va esteso e gli incentivi offerti saranno confermati anche nella nuova Finanziaria. A dirlo è il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, intervenuto nel convegno che si è tenuto la scorsa settimana "Welfare che fare. Il bilancio della riforma" (...)
"La sua crescita deve proseguire ed è anche il momento di potenziarlo ulteriormente - ha detto Durigon - . Per farlo occorre per prima cosa superare la distanza che separa i lavoratori dalle aziende che, conoscendone i benefici, implementano progetti ampi ed estesi, da quelli che lavorano in realtà che al contrario lo considerano un costo e un impegno che non vale la pena affrontare. 
Per estendere la platea dei beneficiari, un contributo importante deve venire dagli enti bilaterali e dalla contrattazione più in generale. Ampliare il numero delle persone che potrebbero godere dei servizi e beni del welfare aziendale svilupperebbe un nuovo sistema del lavoro che offre vantaggi ai dipendenti, crea ricchezza sul territorio e contribuisce all'emersione del nero dato che ogni transazione dovrebbe essere fatturata".

E' vero che soprattutto le piccole e micro aziende sono ancora, come prevedibile, un po' ai margini del processo, ma dal rapporto Welfare Index Pmi (...) arrivano buone nuove. Il numero di imprese attive è passato dal 25,5 % del 2016 al 41,2 % del 2018 e nelle realtà minori dimensioni cresce la propensione a stringere alleanze per realizzare  sistemi di welfare aziendale condiviso sul territorio: reti di imprese, partecipazione a consorzi, adesioni a servizi comuni.

(...)

Ma quali sono le tre aree di welfare sulle quali le aziende indirizzano gli sforzi per soddisfare le esigenze dei dipendenti? Al primo posto troviamo la salute e l'assistenza. Secondo i dati 2018, il 42% delle imprese attua almeno una iniziativa in questo macro area garantendo l'accesso alle cure e ai servizi di prevenzione e sostenendo le famiglie nel caso di assistenza degli anziani e di persone non autosufficienti. Un terzo considera prioritario farlo nei prossimi anni.
Cresce e raddoppia l'attenzione ai temi della conciliazione, coerentemente con il cambiamento di stile di vita. Il 59,4% delle Pmi proprone iniziative di questo tipo, fra queste lo smart working ma non solo. Vi sono anche fra gli altri: il sostegno ai genitori, i permessi aggiuntivi a quelli contrattuali, le integrazioni del congedo di maternità, le convenzioni con asili e scuole. 
Terzo, fra i benefit più diffusi, il sostegno all'istruzione e l'orientamento dei giovani con iniziative specifiche per favorire la mobilità sociale e la formazione dei dipendenti.

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martedì 9 ottobre 2018

Gap uomo-donna nella retribuzione


Per guadagnare quanto gli uomini le donne devono lavorare due mesi in più all’anno. Ce lo racconta "Il Corriere della Sera".


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lunedì 8 ottobre 2018

Le aziende con i migliori stage

Fare gli stagisti, in qualche caso, può essere molto frustrante ma ci sono aziende dove uno stage può essere una buona opportunità lavorativa e anche offrire una contropartita economica di un certo rispetto. Ce ne parla "Business Insider Italia". 

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venerdì 5 ottobre 2018

Discriminazione sul lavoro anche per gli uomini?

Anche gli uomini vengono professionalmente discriminati per il fatto di essere maschi? Ce ne parla "Business Insider Italia".

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giovedì 4 ottobre 2018

Lavorare da casa aumenta la produttività

Lavorare da casa fa aumentare la produttività. Ce lo racconta "Business Insider Italia".

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mercoledì 3 ottobre 2018

Le lauree che permettono di guadagnare di più al primo impiego

Quali sono le lauree che permettono di guadagnare di più al primo impiego? Ce lo racconta "Il Corriere della Sera".

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martedì 2 ottobre 2018

La pettinatura influenza la vostra carriera

Una pettinatura può influenzare la carriera lavorativa? Secondo la ricerca riportata da "Business Insider Italia" sembra proprio di sì.

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lunedì 1 ottobre 2018

Le 10 capacità che saranno più richieste in futuro nelle aziende

"Business Insider Italia" ci racconta quali saranno, in un prossimo futuro, le abilità più richieste dalle grandi aziende. Voi ne avete qualcuna?

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venerdì 28 settembre 2018

I robot non cancelleranno il lavoro ma dovremo imparare tutto da capo

(Fonte: "La Stampa") 

La quarta rivoluzione industriale è alle porte e desta preoccupazioni. I timori riguardano il lavoro, che sarà oggetto di una trasformazione così profonda da ridisegnare la società. Secondo il World Economic Forum, entro il 2025 la metà dei mestieri attuali sarà svolto da robot e si perderanno 75 milioni di posizioni. Allo stesso tempo se ne creeranno altre, 133 milioni, e tuttavia gli «espulsi» non necessariamente saranno gli stessi impiegati nelle nuove mansioni.
«Sarà una rivoluzione a due facce: da un lato avremo una fase transitoria in cui molti posti potranno essere messi in discussione, dall’altro i robot favoriranno la creazione di nuove mansioni», sottolinea Maria Chiara Carrozza, professore di bioingegneria industriale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ed ex ministro dell’Istruzione. La scienziata sarà tra i protagonisti di Trieste Next con un evento, il 28 settembre, sulla «Robolution», la rivoluzione guidata dai robot.
In che modo trasformeranno il lavoro? «I robot sono già entrati nel settore manifatturiero nel corso della terza rivoluzione industriale. Con la quarta rivoluzione si assiste a un ulteriore salto di qualità e i robot cominceranno a lavorare sempre più a stretto contatto con gli operai. La “robotica collaborativa” costituisce un importante paradigma».

Come sarà questo rapporto così «intimo»?«Fianco a fianco o persino uniti. Tra gli sviluppi ci sono esoscheletri indossabili, che hanno il compito di alleggerire il lavoro degli operai in fabbrica e offrire sostegno nel caso di posizioni usuranti.
Ma i robot entreranno anche nella sfera sociale e nella nostra vita di tutti i giorni: assisteranno gli anziani, ci aiuteranno nelle faccende domestiche, gestiranno la clientela e saranno usati nelle scuole». 
Come ci si prepara a una trasformazione simile? «Investendo in istruzione e formazione e sviluppando un sistema di welfare che tenga conto degli eventuali contraccolpi di queste innovazioni. Un fenomeno così complesso ha bisogno di politiche mirate e senza adeguati programmi di istruzione e welfare rischiamo di non avere le competenze e gli strumenti adatti ad affrontare il cambiamento». Che cosa manca oggi sul piano dell’istruzione?«Dovremmo riformare i programmi di studio a partire dalle scuole primarie. Quando ero ministro ho scritto scritto e firmato una proposta di legge che riguarda l’insegnamento dell’informatica alle scuole elementari, perché ritengo importante fornire fin da bambini gli strumenti per comprendere e sfruttare questa rivoluzione tecnologica. Inoltre servono programmi di formazione permanente per i lavoratori, che avranno sempre più bisogno di tenere il passo dell’innovazione».

La sicurezza sul lavoro migliorerà grazie ai robot? «Nella robotica collaborativa i robot sono così sicuri e flessibili da poter condividere la stessa postazione di lavoro con gli operai. Inoltre potranno sostituirci nel caso di lavori pericolosi. Tuttavia è necessario che siano ben protetti dagli attacchi hacker che potrebbero minare la nostra sicurezza. La cybersecurity è una sfida importante».
Che cosa la spaventa di questa trasformazione? «Sul fronte sociale mi spaventa l’assenza di politiche e l’ignoranza nell’affrontare un cambiamento così radicale. Sul fronte tecnologico temo la possibilità che le nuove tecnologie possano essere utilizzate a fin di male, per esempio per mettere a punto armi sempre più intelligenti o per seminare terrore».

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giovedì 27 settembre 2018

Il multitasking fa crollare l’efficienza

È stato calcolato che ci vogliono 20 minuti per «riprendersi» se ci distraggono durante un lavoro. Ce lo racconta "Il Corriere della Sera".

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mercoledì 26 settembre 2018

Capi migliori se si controlla meno l'e-mail

Quante volte al giorno controllate l'e-mail? Se volete diventare capi migliori probabilmente dovreste farlo meno. Ce ne parla "la Repubblica".

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martedì 25 settembre 2018

Social: cosa non fare se si cerca lavoro

"Il Corriere della Sera Innovazione" ci racconta i peccati capitali da non commettere mai sui social network se si sta cercando lavoro. Cosa ne pensate?

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lunedì 24 settembre 2018

Il vostro lavoro non ha senso?

(Fonte: "Sette")

Oggi è difficile valutare il lavoro. Molti sono i fattori che lo rendono nebuloso. Il mercato globale, tra nuove opportunità e concorrenza sleale, gli scenari di automazione robotica, gli effetti dell’economia digitale, la confusione di politici che compensano con l’ideologia la mancanza di strategie. Sono molto evidenti, e indignano, le difficoltà di lavoratori alla base della piramide, con occupazioni umili, usuranti e sottopagate: quelle di ieri e quelle di oggi, come gli operai e i nuovi fattorini (i runner). Meno evidenti, ma pesanti per giovani che magari hanno studiato, sono le frustrazioni di chi cerca un impiego creativo e non lo trova, restando vittima delle sue aspettative. Inaspettati, forse meno gravi, ma comunque preoccupanti, sono i sentimenti di inutilità provati da manager, colletti bianchi, notai, avvocati e altri professionisti di fascia alta, da cui dipende spesso il lavoro altrui, che vanno in crisi di fronte al seguente quesito: il tuo lavoro ha senso? La domanda fu posta nel 2013 da David Graeber, antropologo alla London School of Economics, ai lettori di Strike, una rivista di sinistra radicale, con un articolo che fece molto clamore. Oggi esce per Garzanti il libro che è figlio degli approfondimenti di quell’articolo: Bullshit jobs. Da intendersi come “lavori del cavolo” e non “lavori di merda”, come suggerirebbe una traduzione fin troppo letteraria. Perché non si tratta di lavori umili ma oggettivamente utili: a chi li svolge (economicamente) o a chi ne usufruisce (socialmente); si intendono quei lavori che sono percepiti come senza senso da chi li svolge, dunque soggettivamente inutili. In reazione all’articolo sono arrivati commenti e mail, storie di chi confessava di percepire come inutile il proprio lavoro. L’istituto inglese di statistiche YouGov ha poi condotto un sondaggio da cui è emerso che per il 37% degli inglesi il proprio lavoro «non dà un contributo significativo alla società». Strano che nell’epoca dei social network al potere, ci si senta così poco socialmente utili. Sarà che gli utili li fanno loro, i colossi del web, con il tempo e il lavoro offerto gratis dagli utenti? 
 
David Graeber si concentra su alcune categorie: i consulenti per le risorse umane, i responsabili del marketing, gli operatori delle relazioni pubbliche, gli strateghi finanziari e i legali d’azienda. Figure spesso apicali, figlie del boom novecentesco del settore terziario rispetto ai settori produttivi (primo e secondo) dove il lavoro dell’uomo è stato in gran parte sostituito dall’automazione. Da antropologo, Graeber li classifica per attitudini psicologiche e ruoli neo-feudali perché ruotano attorno a un capo assoluto, il Re: ci sono i “supervisori”, controllori il cui lavoro può ridursi a guardare gli altri lavorare; i “tirapiedi”, che servono a far sentire importante il capo con servigi spesso inutili; poi i “ricucitori” che servono a risolvere i problemi che, però, spesso non dovrebbero esistere e sono prodotti da capi distratti o disattenti (i ricucitori patiscono la “nevrosi della casalinga”, per dirla con Freud); ci sono gli “sgherri”, ovvero i bravi del Don Rodrigo di turno; infine i “barracaselle”, che servono a fare numero e giustificare reparti non produttivi – se il loro lavoro è più intellettuale, sono “passacarte”. Sentirsi un passacarte è una percezione sempre più diffusa, anche in professioni qualificate di livello medio, medio-alto, ci racconta Graeber via mail (per essere un antropologo anarchico, contro l’idolatria del lavoro, è piuttosto stakanovista, legge le mail anche dalla vasca da bagno): «I medici lamentano che si devono occupare più di scartoffie che di pazienti, e che sono vessati dai manager degli ospedali. Frustrazione aumentata dal fatto che alcuni hanno scelto quella professione dopo averla vista mitizzata nei telefilm come ER. Gli insegnanti si lamentano di avere una montagna di burocrazia da sbrigare. Per entrambe le categorie gioca un ruolo negativo l’innovazione tecnologica: devono tradurre per i computer gli effetti qualitativi del loro lavoro, la cura di studenti e pazienti. La tecnologia migliora la produzione di cose, di beni materiali; applicarla alle persone è complesso». 

Fare da assistenti umani ai sistemi informatici della scuola non è il lavoro che avevano scelto i docenti ispirati dal prof. Keating dell’Attimo fuggente, per completare il quadro delle narrazioni professionali ispirazionali. Così medici, insegnanti e altri lavoratori si sentono passacarte digitali, mediatori tra le macchine e gli umani. Schiavi di quell’innovazione che in alcuni ambiti ha liberato l’uomo da lavori pesanti (in fabbrica, nei campi, a casa) e che, secondo la previsione di Keynes del 1930 avrebbe portato a una settimana lavorativa di 15 ore! Sul perché il monte ore lavorative non si sia ridotto drasticamente ci sono varie teorie, che mettono sotto accusa il consumismo e la finanziarizzazione dell’economia. Di certo, in contesti come la scuola e l’ospedale, ma anche in aziende private, sta crescendo un doppio odio di classe, per un verso paradossale, forse assurdo. Da un lato gli oppressi da lavori alienanti che odiano i loro oppressori, e ok, è più fisiologico; ma dall’altro c’è anche l’odio di chi sta sopra ed è depresso perché percepisce il suo lavoro come inutile, senza senso, mentre chi gli sta sotto fa un lavoro utile, che ha senso e per questo lo invidia. «È lo scontro tra due frustrazioni, una materiale, l’altra spirituale», dice Graeber, che poi conclude: «Siamo una società fondata sul rancore diffuso, soprattutto nei luoghi di lavoro».

Il lavoro del cavolo, il lavoro inutile, dunque non va confuso con un lavoro umile o la parte umile di un lavoro. Il venditore telefonico fa un lavoro umile e coperto d’infamia – quante gliene diciamo all’ennesima telefonata per venderci titoli azionari? – ma lo fa perché ha bisogno di soldi, necessità che produce il senso di quel lavoro; ma il manager che fustiga i lavoratori di quel call center? Se ha studiato per fare altro, se ha un minimo di coscienza, se ha progetti di vita anche extra-lavorativa, se si chiede per un attimo che senso ha il suo lavoro, può andare in crisi. Come succede alla capa-telefonista Sabrina Ferilli in Tutta la vita davanti, film del 2008 diretto da Paolo Virzì, ispirato al libro di Michela Murgia Il mondo deve sapere. L’alienazione da lavoro del cavolo è centrale anche nel film Fight Club, del 1999: il protagonista (interpretato da Edward Norton) è un consulente nel ramo assicurativo di una grande casa automobilistica e sfoga la sua frustrazione creando un club dove colletti bianchi stressati si picchiano a sangue. In seguito al film sono sorti reali fight club negli Usa e in Russia. Per chi non ama la violenza, ci sono altre strade. Spesso, manager e consulenti riescono a trovare una via d’uscita e cambiano vita. Aprono un blog, scrivono un libro. Ma non tutti possono permettersi questo cambio di rotta. 

Dalla lotta di classe ispirata da Marx, dell’operaio contro il capitalista, si regredisce alla dialettica feudale servo-padrone di Hegel. Un’involuzione materialista che Graeber paragona alla dinamica tra slave e master, usando termini di BDSM, gruppo di discipline e pratiche di dominazione/sottomissione sessuale: «In ogni relazione di potere c’è una relazione sadica, ma nelle aziende del terziario avanzato, dove tutto si basa sui rapporti umani, su chi sta sopra e chi sta sotto, si riproduce una dinamica simile al BDSM. Con una grossa differenza, però: nel BDSM reale c’è una parola d’emergenza, di uscita sicurezza, per esempio “arancia”, che chi è vessato può usare per far smettere immediatamente il gioco. Ma tu, al tuo capo, non puoi dire “arancia“ e sperare che lui diventi buono! Puoi solo dire “mi dimetto”, ma così sei fuori del tutto». Donald Trump, per Graeber è il campione di questo sadico feudalesimo manageriale. Alla Casa Bianca educa e gestisce i suoi collaboratori come se fosse ancora nella trasmissione tv che l’ha reso celebre, The Apprentice, programma televisivo in cui viene messo in palio, per aspiranti uomini e donne d’affari, un contratto che va a chi resta in gara. Gli altri vengono eliminati al grido di «You Are Fired», «Tu sei licenziato» («Sei fuori», nella versione con Flavio Briatore): «Lo scopo di questi format è garantirti un posto di lavoro vicinissimo al boss, è il corrispettivo di chi poteva lucidare la corona di Maria Antonietta o sedersi a lato del Re Sole», commenta Graeber. Spiega il successo di Trump con il voto di protesta: «Lui ha vinto con il voto piccolo borghese, sì, ma anche di molti operai che non amano le élite liberali di area democrat. I suoi elettori han detto “Trump è vanitoso, avido, volgare, stupido, corrotto...” Sì! È quello che pensiamo di voi politici! È come se avessero scelto un personaggio di finzione, un Presidente da cartoni animati per denunciare la politica da cartoni animati».

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giovedì 20 settembre 2018

Socrate per trovare nuovi leader

(Fonte: "La Stampa")

Coach. Una figura che è entrata nel nostro immaginario come allenatore (sportivo), ma negli ultimi anni c’è stato un proliferare di coach di ogni genere, da quelli che dicono che ti insegnano a vivere a quelli che allenano la mente.  
I coach sono arrivati anche nelle aziende, ma non si pensi a guru carismatici, men che meno a dei motivatori: il coaching è un metodo per testare e preparare i leader di domani, ma senza imporre regole, ricette né mantra da ripetere al risveglio o addominali prima di andare a letto. Il coach non dà risposte, anzi fa essenzialmente il contrario: pone domande. Per capire se il potenziale leader sa davvero quello che vuole e ha gli strumenti per ottenerlo e mantenerlo. Alla fine, è il caro vecchio metodo di Socrate: nessun insegnamento scolpito nella pietra o verità in tasca pronte all’occorrenza, ma solo punti interrogativi, il dubbio costruttivo come motore della conoscenza, anche di noi stessi. La nuova frontiera delle risorse umane in un’azienda ha radici nell’antica Grecia.  

Il significato
Coach letteralmente significa carrozza. E quello che fa un coach è portare una persona da un punto a un altro. In ambito aziendale, significa innescare la motivazione utile per chi è stato scelto per una posizione da leader, e aiutarlo a prendere consapevolezza delle competenze che gli mancano.


(...)
 
Il coach parte dal presupposto che il cliente non ha problemi: ha obiettivi. Che abbia le competenze professionali è evidente, altrimenti l’azienda non punterebbe su di lui. I coach seguono tante persone che per anni svolgono lavori tecnici: ma avranno anche le doti carismatiche e diplomatiche che servono per gestire altre persone?.  
 
Una relazione paritaria
 
Non uno psicologo, sia chiaro. Il coach fa cose che uno psicologo non può e non deve fare: può conoscere bene il suo «coachee» (il cliente si chiama così), dargli del tu, uscirci insieme. È una relazione paritaria, bisogna creare una relazione di fiducia.  

Quali punti di forza pensi di avere per fare il capo? Cosa credi che ti manchi? Questi sono grosso modo gli interrogativi, che ne generano altri a loro volta, in un percorso in cui il bravo coach sa trovare le domande più utili caso per caso. Le chiamano «powerful questions»: quelle domande a cui, anche nella vita, generalmente la prima risposta che sì dà è «Bella domanda». Quelle che smuovono qualcosa dentro, che toccano il cuore delle difficoltà, innescano il pensiero critico. Così potenti che a volte il coach si ritrova un cliente che va da tutt’altra parte, rischio di cui le imprese vengono informate al momento di prendere l’incarico: C’è chi si rende conto che il ruolo da leader non è quello che vuole.  
È capitato che alcuni chiedessero di passare ad altri incarichi, addirittura che lasciassero il lavoro e cambiassero vita. Effetto collaterale della consapevolezza, alla fine ben visto anche dalle aziende, perché meglio scoprirlo prima se il prescelto non è dove vorrebbe essere e non fa davvero quello che ama. Ma in definitiva, il coaching funziona? Se il percorso parte e il coachee è motivato, non fallisce quasi mai. Fallisce spesso con quelli che chiamiamo “uncoachable”: che pensano di non avere nulla da imparare, perché loro sanno già tutto. 

Le aziende
 
Che funzioni lo dimostra anche la crescente domanda delle aziende, tanto che i coach - quelli accreditati - non sono abbastanza.


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mercoledì 19 settembre 2018

Insulti in chat: la persona non è licenziabile

Lasciamo perdere tutti i discorsi etici e morali e concentriamoci solamente sul contenuto della notizia: "La Stampa" ci spiega perché chi insulta un superiore in una chat provata non possa essere licenziato.

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martedì 18 settembre 2018

I colori da indossare in ufficio per ottenere fiducia e attenzione

"Il Corriere della Sera" ci dice quali colori indossare in ufficio per ottenere fiducia e attenzione da parte delle persone con le quali ci troviamo a interagire.

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lunedì 17 settembre 2018

Gli errori che danno più fastidio in un CV

"Business Insider Italia" ci racconta quali errori diano più fastidio in un curriculum.

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venerdì 14 settembre 2018

È l’era dei manager eterni crescono quelli over 70

(Fonte: "La Stampa")

A marzo s’è insediato il Parlamento più giovane della storia d’Italia, ma nelle aziende italiane avviene il contrario, con un ricambio generazionale di segno opposto. Se infatti a Montecitorio l’età media è scesa a 44,33 anni, al di sotto dei 45 anni per la prima volta nella storia repubblicana, nelle aziende invece i manager di oltre 50 anni sono il 61 per cento del totale, contro il 53,3 per cento di cinque anni fa, mentre gli under 50 sono diminuiti del 7,7 per cento. 
 
Il dato emerge da un’indagine di Unioncamere, secondo la quale i settori nei quali si è registrato l’aumento più consistente degli amministratori di età compresa tra i 50 e i 69 anni sono quelli dell’alloggio e della ristorazione e dei servizi alle imprese (quasi il 30% in cinque anni). «La società italiana non è tra le più dinamiche — ammette Carlo Carboni, professore di Sociologia economica all’Università di Ancona, da sempre attento studioso delle élite italiane —.
Il ringiovanimento della politica è dovuto a due grandi “scrolloni”: il primo è la rottamazione di Renzi, il secondo la spallata del Movimento Cinque Stelle. Ma per il resto l’invecchiamento è quasi strutturale, intanto dal punto di vista demografico: persino la pubblicità si è adeguata, ormai appaiono prevalentemente persone non giovani. L’invecchiamento è anche nell’occupazione, e sta arrivando alla classe dirigente, fermando il ricambio generazionale».
 
Negli ultimi cinque anni, stima Unioncamere, si è registrato un incremento superiore al 40 per cento dei manager ultrasettantenni negli stessi settori. Mentre i manager under 30 aumentano solo nell’agricoltura e nei servizi di informazione e comunicazione.
E del resto non servono grandi sforzi di memoria per farsi venire in mente nomi di settantenni molto noti ai vertici delle imprese, da Roberto Colaninno (75 anni), presidente e ad di Piaggio, a Gabriele Galateri di Genola (71), presidente delle Generali, a Fabrizio Saccomanni (75 anni), presidente di Unicredit e Marco Tronchetti Provera (70 anni), amministratore delegato di Pirelli. Ma non è raro imbattersi in un ultraottantenne che amministra aziende o organizzazioni di alto profilo: tra i “decani” Giuseppe Guzzetti, che a 84 anni presiede l’Acri, l’associazione delle casse di risparmio e delle fondazioni bancarie, che sono i soci di minoranza, per nulla accondiscendenti, della Cassa depositi e prestiti controllata dal Tesoro. Il settore bancario è in effetti tra i settori più “anziani”: lo denunciava in uno studio di alcuni anni fa il sindacato di settore Uilca, rilevando come l’età media dei presidenti arrivasse a 70 anni per i presidenti e a 60 per gli amministratori delegati.
 
In un’indagine pubblicata un anno fa anche Federmanager sottolineava come la crisi sia stata pagata in Italia soprattutto dai manager più giovani, per via dell’aumento dell’età pensionabile ma soprattutto per «la migliore conoscenza delle dinamiche interne delle aziende» e «la migliore capacità di adattamento alle diverse situazioni» che finiscono per avvantaggiare i dirigenti più anziani, nonostante i loro stipendi siano più pesanti.
 
Ma non si tratta solo di questo: «Le élite si servono delle loro conoscenze — rileva Carlo Carboni —. Il manager di oggi non è più quello della rivoluzione industriale, quando pesavano le competenze specifiche. Oggi le competenze sono intercambiabili, si passa con facilità dalle banche agli aerei, i manager si portano dietro un capitale di relazioni con le altre élite che man mano che si procede diventano sempre più pesanti, e li rendono non sostituibili. Più che dell’invecchiamento, però, dobbiamo preoccuparci della mancanza di un ricambio generazionale, che crea delle strozzature, ben visibili nella nostra società, a cominciare da tutte le difficoltà di successione nelle aziende familiari, che spesso finiscono per essere vendute a società straniere, penso per esempio alla Indesit di Vittorio Merloni. Il ricambio deve essere un fatto fisiologico».

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giovedì 13 settembre 2018

Le 10 modifiche da fare al CV se non si è alle prime armi

"Business Insider Italia" ci illustra le 10 modifiche da apportare al curriculum quando non si è più alle prime armi nell ricerca di un lavoro.

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mercoledì 12 settembre 2018

Telelavoro triplicato in un anno

L’ estate sta finendo, le vacanze pure. E se il vostro capo vi proponesse di riprendere a lavorare, ma senza tornare in ufficio? I telelavoratori, meglio smart workers, sono ancora pochini. Ma tutti felici. Manuela Manes, 45 anni, nata in provincia di Pordenone e da una vita a Milano, da 7 è pioniera dello smart working per Siemens Italia e pittrice. Non sempre in quest’ordine. Il quartier generale della multinazionale tedesca è un palazzone di vetro nel quartiere Adriano, periferia nord est del capoluogo lombardo. Gli armadi sono quasi spariti, le scrivanie resistono ma sono condivise. Scordatevi la foto di famiglia accanto al pc. E scordatevi pure il pc.

Intranet e l’app per i rifiuti

Con l’accordo siglato con i sindacati a giugno dello scorso anno tutti i 2.400 collaboratori di Siemens sono diventati «smart». Si viaggia con il portatile, che si connette con una schedina all’intranet aziendale. Dal divano di casa oppure dal tavolino di un bar, poco cambia e a nessuno interessa. Se c’è bisogno di un posto riservato per incontrare i clienti o un team di lavoro si prenota una sala. Con un’app, proprio come il servizio per ritirare la raccolta differenziata, quello di bike sharing oppure la palestra. Il che vuol dire che non si lavora per orari, ma per obiettivi. I dipendenti coinvolti nel progetto pilota nel 2011 erano 260, tra questi c’è Manuela. Lei lavora per il marketing e racconta così la sua giornata: «Mi alzo presto, ma non esiste né l’ansia del traffico né quella del cartellino. Non perdo più tempo, perché ottimizzo i miei tempi. Nessuna gara a chi esce dall’ufficio per ultimo e fa bella figura con il capo». 

Dicono che con lo smartworking la produttività aumenta. «Non so se esistano dei parametri scientifici, ma quando si è felici si lavora meglio. Non tornerei mai indietro. È una condizione ideale, un beneficio sia per me che per l’azienda». 

La corsa delle grandi aziende
 
La legge 81 del maggio 2017 regola e definisce il lavoro agile, da intendersi come «modalità di esecuzione del rapporto del lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro». C’è bisogno di un accordo - collettivo oppure individuale - per regolare tempi di riposo e diritto alla disconnessione, oltre alle modalità di recesso, che deve sempre essere possibile. Il principio è quello della volontarietà. Insomma se il lavoratore non è d’accordo, non se ne fa nulla. Le più determinate a cogliere l’opportunità di eliminare il posto fisso, inteso non come contratto a tempo indeterminato ma come scrivania, sono le grandi aziende. 

A testimoniarlo è l’identikit del lavoratore agile: uomo, età media 40 anni, dipendente di una grande impresa del Nord Italia. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, dopo la legge 81 del 2012 dell’ex ministro del Lavoro Giuliano Poletti gli smart workers sono aumentati in un anno del 60%. Non si tratta solo di tagliare i tempi del trasporto e della macchinetta del caffè, ma ripensare il rapporto di lavoro subordinato. «Ci vogliono fiducia e senso di responsabilità - conclude Manuela, immagine social con i tacchi sulla scrivania, poco istituzionale ma che rende bene l’idea -. Bisogna saper mantenere i contatti con i colleghi anche senza vederli ogni giorno. Poi chi è assunto da poco tenderà a stare di più in azienda, ma sono sempre i risultati a fare la differenza. Ecco perché conta molto il cambio di mentalità dei manager». 

Oltre a Siemens, ci sono Nestlè, Intesa San Paolo, Axa, Enel, Ferrovie e la Ferrero, che dopo i primi sei mesi di progetto pilota ha deciso di triplicare. Da un’indagine interna su dipendenti e manager della multinazionale piemontese coinvolti nello smart working è emerso che lavorare un giorno a settimana “in agilità” migliora la capacità di organizzare il tempo e il rispetto delle scadenze. Di più, si registra una crescita della sensazione di fiducia percepita dal dipendente e un miglioramento della propensione ai risultati. Tutto nell’ottica di un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata. 

Solo una su dieci
 
«In Italia lo smart working coinvolge circa il 5% dei lavoratori, ma con una distribuzione diversa a seconda del tipo di impresa. Con un campione pesato per essere rappresentativo, siamo arrivati a stimare 305mila persone – spiega Fiorella Crespi, ricercatrice del Politecnico -. Le iniziative che hanno portato a un ripensamento complessivo dell’organizzazione interessano circa il 9% delle grandi aziende». Meno di una su dieci. Pochine, anche se stanno recuperando in fretta il tempo perso perché agevolate da una cultura manageriale meno legata al controllo visivo. Altro grande incentivo: la capacità di conciliare tempi di vita e di lavoro è anche un punto di forza e di attrazione per i giovani talenti. 

La musica cambia per le piccole e medie imprese, per cui «è ancora molto forte la percezione che sia una normativa che non si può applicare alla loro realtà», conclude Crespi. 
Ed è un peccato. Come spiega il rapporto pubblicato a luglio dello scorso anno da Eurofound, agenzia europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, trovare nuove forme di work-life balance è anche una strategia per combattere il gender gap nell’occupazione e aiutare i care giver, cioè «coloro che si prendono cura», dei figli o dei parenti più anziani e in difficoltà. Con il telelavoro vincono tutti. Non ci sono costi da sostenere per il pubblico, i privati possono tagliare diverse spese fisse e aumenta pure la produttività. 

Gli ultimi in Europa
 
Tutto il contrario di quel che accade a chi è obbligato a timbrare il cartellino. Secondo la ricerca pubblicata dall’European Labour Force, la differenza delle ore lavorate ogni settimana tra uomo e donna aumenta quando c’è un bimbo con meno di dodici anni. Per lei scende da 35 a 30, per lui invece aumenta anche se di poco: da 39 a più di 40. Attenzione però. Il maggior scarto tra quanto si vorrebbe lavorare e quanto si lavora è per gli uomini proprio in questa fase. Il telelavoro, il lavoro agile o in mobilità, nelle sue diverse forme può essere una buona soluzione per le esigenze di cura di tutti. Mamme, e anche papà. Secondo i ricercatori in Europa il 60% dei lavoratori deve rispettare orari rigidi, il 30% può contare su «una discreta flessibilità in alcuni momenti della giornata». 
La media europea di chi - in diverse forme - non è obbligato a lavorare da casa è del 17 %. Ai primi posti - con percentuali che superano il 30% - ci sono Danimarca, Svezia e Regno Unito. Ultimi in classifica con meno del 10%, preceduti da Grecia, Repubblica Ceca e Polonia, ci siamo noi. 

Il ritardo della Pa 
 
Il telelavoro è ancora poco - anzi molto poco - diffuso nella pubblica amministrazione. Secondo la legge Madia del 2015, l’obiettivo da raggiungere nei primi sei mesi del 2018 era del 10% dei dipendenti pubblici - circa 300mila persone - ma siamo poco sopra lo 0,3 per cento, il che significa 3mila lavoratori nelle amministrazioni tra il Nord e la Capitale. 
Secondo il rapporto realizzato da Marina Penna, ricercatrice dell’agenzia Enea, l’inizio del cronico ritardo sta nella violazione di un obbligo introdotto nel 2012 dal Decreto Crescita del governo Monti. Per pianificare il ricorso al telelavoro, bisognava prima di tutto individuare le attività non telelavorabili. Anche se erano previste delle sanzioni per chi non avesse provveduto, non se n’è mai fatto nulla.
C’è da aggiungere che regole e prassi escludono i dirigenti e chi ha contratti diversi da quello a tempo pieno e indeterminato e che l’età media dei dipendenti pubblici è alta. L’Italia infatti ha il più basso tasso percentuale di dipendenti sotto i 35 anni - il 2% contro il 18% dei paesi Ocse - e la più alta sopra i 54 anni, 45% contro il 22%. 
 
Si aggiungono la scarsità di risorse per il necessario rinnovamento dei mezzi tecnologici e la complicata disciplina sugli infortuni. Le iniziative, pure virtuose, ci sono. Apripista le province di Trento e Bolzano, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Per queste amministrazioni, l’obiettivo del 10 % non è poi così remoto. Tra gli enti di ricerca, spicca l’Istat, poi ci sono il Ministro dello Sviluppo Economico e della Salute. Ma a Sud di Roma di telelavoro non c’è ancora traccia. 

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