venerdì 29 dicembre 2017

Italiani bocciati in inglese

(Fonte: "La Stampa")

L’ultimo  esempio  proviene  dalle  nuove  regole che,  dal  2018,  prevede che le piccole e medie imprese, per avere in assegnazione i fondi  europei  del  ricco  programma Horizon, affrontino un colloquio di mezzora davanti alla commissione  esaminatrice,  rigorosamente in lingua inglese.
Dici minuti per una rapida informazione  sull’azienda,  venti minuti per domande e risposte di  approfondimento.  Il  colloquio  dovrà  essere  sostenuto dall’imprenditore o dall’amministratore  delegato,  che  non potranno avvalersi in questo di rappresentanti o di consulenti.
L’obiettivo è quello di verificare  lo  stadio  di  maturità  internazionale  raggiunto  dall’azienda, attraverso la valutazione del grado di competenza della lingua. L’inglese è ormai la lingua franca in tutti i Paesi avanzati, ma la sua conoscenza  è  ancora  molto  arretrata nel nostro Paese. Secondo l’ultimo  rapporto  Ef  Epi  2017 uscito a novembre (è il più ampio  rapporto  internazionale
sulla  competenza  dell’inglese degli adulti nel mondo), l’Italia occupa  infatti  la  poltrona  numero  33  su  80  Paesi  censiti, collocandosi  nella  categoria media,  ma  molto  lontana  dai suoi  principali  competitori.  Il punteggio medio di competenza in Italia è di 54,19, mentre la media europea è di 55,96.
Nella classifica mondiale ai primi  quattro  posti  vi  sono  i Paesi del Nord-Europa. Al primo posto assoluto gli olandesi, seguiti da svedesi, danesi, norvegesi. Al quinto posto c’è Singapore,  seguito  da  Finlandia, Lussemburgo e Sudafrica. Sono questi otto Paesi a conquistare l’Olimpo della conoscenza dell’inglese, la fascia alta oltre ovviamente alla Gran Bretagna. Nella seconda categoria
(buona conoscenza) ci sono tedeschi, austriaci, polacchi, belgi, malesi e svizzeri, seguiti da
diversi  Paesi  dell’Est  Europa (Serbia,  Romania,  Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia).
La terza categoria, in cui si colloca  l’Italia,  quella  di  conoscenza  media,  vede  ai  primi tre posti Bulgaria, Grecia e Lituania, che occupano la poltrona 22, 23 e 24 dell’intera classifica, mentre il nostro Paese è a quota 33, subito dietro la Francia e davanti a Vietnam e Costa  Rica.  Cina,  Giappone  e Russia  occupano  le  prime  tre piazze  della  categoria  bassa conoscenza; Siria, Qatar e Marocco sono le prime tre nell’ultima  categoria  (conoscenza molto bassa), in cui le peggiori
sono Libia, Iraq e Laos.
In un mondo diventato sempre  più  piccolo  e  interdipendente la conoscenza dell’inglese  è  decisiva,  nonostante  la Brexit, quasi un contrappasso, questa volta positivo, che permette  agli  inglesi  di  essere  i monarchi  del  linguaggio  più usato al mondo.
Gli italiani hanno difficoltà a imparare l’inglese, soprattutto gli adulti, mentre i giovani, oltre che nativi digitali, sono anglofoni  per  forza.  C’è  chi  dice che abbiamo difficoltà a impararlo  perché  il  nostro  sistema uditivo, basato più sui toni gravi che acuti, non riesce a sentire bene l’inglese, che è basato sugli acuti. C’è chi tesse le lodi del bilinguismo, mentre l’Europa chiede di conoscere almeno due lingue oltre alla propria. Lo studio  fin  dai  primi  anni  di scuola è la base, ma molto resta da fare. Nel nostro Paese le regioni  sopra  la  media  europea (55,96)  sono  Friuli-Venezia
Giulia  (56,62),  Lombardia (56,40), Liguria (56,28), EmiliaRomagna  (56,15),  seguite  da
Marche (55,15) e Piemonte-Valle d’Aosta (55,14).


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giovedì 28 dicembre 2017

L’impresa familiare brilla più dei rivali

(Fonte: "Affari&Finanza")

Più crescita, più occupazione e maggiore redditività.
Le aziende familiari, che costituiscono l’ossatura dell’economia  italiana,  non  temono  per nulla il confronto con le realtà che hanno un altro tipo di proprietà e, nella maggior parte dei casi,  anche  dimensioni  molto più  grandi.  È  questo  quanto emerge  dalla  nona  edizione dell’Osservatorio  Aub  sulle aziende familiari italiane, a cura di Guido Corbetta, Fabio Quarato e Alessandro Minichilli dell’Università Bocconi. Nel decennio che va dal 2007 al 2016 i ricavi delle imprese familiari sono cresciuti del 47,2% contro il +37,8% fatto registrare da tutte le altre, con una differenza di quasi dieci punti percentuali.
All’interno  del  gruppo  delle società non familiari l’aumento del giro d’affari va dal +29,2% di
quelle pubbliche al 49,1% di cooperative  e  consorzi,  passando per il +32% fatto segnare dalle filiali  delle  imprese  estere  e  il +44,5% delle società controllate da fondi d’investimento. Le cose non cambiano se si va ad analizzare  la  redditività nette che per le imprese familiari si è attestata all’11,4% nel 2016, a fronte dell’8,9% di tutte le altre. Va inoltre rilevato che in ogni singolo anno  del  periodo  in  esame (2007-2017) la redditività delle prime è stata superiore a quella delle seconde. Fra queste spicca l’efficienza delle filiali di imprese estere (10,5%) e il valore particolarmente basso di consorzi e cooperative (2,9%), che lavorano però con altre logiche di mercato. Lo studio della Bocconi rileva  inoltre  che  l’occupazione nelle aziende familiari è cresciuta del 20,1% negli ultimi sei anni, riuscendo così a battere cooperative e consorzi (+14,4%) e le
filiali di imprese estere (+5,7%).
Le aziende familiari vantano infine anche un minor indebitamento: considerando il rapporto fra il totale degli attivi e il patrimonio netto, si attestano al 5% contro il 6% delle altre tipologie di proprietà.
Le imprese familiari hanno infine una maggior capacità di ripagare  il  debito,  intesa  come
rapporto fra la posizione finanziaria netta e il margine operativo lordo. Nel 2016 questo indicatore era pari al 5,3% contro 4,9% del  resto  dell’universo  delle aziende. In questo campo le società non familiari sono riuscite a fare meglio almeno in un anno, il 2007; questo era però prima dello scoppio della crisi e da ciò si può facilmente dedurre come la gestione familiare sia molto più oculata, soprattutto quando le cose  iniziano ad andare male.
Gli esperti dell’università milanese sono poi andati ad analizzare le performance di due sottoinsiemi  di  aziende  familiari d’eccellenza,  quelle  quotate  e quelle che superano i 500 milioni di fatturato (le Over 500). Le prime sono più grandi della media (il 45% ha un fatturato superiore ai 250 mln di euro, contro il 7% delle non quotate), più longeve (il 28% ha più di 50 anni), sono cresciute del 20% in più rispetto altre negli ultimi dieci anni e sono più propense ad acquisizioni (76,9%), investimenti diretti esteri (88%) e ad esportare.
Secondo quanto emerge dallo  studio,  le  aziende  familiari stanno infine affrontando molto seriamente i problemi connaturati  con  questa  tipologia  di proprietà, il principale dei quali
è dato dal fatto che le generazioni successive a quella del fondatore sono sempre meno capaci
di tenere le redini dell’azienda.
La  soluzione  del  problema  è quella  di  rivolgersi  a  manager esterni ed è proprio questo che
un numero crescente di aziende sta facendo. Negli ultimi due anni su 253 casi di successione
di una impresa familiare italiana con  un fatturato compreso tra i 20 e i 50 milioni di euro si è
passati da un leader familiare a un leader non familiare.
«Si tratta di numeri già significativi e di un fenomeno che segue di qualche anno il processo
già  avviato  dalle  imprese  più grandi e che ha dimostrato di pagare in termini economici e finanziari — spiega Guido Corbetta, che illustra i vantaggi di questa scelta — L’apertura ai non familiari risulta correlata ad aspetti  positivi  come  la  crescita  dimensionale  e  la  capacità  di
esportare. E se resta vero che le imprese familiari di terza generazione  soffrono  in  termini  di
reddittività,  questa  relazione  è più debole quando le imprese sono di dimensioni maggiori e
quando si registra la presenza di consiglieri esterni».

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mercoledì 27 dicembre 2017

Nuovi modelli manageriali

(Fonte: "L'Impresa")

Lavori in corso, anzi rivoluzione in corso, con l’introduzione dello Smart Working o lavoro agile nelle aziende italiane, da quest’anno regolato dalla legge che lo definisce una modalità di
esecuzione di lavoro subordinato che prevede, mediante accordo tra le parti, forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro e con l’utilizzo di strumenti tecnologici a supporto della propria attività lavorativa.
Il sesto rapporto dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano offre la fotografia più aggiornata di questo cambiamento epocale per capi e collaboratori nel modo di considerare l’organizzazione del lavoro, che si sta spostando su obiettivi e responsabilizzazione in una
relazione di fiducia, e non più sul tradizionale controllo delle ore trascorse in ufficio. Insomma, niente più cartellini da timbrare e niente più straordinari, ora si lavora per obiettivi, concordati ovviamente, ma con un approccio di maggiore autonomia nelle modalità di esecuzione.
 

L’impatto sull’economia del paese
I lavoratori che stanno sperimentando questo nuovo modo di lavorare, 305mila secondo le stime dell’Osservatorio (+14% rispetto al 2016), dicono di essere più soddisfatti, più produttivi (+15%) e con un miglior rapporto con il proprio capo. «Abbiamo calcolato che questo aumento di produttività, proiettato sui 5 milioni di potenziali smart worker, si tradurrebbe in 13,7 miliardi di euro di
benefici per il Sistema paese. Considerando poi anche solo un giorno alla settimana di remote working, il risparmio in un anno sarebbe di 40 ore a testa, con una riduzione di emissioni di 135 kg di CO2 », dichiara Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del
Politecnico di Milano. Ma cosa sta succedendo nelle grandi aziende italiane? Ormai più di una
su tre ha lanciato progetti strutturati e quasi una su due ha in previsione o potrebbe valutarne l’introduzione, tuttavia solo il 9% delle grandi aziende italiane ha avviato un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro, con un forte intervento culturale sulla diffusione dei nuovi modelli manageriali. «Il lavoro agile non è il telelavoro e nemmeno una forma di welfare aziendale. È molto di più, è un modello di organizzazione che dà alle persone flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti, in cambio di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Ma è un percorso che richiede tempo: bisogna imparare a organizzarsi in autonomia, con disciplina», precisa Corso. 


Se il lavoro non è un luogo, ma un risultato 

Un caso di punta è quello di Maire Tecnimont che da settembre, a seguito di un accordo sindacale, “impone” la presenza in ufficio solo una volta alla settimana per incontrare il proprio team e fare il punto sull’avanzamento lavori. Per il resto c’è la piena libertà di auto-organizzarsi su luoghi e tempi più adatti ai risultati da portare, d’accordo con il proprio capo. Il Gruppo sta lavorando anche sul
ripensamento degli spazi di lavoro, nelle torri Garibaldi di Milano, con la trasformazione della mensa in un luogo adatto a riunioni lungo l’arco della giornata e sta aprendo la hall alla cittadinanza con spazi di co-working. Lo Smart Working coinvolgerà via via i 1.800 dipendenti delle sedi milanesi, a partire dal primo gruppo pilota di 200 persone a novembre. Il progetto prevede
un investimento complessivo di 5 milioni di euro in due anni per adeguamenti tecnologici, interventi strutturali e formazione. «Siamo abituati a postazioni flessibili e a task-force di progetto, ma un’applicazione così estesa richiede un supporto al cambiamento perché il cambio culturale è enorme», commenta il direttore delle risorse umane Franco Ghiringhelli. Si prevedono infatti 5mila ore di formazione e coaching per i responsabili per diffondere una filosofia del lavoro basata sulla definizione degli obiettivi, la valutazione delle performance e la condivisione del feedback. «Il lavoro non è un luogo, ma un risultato. Dobbiamo imparare a misurare ed essere misurati sui risultati, in questo modo aumenterà anche la meritocrazia e l’inclusione. Per farlo il middle management deve imparare a scomporre gli obiettivi sul singolo collaboratore e disporli su un asse temporale dato», commenta l’amministratore delegato Pierroberto Folgiero.
 

La criticità più forte 
Insomma lo Smart Working non è anarchia, tutt’altro. In un incontro organizzato proprio in Tecnimont, “Be adaptive, be smart!”, anche Silvia Candiani, la nuova amministratrice delegata di Microsoft, dove il lavoro agile è la regola da oltre dieci anni e l’obbligo di presenza solo una volta alla settimana, ha evidenziato che «In questo modo l’approccio è più pianificato, si è più attenti al processo e si coinvolgono le persone che servono al momento giusto, usando strumenti di collaborazione. L’80% ha riscontrato un aumento di produttività e facilità nel collaborare e risparmia un’ora al giorno. Gli elementi di successo sono indubbiamente l’orientamento al risultato e il cambiamento culturale dei capi». Proprio il disinteresse e le resistenze dei capi, infatti, sono il secondo ostacolo all’introduzione ancora più estesa dello Smart Working, preceduto solo dalla non applicabilità allo specifico sistema produttivo. Conferma i risultati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano la ricerca “Smart Working: is your company smart?” di OD&M Consulting (Gi Group) su Hr Manager ed Exectuive di 84 aziende italiane. 

Cosa deve cambiare in azienda
La principale criticità emersa riguarda proprio il cambiamento culturale necessario per passare dall’orientamento alle direttive, dal controllo e “presenzialismo” all’orientamento su risultati. «Per diventare agili bisogna concentrare gli sforzi su cultura, mindset e organizzazione del lavoro. Solo dopo aver agito su questi elementi “profondi”, che definiscono il “cosa deve cambiare in azienda”, entrano in gioco gli interventi strumentali su tecnologia, policy organizzative e gestione degli spazi aziendali, che sono gli elementi più visibili», spiega Rossella Riccò, responsabile Area Studi e Ricerche di OD&M Consulting. Per cultura aziendale la ricerca intende lo spostamento del focus dalla presenza ai risultati, la diffusione di un clima di fiducia, una leadership partecipativa e facilitatrice e la condivisione di valori, mission e risultati. Fanno invece parte del mindset l’attitudine all’utilizzo degli strumenti digitali, l’attenzione alla privacy e alla sicurezza dei dati e la
predisposizione al cambiamento e all’adattamento veloce, mentre l’organizzazione del lavoro comprende la definizione dei kpi dei risultati ottenuti attraverso lo Smart Working. 


Una spinta al cambiamento culturale
Anche in Nestlè, pioniera nella forme di flessibilità del lavoro, nel 2011 è stata introdotta una modalità di lavoro agile molto flessibile, concordabile con il proprio capo, che ha portato dopo due anni di sperimentazione all’eliminazione della timbratura stessa. «I manager all’inizio erano preoccupati, ma hanno dovuto ricredersi perché le persone hanno imparato a regolarsi da sole e comunque la maggior parte di loro continua a venire in ufficio. Noi abbiamo bisogno di sapere chi c’è in ogni momento nello stabile solo per motivi di sicurezza», racconta Giacomo Piantoni, direttore risorse umane Gruppo Nestlè Italia.
Numerosi anche i progetti che partono ora, con una o due giornate alla settimana consentiti in remote working. Nel Gruppo Axa, ad esempio, dopo una prima fase pilota, da ottobre 1.400
persone (il 94% dei dipendenti) possono lavorare in remoto fino a due giorni alla settimana. «Lo
Smart Working è un acceleratore del cambiamento culturale, che è il nostro obiettivo primario: favorire un modello basato sulla fiducia e sulla performance, prestando attenzione al benessere e al coinvolgimento delle persone», racconta Maurizio Di Fonzo, chief Hr, organization and change management Gruppo Axa Italia. 


Dare fiducia alle persone ripaga
Anche Costa Crociere è partita con il proprio progetto “Sm@rt Working Costa – Moving Forward!” ed entro la fine dell’anno i suoi 1.300 dipendenti, di cui mille a Genova, potranno scegliere un giorno alla settimana per lavorare fuori ufficio. «Per noi significa dare fiducia alle persone,
offrendo la possibilità di organizzarsi liberamente secondo obiettivi e responsabilità, permettendo di valorizzare al meglio il loro potenziale e migliorando la qualità della loro vita», commenta Paolo Tolle, VP Human Resources di Costa Crociere. Anche A2A sta sperimentando nuovi modi di lavorare
in una logica di innovazione e digitalizzazione che mettano le persone al centro dei processi. A seguito di accordo sindacale, lo Smart Working è stato sperimentato da 250 persone anche in A2A una volta alla settimana, esclusi il venerdì e il lunedì e garantendo sempre il 50% di presenza in ogni ufficio, di concerto con il proprio capo e con precise regole antinfortunistiche e di sicurezza del dato. «Il riscontro della survey svolta a conclusione del pilota è stato molto soddisfacente. Per l’85% l’esito è stato positivo sia per i capi sia per i collaboratori: nessuna perdita di produttività, le scadenze sono state rispettate e grande sono la soddisfazione e la gratitudine per i dipendenti,
ricavatisi del tempo evitando gli spostamenti», commenta Emilia Rio, direttore risorse umane e organizzazione A2A. Il progetto ora verrà esteso a 700 persone e via via arriverà anche alle funzioni operative sul territorio per eliminare gli sprechi di tempo e migliorare la qualità della vita.
«Questi cambiamenti vanno accompagnati, perché non è immediato cambiare cultura, servono sempre aree test che creino onde progressive di soddisfazione mano a mano che se ne sperimentano i benefici e che si creano nuove abitudini di lavoro», conclude la Rio.


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venerdì 22 dicembre 2017

Prevenzione e costi “La certificazione aiuta le aziende”

(Fonte: "Affari&Finanza")

«Che le aziende si pongano il quesito se è opportuno o meno investire nella certificazione è legittimo. Di certo c’è che i costi di queste procedure sono inferiori a quelli che si rischia di dover sopportare nel caso di problemi, legati ad esempio alla sicurezza e all’ambiente, così come all’organizzazione della governance».
Il pensiero di Giuseppe Rossi, presidente di Accredia, è netto su questo punto. L’ente unico
nazionale di accreditamento designato dal Governo italiano ha una visione a 360 gradi di ciò
che si muove nel settore delle certificazioni, alle quali le aziende fanno ricorso per farsi attestare
la conformità di prodotti, processi e modelli organizzativi agli standard di qualità riconosciuti
a livello nazionale e internazionale.
«Per l’azienda si tratta di uno strumento proattivo per il continuo miglioramento, quindi uno strumento per accrescere la propria competitività anche a livello internazionale, affermare la propria reputazione e così ampliare il mercato di riferimento» prosegue Rossi. Che ricorda come nel nostro Paese vi sia «una grande sensibilità su questi temi: solo la Cina ci supera a livello mondiale per il numero di certificazioni rilasciate». Proprio il fiorire di certificazioni può portare tuttavia a un po’ di confusione presso i consumatori, che non sempre hanno gli strumenti per capire fino in fondo il valore dei vari riconoscimenti. «Ma il nostro compito è proprio questo. Nasciamo con il compito di garantire una certificazione indipendente, dato che siamo terzi rispetto sia al mondo delle imprese, che a quello dei certificatori. E, in più garantiamo la competenza nei vari campi oggetto di esame».
Qualche esempio? In campo agroalimentare il sistema dei controlli coinvolge diversi attori, dalle aziende stesse ai sistemi di contrasto delle sofisticazioni e contraffazioni dei ministeri della Salute e delle Politiche agricole alimentari e forestali, dagli organismi di certificazione alla rete dei laboratori di prova. Accredia ha il compito di attestare la qualità e l’indipendenza di giudizio di questi ultimi, verificando che operino in conformità ai requisiti di legge e agli standard di mercato. Così, l’azienda che valuta la strada della certificazione può sapere che il suo investimento di fiducia nel controllore è ben riposto.
Altri ambiti in forte crescita sono quelli delle certificazioni energetiche e agli investimenti nella cosiddetta Industria 4.0. «In questo caso l’investimento dell’impresa deve essere avvalorato da una
perizia giurata, rilasciata da un professionista, o da un attestato di conformità, emesso da un organismo accreditato, accompagnato dalla relazione tecnica che dimostri non solo l’effettivo acquisto di macchinari e tecnologie che hanno consentito l’accesso agli incentivi pubblici, ma anche la rispondenza ai criteri tecnici fissati dal Governo» spiega Rossi. Per poi sottolineare l’approccio innovativo seguito su questo fronte dal legislatore, che «fa un passo di lato, lasciando agli imprenditori la responsabilità di dimostrare la conformità degli investimenti nell’automazione, anche con il ricorso alla certificazione, anziché effettuare verifiche dirette. Una dimostrazione di fiducia temperata, che potrebbe fare scuola in altri settori».
Guardando al futuro, il presidente segnala l’evoluzione in corso nel mercato degli istituti di vigilanza: «Preso atto che lo Stato non poteva garantire la presenza di forze di polizia per le crescenti esigenze di sicurezza, nel mercato è cresciuto il ruolo di queste società, che per la delicatezza del compito devono sottostare a una serie di regole.
Così prima si è proceduto con la redazione delle norme tecniche che ne definiscono le modalità ottimali di funzionamento e dal prossimo anno sarà indispensabile ottenere la certificazione
dei sistemi di governance e delle figure manageriali apicali per non perdere l’autorizzazione a operare rilasciata dal ministero dell’Interno». Rossi prevede anche il decollo della ISO 37001 anticorruzione, «alla quale hanno già fatto ricorso alcuni grossi soggetti operanti nell’ambito dell’energia, anche per verificare il rispetto di tutti i principi normativi da parte dei fornitori con i quali si interfacciano». Una riflessione che spinge l’esperto a sottolineare la rilevanza assunta ormai dalle certificazioni che, «anche laddove non sono imposte per legge (come avviene ad esempio per
partecipare ai bandi pubblici nel settore delle costruzioni), possono dare un valore aggiunto
alle aziende che vi fanno ricorso in termini di immagine proiettata sul mercato e di risultati di
bilancio». A questo proposito Accredia ha effettuato una ricerca con la Fondazione Symbola
dalla quale emerge che le aziende con certificazioni ambientali ottengono risultati migliori della media «perché seguire standard di qualità aiuta a migliorare l’efficienza della struttura organizzativa e ad accrescere la produttività. Senza considerare i minori rischi ai quali si va incontro».


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giovedì 21 dicembre 2017

Manager, leader...che confusione!

(Fonte: "L'Impresa")

In Italia, nella letteratura d’impresa il termine “manager” compare intorno agli anni ’50 del secolo scorso. Sostituiva l’unico e analogo sostantivo utilizzato negli anni del fascismo (che negava qualsiasi termine di origine anglosassone): “capo”.
Fino a quell’epoca si diceva e si scriveva capo reparto, capo officina, capo ufficio (ma il termine proprio per questi ruoli è tuttora diffuso nelle organizzazioni). Le prime a introdurre nel lessico d’impresa (e negli organigrammi) il termine manager furono le aziende di proprietà o con radici
americane (Ibm in primis). Poi vennero gli anni ’60 e grazie agli studiosi di organizzazione (prima ancora degli operatori aziendali) che leggevano e studiavano sui testi d’oltreoceano si incominciò a utilizzare anche il termine “leader”. Ciò obbligò a precisare e a individuare le caratteristiche e
le differenze fra i due termini: leader è colui che guida sulla base di una visione d’impresa; manager chi gestisce il quotidiano di una realtà organizzativa complessa. La radice di leader proviene da lead (il cavallo che guida il branco), mentre manager deriva dal latino manus agere (che ritroviamo nel francese menager o nell’italiano maneggiare). La differenza di contenuti è importante perché oggi è acclarato che non tutti i manager siano leader e non tutti i leader siano manager (anche se talvolta
troviamo le caratteristiche di entrambi nella stessa persona). Il leader guarda al futuro, il manager è orientato al presente.
Oggi la letteratura d’impresa (e il linguaggio giornalistico) – per quel vezzo tutto italiano di impiegare termini inglesi anche quando esiste la versione italiana – usa normalmente la parola leadership per indicare l’influenzamento di qualcuno capace di far agire delle persone in un determinato modo. Della capacità di leadership fanno parte due elementi: la convinzione e il
convincimento cioè l’autostima e fiducia in sé nonché l’autorevolezza e l’ascendente personale. A partire dall’inizio di questo secolo, il linguaggio giornalistico (e non la letteratura d’impresa) ha tradotto il termine leadership in “leaderismo” (talvolta scritto “liderismo”). In prima battuta si
potrebbe dire che i due termini hanno lo stesso significato, avendo la stessa radice etimologica. Invece nell’accezione italiana, leaderismo (soprattutto con riferimento ai partiti politici) ha una connotazione negativa, se non spregiativa quasi a contrapporlo a “democrazia”. La contrapposizione in parte è vera. Se democrazia è “il potere delegato al popolo”, la leadership (senza aggettivazione) è il “potere delegato al vertice di un’organizzazione” (come diffusamente
avviene nelle aziende). Ma con opportuna precisazione, non potendo negare che l’impresa è diffusamente un’organizzazione “verticistica” (e quindi “non democratica”), gli studiosi propongono da alcuni decenni la versione aggettivata e addolcita di “leadership partecipativa” (cioè la gestione attraverso la delega e il dialogo) o quella un po’ più severa di “leadership assertiva”, cioè con il rispetto dei diritti ma nel rispetto dei doveri di ciascuno, in alternativa ad
aggettivazioni più dure come “leadership tecnocratica” o “leaderhip burocratica”. La novità di questi ultimi tempi è l’inglesismo leaderless, cioè un’organizzazione senza capi carismatici e senza gerarchia. Ma chi la usa non sa (o non vuole ammettere) che già vent’anni fa nell’ambito dell’impresa si era cercato di proporre il termine e di realizzare il modello con totale insuccesso sul piano concreto.


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(Fonte: "L'Impresa")

In Italia, nella letteratura d’impresa il termine “manager” compare intorno agli anni ’50 del secolo scorso. Sostituiva l’unico e analogo sostantivo utilizzato negli anni del fascismo (che negava qualsiasi termine di origine anglosassone): “capo”.
Fino a quell’epoca si diceva e si scriveva capo reparto, capo officina, capo ufficio (ma il termine proprio per questi ruoli è tuttora diffuso nelle organizzazioni). Le prime a introdurre nel lessico d’impresa (e negli organigrammi) il termine manager furono le aziende di proprietà o con radici
americane (Ibm in primis). Poi vennero gli anni ’60 e grazie agli studiosi di organizzazione (prima ancora degli operatori aziendali) che leggevano e studiavano sui testi d’oltreoceano si incominciò a utilizzare anche il termine “leader”. Ciò obbligò a precisare e a individuare le caratteristiche e
le differenze fra i due termini: leader è colui che guida sulla base di una visione d’impresa; manager chi gestisce il quotidiano di una realtà organizzativa complessa. La radice di leader proviene da lead (il cavallo che guida il branco), mentre manager deriva dal latino manus agere (che ritroviamo nel francese menager o nell’italiano maneggiare). La differenza di contenuti è importante perché oggi è acclarato che non tutti i manager siano leader e non tutti i leader siano manager (anche se talvolta
troviamo le caratteristiche di entrambi nella stessa persona). Il leader guarda al futuro, il manager è orientato al presente.
Oggi la letteratura d’impresa (e il linguaggio giornalistico) – per quel vezzo tutto italiano di impiegare termini inglesi anche quando esiste la versione italiana – usa normalmente la parola leadership per indicare l’influenzamento di qualcuno capace di far agire delle persone in un determinato modo. Della capacità di leadership fanno parte due elementi: la convinzione e il
convincimento cioè l’autostima e fiducia in sé nonché l’autorevolezza e l’ascendente personale. A partire dall’inizio di questo secolo, il linguaggio giornalistico (e non la letteratura d’impresa) ha tradotto il termine leadership in “leaderismo” (talvolta scritto “liderismo”). In prima battuta si
potrebbe dire che i due termini hanno lo stesso significato, avendo la stessa radice etimologica. Invece nell’accezione italiana, leaderismo (soprattutto con riferimento ai partiti politici) ha una connotazione negativa, se non spregiativa quasi a contrapporlo a “democrazia”. La contrapposizione in parte è vera. Se democrazia è “il potere delegato al popolo”, la leadership (senza aggettivazione) è il “potere delegato al vertice di un’organizzazione” (come diffusamente
avviene nelle aziende). Ma con opportuna precisazione, non potendo negare che l’impresa è diffusamente un’organizzazione “verticistica” (e quindi “non democratica”), gli studiosi propongono da alcuni decenni la versione aggettivata e addolcita di “leadership partecipativa” (cioè la gestione attraverso la delega e il dialogo) o quella un po’ più severa di “leadership assertiva”, cioè con il rispetto dei diritti ma nel rispetto dei doveri di ciascuno, in alternativa ad
aggettivazioni più dure come “leadership tecnocratica” o “leaderhip burocratica”. La novità di questi ultimi tempi è l’inglesismo leaderless, cioè un’organizzazione senza capi carismatici e senza gerarchia. Ma chi la usa non sa (o non vuole ammettere) che già vent’anni fa nell’ambito dell’impresa si era cercato di proporre il termine e di realizzare il modello con totale insuccesso sul piano concreto.


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mercoledì 20 dicembre 2017

Whistleblowing senza vincoli di riservatezza

(Fonte: "Il Sole 24 Ore")

La legge sul whistleblowing, la n. 179 del 30 novembre 2017, mira a tutelare il lavoratore
(pubblico o privato, con i dovuti distinguo) che, venuto a conoscenza di irregolarità o illeciti sul
luogo di lavoro, decida di segnalarli. La nuova disciplina, in vigore dal 29 dicembre, interviene su
due fronti (si veda Il Sole24Ore del 15 dicembre).
Da un lato, implementa la tutela già prevista per i dipendenti pubblici, ampliando le maglie dell’articolo 54bis del Dlgs 165/2001 introdotto nel 2012 con la legge 190; dall’altro, estende la tutela al settore privato, prevedendo nuovi oneri in capo agli enti che abbiano scelto di adottare i modelli di organizzazione e gestione (Mog) di cui al Dlgs 231/2001. Tra gli aspetti principali, la legge prevede che il dipendente pubblico che segnali (al responsabile anticorruzione, all’Anac o all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile) condotte illecite conosciute in ragione del rapporto di lavoro non possa essere, per tale motivo, sottoposto a ritorsioni o a misure organizzative aventi effetti negativi, anche indiretti, sulle condizioni di lavoro.
Dal punto di vista soggettivo, la legge allarga la tutela anche ai dipendenti degli enti pubblici economici, a quelli degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico, nonché ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese che forniscano beni o servizi alla Pa; dal punto di vista oggettivo, essa
riguarda, invece, le segnalazioni effettuate nell’«interesse dell’integrità» della stessa Pa.
Inoltre, l’identità del segnalante non può essere rivelata ed è coperta da segreto nei modi e nei limiti previsti. Qualora, poi, venga accertata l’adozione di misure discriminatorie, o l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni, o l’adozione di procedure non conformi a quelle
individuate nelle linee guida Anac, quest’ultima adotta, nei confronti del responsabile, sanzioni amministrative da 5mila a 50mila euro.
Si evidenzia, infine, che ogni tutela per il segnalante è destinata a venir meno laddove sia accertata
la sua responsabilità penale (anche con sentenza di primo grado) per calunnia o diffamazione (o,
comunque, per reati commessi con la denuncia), ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.
Sul fronte privato, le novità attengono principalmente al contenuto obbligatorio dei Mog. Tra
l’altro i modelli dovranno prevedere anche uno o più canali che consentano di presentare, a tutela
dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite e fondate su elementi di
fatto precisi e concordanti di cui il segnalante sia venuto a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tutto ciò garantendo, anche con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del whistleblower. Oltre al divieto di atti di ritorsione o discriminatori nei confronti di quest’ultimo, i Mog dovranno poi prevedere adeguate sanzioni nei confronti non solo di chi violi le misure di tutela del segnalante, ma anche di chi effettui (con dolo o colpa grave) segnalazioni che si rivelino infondate.
L’articolo 6, inoltre, sancisce la possibilità – per il whistleblower e per l’organizzazione
sindacale da questi indicata – di denunciare l’adozione di eventuali misure discriminatorie all’Ispettorato nazionale del lavoro, per i provvedimenti di sua competenza. Infine, che, tanto
per il settore pubblico quanto per quello privato (seppur nei limiti anzidetti), la nuova disciplina colpisce con la sanzione della nullità il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del whistleblower, così come il mutamento di mansioni e qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria..
La segnalazione effettuata nell'interesse all'integrità delle amministrazioni (pubbliche o private), nonché alla prevenzione e repressione delle malversazioni, costituisce giusta causa di rivelazione delle notizie coperte dal segreto d'ufficio, professionale, scientifico e industriale. Tale ultima disposizione non si applica, tuttavia, ai rapporti di consulenza o di assistenza, o nel caso in cui il segreto sia rivelato con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell'eliminazione dell’illecito e,
in particolare, al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine.


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martedì 19 dicembre 2017

Welfare aziendale

(Fonte: "Affari&Finanza")

Mai come quest’anno le aziende italiane hanno iniziato a sostituirsi allo Stato, offrendo ai lavoratori cure dentistiche gratuite e altri servizi sanitari, buoni per l’acquisto di libri scolastici e persino voucher per pagare la badante. Se prima del 2015 le realtà che lo facevano erano pochissime,
ora il fenomeno sta dilagando per via delle agevolazioni fiscali introdotte dalle ultime due leggi di stabilità. (...)
Possiamo dire con certezza (...) che, mentre in passato si parlava di “cento fiori”, ovvero sporadiche
realtà come Luxottica, che anche ben prima degli sgravi fiscali offrivano cure odontoiatriche ai dipendenti, ora le cose son cambiate. In Emilia Romagna quasi sei aziende su dieci hanno introdotto in questi due anni dei benefit per i lavoratori. In Provincia di Cuneo, sette su dieci. E, a luglio, secondo un’indagine di Edenred Italia, circa quattro imprese su dieci, delle 1.131 prese in esame. Purtroppo, però, in Italia si danno agevolazioni, rinunciando a denaro pubblico a favore delle aziende, ma non si rilevano i dati sufficienti a monitorare e quindi a valutare fino in fondo la bontà dei provvedimenti. E' stato quindi impossibile avere il numero complessivo dei beneficiari degli sgravi, sapere in che quantità abbiano potuto goderne, quanto siano costati alle casse dello Stato.
Si è però potuto appurare che si è rafforzato il dialogo con il sindacato, nel tentativo di individuare le esigenze più ricorrenti tra i lavoratori (...).
Oggi, dei 12.711 contratti aziendali e territoriali che regolamentano il premio di produttività, uno su tre (3909) consente di convertire quest’ultimo in welfare aziendale. Con un aumento superiore al 70 per cento rispetto all’agosto 2016, quando le novità fiscali erano state da poco introdotte e gli accordi che lo consentivano erano 2.290 (dati del ministero).
Pian piano il secondo welfare (...) sta assumendo sempre più la forma di un secondo pilastro a sostegno del welfare pubblico che in questi anni riesce a dare sempre meno risposte alle esigenze dei cittadini. L’Italia non spende meno di altri paesi in Stato sociale. Nel 2015 ha sborsato in pensioni, sanità, assistenza sociale e politiche attive e passive del lavoro più di 447 miliardi. In percentuale, rispetto al Pil, abbiamo speso più o meno quanto la Svezia. La popolazione però invecchia, le nascite si riducono, e lievitano i costi per pensioni e sanità.
La mano pubblica non riesce a far fronte a tutti i nuovi bisogni. Se (...) bene fa dunque il governo a incentivare il secondo welfare, il dibattito sul tema è acceso. Di parere opposto (...) chi teme che si
stia andando verso un depotenziamento del welfare pubblico. Le casse statali, rinunciando ad alcune
entrate fiscali (...) destineranno meno fondi a sanità, istruzione e pensioni. E il welfare aziendale, soprattutto sotto forma di sanità complementare, permetterà solo a chi lavora di avere più tutele. Se si perde il lavoro, si perdono poi anche quote di assistenza.
Ma cosa offrono oggi le aziende ai dipendenti? Se i servizi sanitari sono una delle prime voci, dall’indagine in Emilia Romagna è emerso tra le 399 realtà che offrono servizi di welfare aziendale (sulle 722 prese a campione) sette su dieci spendono in formazione, sei su dieci in sanità integrativa (prima voce di spesa tra le imprese del cuneese, insieme ai fondi pensionistici complementari). A grande distanza, circa tre su dieci, danno servizi per la conciliazione vita-lavoro (come il buono bebè) e la previdenza complementare, che tra le aziende di Cuneo è invece al secondo posto. Solo due imprese su dieci offrono misure di sostegno al reddito. Tra le imprese piemontesi è diffusa anche la possibilità di accedere a tassi agevolati per mutui e finanziamenti (17% delle aziende) e alle convenzioni con strutture commerciali (15%).
Le aziende impegnate a costruire piani di welfare sono soprattutto quelle con più di 49 dipendenti e
un fatturato di oltre 10 milioni di euro. Tra i principali vantaggi, tutte riscontrano un miglioramento del clima aziendale. Mentre tra le aziende emiliano-romagnole, i benefit non sono stati invece ritenuti utili a ridurre l’assenteismo, il turn over, né ad aumentare la produttività, migliorare le relazioni industriali o ridurre il costo del lavoro. Tra le 189 aziende della provincia di Cuneo esaminate, gli effetti positivi sono invece stati riscontrati anche su questi fronti. Il welfare aziendale
(...) innesca un ciclo virtuoso che genera valore per tutti. 


(...)

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lunedì 18 dicembre 2017

L'ufficio del futuro

(Fonte: "Affari&Finanza")

«Il futuro entra in noi ancor prima che accada», è un aforismo di Rainer Maria Rilke. E sembra adattarsi perfettamente a quello che si sta verificando negli uffici del 2017. Open space e spazi
condivisi? La rivoluzione è già avvenuta. Di più. Sono già in molti a fare un passo indietro. Il nuovo
mantra sono spazi open space, per condividere idee ed esperienze, ma accompagnati da ambienti
più piccoli dove concentrarsi e raccogliere i pensieri.
(...) Se in principio sembrava che l’open office sarebbe stata l’opzione migliore per un risultato eccezionale, oggi si sta già imponendo un nuovo modello. Questa nuova organizzazione includerà una parte open space, ma anche aree riservate per una massima concentrazione, e quelle per attività che prevedono processi di collaborazione. Se l’ufficio open plan può promuovere una migliore interazione tra i componenti del team, è vero che gli impiegati sono più esposti a rumori e
interruzioni. Pertanto le stanze speciali, che garantiscono silenzio e lunghe ore di concentrazione, saranno sempre più diffuse.
 

(...) La cosa fondamentale prima di immaginare come saranno gli uffici del futuro è capire che
lavoro faremo nel futuro. L’impatto dell’innovazione tecnologica è riferito alla tecnologia della rete e
arriva dalla genetica. In questo senso l’innovazione sta consumando rapidamente i mestieri legati a tecnologie obsolete e spesso l’uomo sarà sostituito dalla macchina. Molte banche hanno già un robot al posto dello sportello e ci sono società di consulenza che hanno macchine in grado di rivedere i contratti. Tutto ciò è un’opportunità perché si creano nuove professionalità in uno scenario in rapida evoluzione. Come diceva Zygmunt Bauman ci troviamo di fronte ad “aziende liquide” che crescono e decrescono in base alla domanda del mercato. Mentre Frederick Laloux, nel suo libro Reinventare le organizzazioni, definisce le aziende future come “Fluide e con una missione collettiva: saranno porose e non più in connessione tra loro mentre le persone lavoreranno secondo modalità libere”. Risultato? (...) C’è una necessità delle aziende di essere molto flessibili e lo spazio che corrisponde a questo modello deve evolversi in modo rapido. Cosa dobbiamo aspettarci in pratica? Un grande hub che diventi il luogo della relazione mentre tutto ciò che non va fatto in team si può svolgere ovunque, da casa o in movimento. Altro problema spinoso è quello delle scrivanie condivise: quando bisogna svolgere attività in luoghi diversi e c’è flessibilità allora la scrivania personalizzata non serve, ma non è così per tutti. Insomma, bisogna declinare gli spazi basandosi sulla singola tipologia del lavoro. (...) Il modello fisico del futuro ancora non lo abbiamo visto: ora c’è un ibrido in cui l’utente
trova a disposizione la sua scrivania, la stanza per le conference call, la sala riunione. Sono importanti aree collaborative con nicchie relax in cui c’è bisogno di appropriarsi del proprio spazio.
E allora s’impone una nuova via: l’importanza di un “modello adattivo” fatto di oggetti fisici in
grado di muoversi assieme alle persone. Lo spazio si muove con noi e anche gli oggetti possono
spostarsi in modo che l’ambiente può essere riconfigurato e si adatta alle nostre esigenze. 

(...) Il singolo può costruire su misura la sua esperienza ma non c’è una ricetta per tutti uguale, la verità è che bisogna ascoltare le persone prima di progettare.
(...) Oggi c’è la moda della rimozione della postazione fissa ma il tema da indagare è l’articolazione
del luogo di lavoro. Rispetto alla contrapposizione open space o uffici individuali vale insomma una
terza ipotesi che è quella in cui convivono diverse forme spaziali, in cui accanto agli spazi condivisi
e ai sempre più rari uffici individuali ci sia una terza categoria, gli spazi chiamati della
“collisione” ovvero per incontri informali, per piccole riunioni, per incontri occasionali ma potenziali. A questi vanno ad aggiungersi le isole della socialità: cucine, bar, aree per giocare. L’ufficio del futuro è quindi una rete di spazi diversi e articolati capaci di rispondere
alle diverse esigenze, una rete flessibile nello spazio e nel tempo.


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venerdì 15 dicembre 2017

Hi-tech: aziende piccole che non innovano

(Fonte: "Affari&Finanza")

Un settore industriale troppo frammentato, con una pletora di aziendine troppo piccole (dimensione media 4,9 addetti) ma che nonostante questo cresce, e un’azienda su 4 pensa che nel 2017 crescerà più del 5%. Un settore in cui 6 aziende su dieci hanno meno di 16 anni ma che nonostante questo è poco propenso ad innovare e con un atteggiamento conservativo fin dalla testa, dal management. In sintesi: un settore che cresce, ma che potrebbe crescere molto di più; che ha un tasso di produttività procapite superiore del 40% alla media italiana ma che perde occupazione mentre potrebbe avere un saldo attivo impressionante. Questa fotografia a forti contrasti è quella dell’IT italiano, (...) sulla base dei dati elaborati ed analizzati da Net Consulting Cube e quest’anno anche con il supporto di una ricca indagine targata Istat che per la prima volta traccia una geografia precisa del settore e delle sue articolazioni funzionali, dimensionali e territoriali.
Stiamo parlando di un comparto che conta 87 mila imprese, 430 mila addetti, che vale il 3,7% del pil. Dove il 60% delle imprese fa comunque innovazione, ma visto il comparto potrebbe essere moolta di più . Insomma, non è un settore vecchio, ma ha un problema di nanismo che a questo punto è un problema di arretratezza culturale più che di mancanza di opportunità. La maggior parte delle imprese ha superato la crisi (...) ma ha faticato di più proprio per le dimensioni ridotte.
Aziende piccole hanno poche risorse finanziarie e non riescono a far fronte a un altro cronico difetto del sistema italiano, ossia la cronica sottovalutazione dei prezzi dei servizi, il cui acquisto è tutt’oggi prevalentemente basato su gare al massimo ribasso. All’It italiano serve dunque un salto di qualità. Il settore è molto cambiato (...) ha passato il guado delle trasformazioni imposte dai mercati in questi anni. Molte imprese di prima della crisi non ci sono più, sono state sostituite da nuove, ma anche queste sono piccole, soffrono di localismo. E questo crea una seconda frattura: sta tornando ad allargarsi il gap territoriale: l’It itailano si concentra prevalentemente al nord.
Ma soprattutto, stiamo perdendo opportunità: (...) già in questo 2017 il comparto evidenzia già un fabbisogno di 85 nuove competenze, tra nuovi ingressi e “reskill” di vecchie posizioni obsolete”.
Che cosa è dunque successo in questi anni. Bisogna entrare nei dati e nelle articolazioni. Il comparto hardware ha perso il 23% delle imprese e 17 mila addetti.
Al software è andata un po’ meglio: sono aumentate le imprese ma il saldo occupazionale è negativo per 5 mila unità. E’ la distruzione di posti di lavoro delle digitalizzazione? Sì, ma tenendo conto che
manca l’altra faccia della medaglia, quella dei nuovi posti. Ed è qui che si sono le note negative. Perché si sa qual è il comparto che cresce anche in posti di lavoro, quello dei servizi alle imprese. Oggi l’It non è più vendere prodotti ma instaurare con le imprese clienti un rapporto consulenziale, il cloud, l’internet delle cose, le piattaforme per le analisi di dati e flussi informativi. Tutto va commisurato alle esigenze di ogni singola azienda. Gli stessi agenti Microsoft che fino a ieri si limitavano a fatturare le vendita di licenze d’uso, oggi devono offrire un dialogo costante e una interlocuzione continua con le imprese che assistono.
Ed ecco che questo fa emerge i gap.
Le imprese dell’It, nonostante siano imprese tecnologiche, investono meno di quello che dovrebbero perché non hanno il volume per contrattare l’acquisto di risorse dal mondo bancario e da quello
dell’equity o del venture. E senza accelerare sull’innovazione di prodotto, non escono dalle nicchie dei loro mercati locali, non fanno crescere il business e non creano nuovi posti di lavoro. (...) già nel solo 2015, ai primi cenni di riprsa economica, le imprese It sono subito cresciute di ben 2 mila unità (non certo nell’hardware) e hanno creato 11 mila posti di lavoro in più. Ma si potrebbe fare molto di più.
Cosa serve? Serve sostegno politico (...) che non arriva creando “campioni nazionali” ma lavorando per diffondere cultura di impresa digitale, a partire dal management.
Bisogna convincere le aziende maggiori a tornare a fare formazione interna.
Una volta c’erano realtà guida come Olivetti e Fiat che avevano creato scuole manageraili di grande livello. Se ne sente la mancanza.


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giovedì 14 dicembre 2017

Se non è autoritario non è un leader?

Non sono molto d'accordo sul fatto che l'atteggiamento manageriale descritto nelle righe che seguono sia tipico solamente delle donne ma ho voluto comunque proporvi questo articolo perché credo sia importante riflettere sul fatto che si possono guidare le persone in modi diversi e che non ce n'è per forza uno "giusto" e uno "sbagliato".

(Fonte: "L'Impresa")

Scegliere e decidere tenendo conto della situazione delle persone e del loro punto di vista, è un sistema più faticoso ma più incisivo. I cambiamenti cominciano da questo: in luoghi dove di solito i rapporti sono strumentali e competitivi, si cerca di dare valore alle relazioni con le persone. L'attenzione è rivolta alla loro soggettività. 

Lavorare meglio è sempre un guadagno, per sé e per l'umanizzazione del lavoro. (...)

Ma cosa succede quando le persone con cui si lavora sono "problematiche"?
Va detto che nel rapporto capo-collaboratori ci sono anche tensioni a volte inevitabili. Le persone che lavorano - come del resto i capi - non sono tutte uguali. Non basta che chi ha un ruolo di responsabilità abbia buone politiche e buoni metodi perché vengano riconosciuti e apprezzati dai collaboratori. E anche, ovviamente, non tutte le persone lavorano bene. Quando si verificano queste situazioni, non è facile affrontarle senza ricorrere a soluzioni drastiche e autoritarie. (...)

Le donne, però, spesso si comportano diversamente dagli uomini rispetto a scelte sgradevoli riguardanti qualche collaboratore. Se una persona non è adeguata, se occorre toglierla da quella posizione, gli uomini più spesso evitano di affrontare il problema direttamente, delegano a qualcun altro, o comunicano sbrigativamente la decisione, che così appare punitiva. Le donne, invece, tendono a parlare apertamente con la persona della valutazione critica che la riguarda. E lo fanno in un modo costruttivo, perché non perda la fiducia nelle proprie capacità. Risolvono il problema magari spostandola ad attività più adatte alle sue caratteristiche, facendola sentire in grardo di fare bene in un altro ruolo. Non sono orientate a punire, ma a dare a quella persona un'altra possibilità di lavorare meglio. Casi problematici ci sono sempre: normale fisiologia organizzativa. Ma nella ricerca di una soluzione, queste manager sono guidate dalla consapevolezza che, comunque, si ha davanti una persona.

(...)

C'è anche uan situazione ricorrente più complicata. I comportamenti di queste donne costituiscono uno scostamento evidente dalla mentalità di potere con cui si agisce di solito nei rapporti gerarchici. Una mentalità non solo di chi sta al vertice o dei pari grado, ma spesso condivisa dai collaboratori. Alcuni dei quali vedono il mancato ricorso all'autoritarismo come debolezza di quella manager e ne approfittano per comportamenti scorretti rispetto ai loro compiti (lavorare poco, lavorare male) e anche per manifestazioni di aggressività verso la responsabile. Nessuna di queste manager si illude che il codice diverso con cui agisce sia condiviso da chi le sta intorno solo perché crea condizioni migliori anche per loro. Ma, certo, questi tentativi di abusare degli spazi offerti fanno rabbia e fanno male. Perché sono insensati. Perché i comportamenti scorretti danneggiano l'attività di tutti. E, soprattutto, rischiano di vanificare il cambiamento attuato da quelle manager nel modo di essere capo. Espondendole anche a valutazioni negative da parte dei vertici. (...) Il rispetto delle persone, anche quando sono problematiche, anche quando loro non ti rispettano, resta l'unica via. Perché non si possono avere due misure, anche se sarebbe più facile.

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mercoledì 13 dicembre 2017

Comunicare con empatia: come procedere?

(Fonte: "Italia Oggi")

Per instaurare una comunicazione positiva un primo passo sarà l'aver chiaro ciò che si desideri trasmettere al proprio gruppo di lavoro. Non si potrà, infatti, presumere che le persone riescano a interpretare costantemente la nostra volontà e i nostri pensieri in modo immediato e corretto. Il pieno rispetto degli altri, unitamente a un modo diretto di comunicare i propri stati d'animo e obiettivi, renderanno più semplice ed efficace la trasmissione delle informaizoni. 

Laddove le idee espresse possano suscitare reazioni di insofferenza o insoddisfazione sarà importante il saper fungere da fattore di raccordo tra le parti, senza, per questo, perdere di vista l'obiettivo comune e la propria posizione di partenza. La soluzione migliore a un conflitto si otterrà più facilmente evitando atteggiamenti aggressivi e, in ugual modo, comportamenti di chiusura e di mancanza di difesa delle proprie convinzioni. Il saper sintetizzare l'informazione principale e la capacità di esporla nei primi secondi della comunicazione, riallacciandosi alle premesse solo in un momento successivo, aiuteranno, inoltre, ad agganciare l'attenzione, evitando reazioni di impazienza.

L'ascolto empatico sarà prezioso: non ci si dovrà limitare a una mera raccolta di informaizoni, bensì optare per un'attenzione più profonda nei confronti degli interlocutori. Non sempre le emozioni verranno espresse palesemente e, dunque, per evitare errori interpretativi, dovremo comprendere i bisogni dell'altro e saper comunicare in relazione ad essi, costruendo un dialogo reale, fiducia e collaborazione autentica.

Se davvero si ritenga fondamentale il comunicare un problema o un'esigenza sarà da prediligere un incontro reale, evitando il messaggio scritto e, possibilmente, anche la telefonata. La componente espressiva del linguaggio (intonazione della voce, espressione del viso, gestualità), infatti, fungerà da supporto e renderà manifeste le nostre reali intenzioni ed emozioni.

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martedì 12 dicembre 2017

La persona da licenziare più velocemente?

(Fonte: "Business Insider")

Qual è il profilo più pericoloso quando si parla di dipendenti? Secondo alcuni imprenditori è chi si lamenta. Ce ne parla Business Insider.

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lunedì 11 dicembre 2017

Ancora sul Whistleblowing

(Fonte:  "L'Economia")

Con il via definitivo alla Camera, denunciare un abuso o un malaffare sul posto di lavoro ora è possibile con maggiori tutele per chi si espone. Non solo nel settore pubblico, anche nel privato. La legge sul Whistleblowing, la cosiddetta «soffiata», prevede che un lavoratore possa segnalare una frode in atto nell’azienda dove lavora, senza andarci troppo di mezzo o esser preso di mira.

Luci e ombre

 
Si può denunciare tutta una serie di illeciti, come frodi, danni ambientali, false comunicazioni sociali, illecite operazioni finanziarie, corruzioni, casi di concussione o negligenza medica all’autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all’Autorità nazionale anticorruzione o al responsabile
nella propria azienda. Estendendo le tutele anche al settore privato, la norma di fatto allarga la platea alle società che operano conconcessioni pubbliche, favorendo maggiore trasparenza negli appalti e migliorando, si spera, la cultura aziendalistica del Paese.
Interpellando però alcune delle principali law firm d’Italia sembra che qualche ombra sulla legge che vuol combattere la corruzione ci sia. La norma introduce un regolamento anche per il settore privato tramite una serie di «procedure informatiche atte a consentire la denuncia, preservando l’anonimato del denunciante e proteggendolo da eventuali ritorsioni (...). La normativa però sembra non avere ben bilanciato la tutela dei contrapposti interessi e posizioni. Se si è fatto il massimo sul fronte del denunciante, rafforzando anche la tutela contro gli atti ritorsivi, non altrettanto adeguata appare la protezione dell’eventuale accusato ingiustamente. Si è trascurata la pericolosità del delatore, magari seriale, che, protetto dall’anonimato e dalla difficoltà di provare che abbia agito con dolo o colpa grave, può provocare danni ingenti ai colleghi, vittime di accuse infondate, ed all’azienda in termini di dispersione di energie e risorse, oltre che di costi organizzativi» per via
del clima di sospetto che si verrebbe a creare.
A questo si deve aggiungere che il legislatore ha trascurato di prendere, come sarebbe stato auspicabile, una netta posizione nei confronti del fenomeno della denuncia anonima, lì dove non ha vietato le indagini conseguenti ad una segnalazione del tutto anonima. Dunque, per il legale siamo dinanzi ad uno sbilanciamento tra la presunzione d’innocenza del lav oratore da una parte e quella di colpevolezza che grava sull’azienda dall’altro.


I rischi

 
(...) Anche se la legge da una parte interviene efficacemente nel settore pubblico, non si può dire altrettanto nel privato, dove non tiene conto dell’esistenza in molte aziende, soprattutto
multinazionali, di codici di whistleblowing già adottati, e richiede, a differenza di quanto avviene nel settore pubblico, di criteri molto più stringenti per la redazione delle denunzie ( le condotte
illecite, fondate su elementi di fatto, precisi e concordanti). Il rischio per l’avvocato sono le ritorsioni che tenderanno a scoraggiare chiunque sia spinto da buone intenzioni. Lasciato solo, esposto al rischio di minacce, un lavoratore rischia anche di perdere il posto, come capitato.
Inoltre, durante un procedimento giudiziario è impensabile che si possa tener segreta l’identità di chi denuncia.
(...) Si tratta di «una legge apprezzabile per il rafforzamento delle misure a tutela dei dipendenti (essenziale al riguardo l’inversione dell’onere probatorio) sia per l’estensione della tutela ai dipendenti delle società controllate e di quelle private. Si tutela infatti l’interesse del lavoratore, e della stessa collettività, garantendo ai dipendenti la riservatezza della denuncia e la tutela da misure ritorsive e discriminatorie.


Al di la dei pareri, la norma qualcosa ha già smosso. E questo è un bene per il Paese. Un dipendente del Comune di Roma ha segnalato le continue assenze ingiustificate di una collega che timbrava e se
ne andava. L’indagine ha portato al licenziamento della dipendente che lavorava proprio nella direzione Trasparenza e anticorruzione in Campidoglio.
C’è poi chi ha provato a contare i «fischietti». Sarebbero300 mila, di cui 120mila addetti nel settore bancario, grazie ad un software messo a punto da Unione Fiduciaria. La platea dei soggetti
interessati è destinata a salire (...) perché l’ obbligo di legge viene esteso dalle banche a tutti
gli intermediari, i professionisti, le società quotate e pubbliche. 


(...)

Cosa ne pensate?

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giovedì 7 dicembre 2017

Troppi incompetenti digitali

(Fonte: "Corriere della Sera Economia")

In tempi di quarta rivoluzione industriale, l’aggiornamento delle competenze professionali ricopre
un ruolo chiave per garantire lo sviluppo delle economie nazionali. È per questo motivo che, nel 2016, la Commissione europea (Ce) ha pubblicato due documenti ufficiali: l’«Agenda europea per le competenze» e la comunicazione sulla «Digitalizzazione dell’industria europea».
Rappresentano una bussola molto utile sul tema per governi, parti sociali e stakeholder dei Paesi Ue.
L’Agenda per le competenze identifica innanzitutto otto capacità chiave per affrontare e gestire il cambiamento economico e tecnologico.
Vengono poi indicate dieci azioni per aumentare la qualità e la rilevanza dei percorsi di formazione, migliorare la comparabilità delle competenze tra Paesi, facilitare l'informazione e il coordinamento. La comunicazione sulla Digitalizzazione dell’industria europea delinea a sua volta una serie di misure strategiche per favorire lo sviluppo del mercato unico digitale. L’agenda Ue prevede poi un’iniziativa ambiziosa: l’introduzione in tutti iPaesi membri di una Garanzia per le competenze, simile alla Garanzia giovani.
Il passo in più
A ciascun adulto dovrebbe essere riconosciuto un nuovo diritto sociale che gli garantisca: una valutazione delle competenze possedute; un’offerta di formazione che risponda alle sue esigenze specifiche, nel contesto del mercato locale del lavoro; la convalida e il riconoscimento delle competenze acquisite e di volta in volta aggiornate. Per ora non è chiaro se la Ue impegnerà dei fondi su questo fronte, come nel caso della Garanzia giovani. Sarebbe naturalmente molto importante che lo facesse. La sfida dell’aggiornamento professionale si giocherà soprattutto a livello nazionale.
Come si posiziona l’Italia in prospettiva comparata? Rispetto alla media europea, i lavoratori italiani scontano livelli bassi sia da un punto di vista dei titoli di studio acquisiti, che di effettive capacità di lettura, scrittura e calcolo. Particolarmente limitate sono poi le competenze in Itc: più di un adulto su tre non ha mai svolto un’operazione al computer.
Ad essere in ritardo è l’intera filiera della riqualificazione e della formazione: rispetto a una media europea del 10,8%, in Italia solo l’8,5% dei lavoratori partecipa a corsi di formazione. E pensare che esistono Paesi, come Danimarca e Svezia, in cui le percentuali si avvicinano al 30%. Ovviamente le difficoltà non sono distribuite in maniera eguale tra settori economici e tipologia di imprese. Il ritardo riguarda soprattutto l’alberghiero, la ristorazione, l’edile e l’agricoltura. Ma anche il manifatturiero italiano non è allineato agli standard europei, soprattutto fra le Pmi. Il sistema di formazione continua è un patchwork poco coerente e la capacità dello Stato di indirizzare,
guidare, nonché di finanziare, è limitata. La riforma del Titolo V (2001) non ha aiutato a definire compiti e responsabilità precise tra livelli di governo. A fronte di una molteplicità di attori istituzionali coinvolti sulla carta, le imprese rappresentano, di fatto, il maggior fornitore di corsi di
formazione continua. I fondi paritetici interprofessionali ricoprono ormai un ruolo cardine.
Le lacune
Quello che manca è un’integrazione tra centri di ricerca, università, istituti scolastici, imprese e parti sociali, all’interno di una cornice strategica congiuntamente definita e fatta propria dalle istituzioni pubbliche. I destinatari dovrebbero essere non solo i giovani, ma anche i lavoratori già occupati. La rivoluzione 4.0 è in corso ora, per avere successo (come impresa, territorio, regione, Paese, Europa tutta) è necessario correre subito, con le forze già attive ed occupate, investendo sulla loro formazione e riqualificazione. E creando connessioni fra conoscenze locali dei problemi (ciò che funziona e ciò che non funziona) da parte di chi già lavora e le nuove soluzioni rese possibili dall’innovazione, con le quali chi già lavora ha invece poca familiarità.
In Germania la corsa è già cominciata. Nel 2016 il governo ha lanciato l’iniziativa«Formazione Professionale e Training 4.0», imperniata sull’istituzione di una quindicina di Poli per le competenze su tutto il territorio nazionale. Ameno di due anni sono attivi già cinque Poli. Anche il nostro governo ha varato nel 2016 un ambizioso piano Industria 4.0, con l’idea di creare dei Centri Competenze integrati. Ma non sono ancora usciti i bandi per selezionare i progetti. Come al solito, i principali ostacoli sono la burocrazia e le norme amministrative, che imbrigliano le gambe dei concorrenti prima ancora che la corsa cominci.


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mercoledì 6 dicembre 2017

Le cattive abitudini che dimostrano che siete più intelligenti di quanto credete

(Fonte: "Business Insider Italia")

Pensate di avere qualche cattiva abitudine che vi danneggia sul lavoro? Beh, forse potreste rimanere sorpresi dal fatto che qualcuno le consideri addirittura un valore aggiunto!

C’è una cosa da dire sulle cattive abitudini: molte di esse possono danneggiarci quando vengono portate all’estremo, ma in piccole dosi possono essere parte di uno stile di vita sano.
Vivere come sciattoni non porta da nessuna parte, ma una scrivania in lieve disordine potrebbe renderci più creativi. Lo sapevate?

(...)


Procrastinare

C’è un crescente numero di studi che approfondiscono il motivo per cui la gente rimanda le cose e come evitare di farlo.

Ma Adam Grant, professore della Wharton School della Pennsylvania e autore di “Originals“, sostiene che dobbiamo ampliare la nostra concezione di procrastinazione per includere non solo la pigrizia, ma anche l’aspettare il momento giusto. In altre parole, il procrastinare può contribuire ad aumentare la creatività perché dà la possibilità di sviluppare una grande idea.
In un’intervista fatta da Rachel Gillett di Business Insider, Grant ha indicato Steve Jobs di Apple come esempio di qualcuno che ha beneficiato dall’aver ritardato determinati compiti:

“Il tempo in cui Steve Jobs rinviava le cose e provava alternative era speso per lasciare che le idee più eterodosse arrivassero sul tavolo, piuttosto che tuffarsi subito a capofitto con le idee più convenzionali, le più scontate, le più familiari“.


A domani per un'altra "cattiva" abitudine.

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martedì 5 dicembre 2017

La maturità di un sistema si capisce da come vengono applicati i principi della qualità (3)

Gli ultimi tre principi della qualità necessari per stabilire la maturità del vostro sistema sono:

Miglioramento

Il principio relativo al miglioramento è relativo al cercare continuamente nuovi modi per fare le cose meglio.

Al primo livello ci sono quelle organizzazioni che si limitano a sistemare gli errori, mostrando un atteggiamento completamente passivo.
Al secondo posto si collocano le aziende che reagiscono davanti ai problemi e provano ad affrontarli per risolverli.
Le aziende migliori sono, come sempre, quelle che raggiungono il punteggio più alto grazie all'atteggiamento proattivo che permette loro di cercare conitnuamente di migliorare in qualsiasi attività svolganoa.

Decisioni basate sulle evidenze

Per quanto riguarda le decisioni che dovrebbero essere prese in base ai fatti, i tre livelli di applicazione del principio sono i seguenti:

nessuna decisione viene presa in base ai dati ricavati dal sistema qualità.
Al secondo livello ritroviamo, invece, quelle realtà che utilizzano i dati provenienti dagli audit, dai reclami dei clienti e dalle non conformità come input per avviare il processo decisionale.
Al terzo livello ci sono le organizzazioni che, allo scopo di prendere le decisioni migliori, sfruttano tutti i dati di tutti i processi del sistema.

Gestione delle relazioni con le parti interessate

Anche da come un'azienda si relaziona con i propri fornitori, con i dipendenti e con gli altri stakeholder si può capire molto del suo sistema qualità. Se, ad esempio, considera i fornitori come dei veri e propri nemici da sfruttare ogni volta che è possibile e da tenere a debita distanza, è indubbio che ci si trovi al primo livello di maturità del sistema qualità, almeno per quanto riguarda l'applicazione di questo principio.

Chi lavora, invece, in team con fornitori e personale interno per raggiungere gli obiettivi che si è posto, si trova al secondo livello ma è solamente chi riesce a coinvolgere fornitori, dipendenti, clienti e stakeholder in generale nello sviluppo delle proprie strategie che può considerarsi "arrivato" per quello che concerne le relazioni con le diverse parti interessate.

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lunedì 4 dicembre 2017

La maturità di un sistema si capisce da come vengono applicati i principi della qualità (2)

Dopo aver visto insieme come stabilire il livello di maturità del vostro sistema a seconda di come sono stati applicati i primi due principi della qualità, continuiamo l'analisi esaminandone altri due.

Coinvolgimento delle persone

Questo è il principio che governa la capacità di far crescere e motivare le persone che lavorano con noi al fine di coinvolgerle fino in fondo nel lavoro che fanno.

Al primo livello si trovano quelle realtà che vedono le persone come una delle tante risorse da utilizzare per raggiungere un certo scopo.
Sul secondo gradino, un po' più in alto, troviamo le organizzazioni che coinvolgono le persone nelle decisioni che le riguardano.
Le aziende migliori, però, sono quelle capaci di valorizzare davvero le persone perché riescono a capire che gli obiettivi si centrano solamente grazie al loro impegno e attraverso un serio lavoro di gruppo.

Approccio per processi

Quando si tratta di gestire in maniera efficace un insieme di processi, i livelli di maturità del sistema qualità possono essere individuati in questo modo:

al primo livello ritroviamo quelle realtà che hanno un insieme di procedure basate su una serie di attività che sono completamente slegate dagli obiettivi aziendali.
Al secondo livello ritroviamo, invece, processi dipartimentali che perseguono obiettivi dipartimentali.
E' solo al terzo livello, il più alto, che i processi vengono progettati per raggiungere gli obiettivi che sono stati stabiliti. A tale scopo, ogni processo viene riesaminato periodicamente per migliorarlo e renderlo più adatto a raggiungere lo scopo per il quale è nato.

A domani!

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venerdì 1 dicembre 2017

La maturità di un sistema si capisce da come vengono applicati i principi della qualità

Recentemente abbiamo visto come utilizzare i 7 principi della qualità all'interno del nostro sistema ISO 9001:2015. I principi della qualità, però, possono anche essere utilizzati per stabilire la maturità di un sistema.
Vediamo come.

Un'organizzazione che abbia applicato a dovere un principio della qualità si posizionerà al livello tre, il più alto. Chi, al contrario, non l'ha ben compreso ed applicato, si troverà al livello uno, il più basso.

Ma cosa significa operativamente "applicare a dovere un principio della qualità"? Esaminiamo un principio alla volta e cerchiamo di capirlo insieme.

Attenzione al cliente

Questo primo principio della qualità si occupa di capire le esigenze e le aspettative della clientela.

Un'azienda che si collochi al primo livello, il più basso, non avrà istituito nessun processo proattivo che si occupi di individuare queste esigenze e aspettative.
Chi sta nel mezzo (secondo livello), invece, ha istituito qualcosa che assomiglia a un processo ma non lo gestisce all'interno del sistema qualità.
Al terzo livello ci sarà chi ha ben compreso cosa significhi "attenzione al cliente" e lo applica nel modo giusto, progettando un processo ad hoc e integrandolo all'interno del sistema qualità.

Leadership

Cosa si intende per leadership? Possiamo riassumere questo concetto con un'unità di intenti unita alla motivazione delle persone.

Chi sta al primo livello non avrà chiarito e comunicato obiettivi, valori, strade da percorrere.
In mezzo si collocherà chi sa dove sta andando ma non riesce a far convergere tutti nella stessa direzione, mentre al top (livello tre) troveremo le aziende in cui lavorano persone che conoscono bene gli obiettivi aziendali e sono motivate a fare del loro meglio per raggiungerli.

Nei prossimi giorni esamineremo gli altri principi della qualità e la loro applicazione.

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giovedì 30 novembre 2017

Adulti e inattivi, la crisi di mezza età del lavoro

(Fonte: "la Repubblica")

Quando  John  Maynard  Keynes prefigurò un futuro in cui gli uomini  avrebbero  avuto  sempre  più
tempo libero grazie allo sviluppo tecnologico, non immaginava che quel  futuro  avrebbe  assunto  le
sembianze di una crisi apocalittica. Un esercito crescente di persone è stato buttato fuori dal lavoro
negli ultimi decenni e non sembra fare un uso felice del proprio tempo libero. Certo, è una tendenza
degli  ultimi  decenni,  ma  quelle coorti di “maschi adulti” come li definiscono aridamente gli economisti, che non lavorano, non studiano e non si riqualificano, sono aumentate  vertiginosamente  anche di recente, a causa delle crisi economiche che si sono susseguite dal 2000. Negli stessi anni, cioè, in cui i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i populismi hanno cominciato a mangiarsi le democrazie occidentali.
Una  «decimazione»  come  la chiama  Nicholas  Eberstadt  nel suo libro Men at work. America’s Invisible Crisis, ignorata da tutte le statistiche ufficiali e dall’opinione pubblica. Anzi, la retorica comune, che guarda solo ai dati sulla disoccupazione e non a chi ha rinunciato persino a cercare un lavoro, racconta di un’economia statunitense ormai rombante che ha recuperato l’obiettivo della piena occupazione.
Diversi studi cominciano a diffondere invece i dati nascosti - sono ben sette milioni gli americani
inattivi nella fascia di età tra i 25 e i 35 anni e dieci milioni se si allarga il conto fino a 54 - e a metterli in relazione con l’acuirsi dell’odio nei confronti delle elite e la «resistibile  ascesa»  dei  populismi.  Eberstadt, che è economista all’American  Enterprise  Institute,  scrive che quella americana è ormai una crisi «morale e sociale». La «crescente incapacità dei maschi adulti di fungere da “capofamiglia” minaccia la famiglia» e alimenta sia la sfiducia nella politica sia la tentazione  di  abbracciare  le  sirene del populismo.
Vengono in mente anche fenomeni di disagio sempre più macroscopici oltreoceano, come l’accresciuta mortalità degli adulti bianchi e le epidemie di oppioidi. Il Nobel per l’economia Angus Deaton l’ha  definita  la  «crisi  del  sogno americano». In un paper ha analizzato la mortalità (di uomini e donne, in questo caso) tra il 1999 e il 2013, e ha scoperto che quella degli afroamericani e degli ispanici diminuisce,  mentre  quella  dei bianchi  è  drammaticamente  aumentata tra i 45 e i 55 anni, dunque per cause legate all’abuso di droghe, di farmaci, di alcol o perché suicidi.
Una “crisi di mezza età”, quella fotografata  dall’economista  di Princeton, che ormai investe due
generazioni e non può non avere pesanti riflessi politici.
Peraltro, gli studiosi che si occupano dei “Nilf”, gli inattivi, citano un solo altro Paese che ne nasconderebbe un tasso altrettanto allarmante: l’Italia. Sia Eberstadt, sia un altro importantissimo economista di Princeton, Alan Krueger, ex consigliere di Obama, mettono in guardia dalla grande eccezione italiana. Soltanto il nostro Paese ha un tasso di uomini che nei loro anni produttivi restano inchiodati a casa più alto di quello statunitense.
L’altro problema che si intuisce dagli studi di Angus Deaton riguarda l’uso del tempo libero. Krueger ha dimostrato che in un caso su due, in America, chi ha l’età per lavorare ma non lo fa prende regolarmente  degli  oppioidi.  Eberstadt, dal canto suo, cita studi che dimostrano come chi non fa nulla e vive di aiuti della famiglia o di espedienti o di magri sussidi, non sta affatto di più con i propri cari, né si impegna nel volontariato. Sta per lo più a casa e «gioca ai videogiochi o guarda in media cinque ore e mezza di tv al giorno».
Le crisi economiche e la digitalizzazione sono  il  combinato disposto di questa «catastrofe silenziosa»,  come  la  definisce  Eberstadt. Forse è il caso di cominciare a riflettere sulle conseguenze della Grande morìa del lavoro, come stanno facendo studiosi come il filosofo di Harvard Michael Sandel, che propongono da anni una riflessione sul reddito di cittadinanza.
Almeno, non nascondono la testa nella sabbia


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mercoledì 29 novembre 2017

Whistleblowing, tutte le incognite

(Fonte: "Affari&Finanza")

Se denuncio un illecito perpetrato in ufficio al mio superiore, posso essere sicuro che l’anonimato venga tutelato? A quali rischi vado incontro? E se poi emergesse che la questione sollevata non aveva basi solide? Sono alcuni dei quesiti che tanti lavoratori si pongono  questi  giorni, dopo  l’approvazione  a metà novembre della legge  sul  whistleblowing, ideata per consentire di
segnalare  il  comportamento illecito dei colleghi tutelando da eventuali ritorsioni l’autore della
segnalazione.  Per  Raffaella Quintana, avvocato,  la  nuova norma  è  da  accogliere positivamente, “considerata l’efficacia ai fini della  lotta  alla  corruzione che lo strumento ha già dimostrato  di  avere  in quei Paesi che lo hanno disciplinato già da tempo”. La norma prevede una tutela per il segnalante, la cui identità dovrà essere protetta e rimanere riservata; così come l’autore della segnalazione non potrà essere oggetto di atti di ritorsione o discriminatori. “La norma richiede espressamente la predisposizione di canali di segnalazione, anche informatici, che ne garantiscano
la  riservatezza”,  aggiunge  l’avvocato.
Inoltre stabilisce, a tutela di chi fa emergere le irregolarità dei colleghi, che lo stesso non possa essere sanzionato, demansionato o trasferito. “Se ad esempio il datore di lavoro decidesse di licenziare il dipendente segnalante, gli toccherebbe l’onere di dimostrare l’estraneità  alla  segnalazione”,  aggiunge Quinta. “Del resto, già in forza dei principi generali del nostro ordinamento, un licenziamento comminato in conseguenza di una denuncia di irregolarità
sarebbe illegittimo, e anzi radicalmente nullo, con diritto del lavoratore alla riammissione  in  servizio”,  aggiunge Damiana  Lesce,  (...). “Analogamente, sarebbe illegittimo un trasferimento e/o un mutamento  di  mansioni  conseguente  anch’esso  ad  un  atto  di  denuncia”.  Di nuovo, la legge da poco approvata “è apprezzabile laddove introduce anche sanzioni pecuniarie specifiche a carico
del responsabile dei predetti atti di discriminazione”, aggiunge.
Sabrina Galmarini, (...), aggiunge un altro elemento. “Nel settore pubblico è vietato rivelare l’identità del whistleblower sia nel procedimento disciplinare, sia in quello contabile e penale. Se la contestazione disciplinare dovesse risultare fondata, anche solo parzialmente, sulla segnalazione, l’identità potrà essere rivelata dietro consenso del segnalante, altrimenti la segnalazione resterà inutilizzabile”.
A  ulteriore  tutela  dell’identità  del whistleblower è previsto che l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) predisponga, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, le linee guida per la presentazione e la gestione delle segnalazioni.
Lesce solleva qualche dubbio sull’efficacia della norma con riguardo alla sua  applicazione  nel  settore  privato.
“Le aziende dovranno prevedere una procedura per la denuncia delle irregolarità. Il che significa che il tutto è rimesso alle  singole realtà aziendali  in un Paese in cui la grande maggioranza sono piccole e medie aziende. Così molto dipenderà anche dall’attività di sorveglianza di impulso del sindacato”.


Resta da chiarire un punto: cosa succede se la segnalazione si rivela infondata? “Non ci sono conseguenze, salvo che la segnalazione rivelatasi infondata sia stata fatta con dolo o colpa grave”, spiega Alessandro Musella, (...). “Quindi, per evitare rischi, bisogna fare segnalazioni fondate
su elementi di fatto precisi e concordanti di cui si abbia avuto conoscenza diretta ed evitare di usare la segnalazione come sfogo di situazioni di malessere all’interno dell’azienda, non basandosi su fatti oggettivi e precisi ma su episodi riferiti da altri o su semplici voci”.
Tirando  le  fila,  Andrea  Scarpellini (...) non condivide l’enfasi sulla portata innovativa della norma, “quasi fosse la soluzione definitiva agli atavici vizi di corruzione del nostro Paese”, anche se riconosce che “il merito di aver affrontato il tema e di aver introdotto una serie di norme a tutela del soggetto che effettua la segnalazione”.
Tutti poi concordano su un punto: per un giudizio più preciso occorrerà attendere l’applicazione pratica della legge.


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lunedì 27 novembre 2017

10 modifiche da fare al CV se non sei alle prime armi

"Business Insider" ci spiega come cambiare il curriculum se abbiamo già avuto un'esperienza nel campo del lavoro.

Buona lettura!

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venerdì 24 novembre 2017

I segreti del gioco di squadra

(Fonte: "la Repubblica")

Un po' come la nazionale di calcio, gli studenti italiani naufragano sullka capacità di fare squadra. E perdono ai modniali di problem solving collettivo. L'indagine Ocse-Pisa, oltre a valutare le competenze dei 15enni in lettura, matematica e scienze, ha misurato la loro capacità di risolvere insieme problemi quotidiani. Ne usciamo male: siamo sotto la media Ocse, trentesimi su 51 Paesi. Svetta Singapore, seguito da Giappone, Hong Kong e Corea del Sud. Con 478 punti ( la media è 500) siamo dietro anche al Nord Europa, a Francia e Spagna. Ultima è la Tunisia a 382.

I nostri studenti al secondo anno delle superiori — 3.500 coinvolti nel rapporto — apprezzano la collaborazione a parole, ma faticano a metterla in pratica. Fortissimi nel risolvere i problemi da soli, al punto da risultare sopra la media nell’indagine 2012, crollano nel gioco di squadra: il 35% non raggiunge il livello minimo stabilito dall’Ocse, solo il 4,2% si colloca al livello avanzato. Il motivo? «La nostra scuola trascura questa competenza, importante nella vita e per quel che sarà chiesto nel mondo del lavoro. In altri Paesi la didattica è più basata sul lavoro di gruppo», osserva Laura Palmerio, responsabile Invalsi delle indagini internazionali. Le ragazze vanno meglio dei maschi ( 489 punti contro 466). E il Paese è spaccato in due: il Nordest traina con 516, il Sud e le Isole si fermano a 454. Ancora una volta, una scuola a due velocità.

(...)
 

C’è un fraintendimento tra il lavorare in gruppo e lo stare bene in gruppo.
Non serve andare in pizzeria insieme, ci sono gruppi che lavorano bene senza rapporti amicali. Più che stare bene con gli altri, è necessario lavorare insieme in modo efficiente e per farlo serve prima di ogni altra cosa la condivisione del senso di responsabilità. Ciascuno deve avere chiaro che il suo primo compito è eseguire ciò che gli è stato chiesto, nel miglior modo possibile. Poi, che si tratti di una classe a scuola, di una squadra, o un’azienda, c’è il momento in cui ci si deve saper prendere una maggiore responsabilità, come il giocatore che deve tirare se si trova libero nella posizione migliore per tirare. Così, al contrario, si deve accettare di lasciare spazio al compagno che è in condizioni migliori, il che implica riconoscere che in quel momento c’è qualcuno migliore di te. Chi conosce il valore del lavoro di gruppo sa accettare le oservazioni positive nello stesso modo in cui accetta le critiche.
Tutto questo a noi italiani non viene facilissimo, non sono un sociologo e non so spiegarne le ragioni, però mi sembra che a tutti i livelli, dalla politica al vivere quotidiano, il concetto di responsabilità non sia il nostro punto forte. 

(...)

Spesso nei ragazzi manca la capacità di lavorare collettivamente su un progetto concreto. In generale vengono spronati poco a scuola in questo senso, anche se le cose stanno lentamente cambiando. (...) La chiave smbra che sia mettere le persone attorno a un progetto da realizzare. Può essere un robot programmabile, un videogame.
Siamo in una società connessa e oggi le aziende richiedono il saper lavorare con gli altri.
Insomma, a scuola forse dovrebbero insegnare che il compito in classe non solo va passato ma va soprattutto migliorato da chi lo ha ricevuto.

(...)

Questi risultati derivano da un impianto didattico metodologico del nostro sistema educativo improntato su una scuola ottocentesca e superata, che non prevede di sviluppare le capacità di lavorare in gruppo. Mi riferisco soprattutto a quelle che chiamiamo, con un termine inglese, soft skills e che sono la competenza di lavorare in gruppo, sintetizzare i lavori di un gruppo, parlare in pubblico, esporre le proprie idee in forma di dibattito. Non si tratta di intervenire sul cosa fare a scuola ma su come farlo, su come è possibile rendere più coinvolgente un certo argomento, come coinvolgere gli alunni, come dare attuazione all’enorme creatività dei nostri ragazzi. E intervenendo sul come, si interverrà sul cosa si apprende. Ci sono già molte scuole che sperimentano modelli innovativi ed è importante sostenerle per farle divenire sistema. Tutto questo non può essere lasciato al caso, richiede un percorso di formazione e un processo di profonda conoscenza di quello che si intende fare, perché le improvvisazioni non pagano e possono portare a risultati tutt’altro che postivi. I dirigenti scolastici dovrebbero perciò favorire e assistere i docenti più dinamici, che già attuano le sperimentazioni per sviluppare competenze trasversali nei nostri alunni.

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giovedì 23 novembre 2017

Senza fiducia non si innova

(Fonte: "L'Impresa")

Di chi ci possiamo fidare oggi? In un mondo senza certezze, attraversato da una sfiducia generalizzata nelle istituzioni locali, nazionali e sovranazionali (...), è sempre più difficile fare un’analisi puntuale sulla fiducia.
Ci ha provato Rachel Botsman (...). Rachel, docente all’università di Oxford, considerata ormai un’autorità globale sui temi della collaborazione e della fiducia, che sarà in Italia in occasione del World Business Forum (Wobi, 7-8 novembre, Milano) – al quale parteciperà in veste di speaker – ha concesso a “L’Impresa” un’intervista esclusiva che di seguito vi proponiamo e che ha il valore di fare il punto sulle sfumature geografiche, storiche e culturali caratterizzanti questo prezioso elemento. «Il modo nel quale mi piace definire la fiducia è una relazione sicura con l’ignoto. Ma la fiducia ha due nemici: la scarsità di informazioni e la mancanza di accountability (Ndr responsabilità e trasparenza)» postula Botsman.


Come e quando lei stessa, che è un’esperta di fiducia, sente di potersi fidare e affidare e in quali
occasioni generalmente la sua (o la nostra) fiducia precipita?

Quando uno o entrambi i suoi nemici entrano in gioco: la fiducia nelle istituzioni è precipitata a
causa della povertà di informazioni, della mancanza di trasparenza sulle decisioni prese e sui processi, di un linguaggio non aperto e un approccio alla comunicazione orientato più che altro allo spin doctoring (Ndr raggiro, manipolazione delle informazioni). Ma anche per via di una generale mancanza di assunzione di responsabilità, ossia di accountability non solo quando le cose vanno bene, ma anche quando le cose vanno male. Perciò non meravigliamoci affatto se tutte le ricerche sulla fiducia pubblica (da quella di Pew a quella di Ipsos) registrano una generale situazione di crisi: in questo caso stiamo parlando di un tipo specifico di crisi di fiducia, la fiducia istituzionale nelle banche, nei mass media, nei governi locali e globali, nelle multinazionali.
 

(...)

Io credo che il crollo della fiducia abbia generato un vuoto, ma penso anche che la fiducia sia come l’energia, non si può distruggere ma solo trasformare in altre forme, io direi “redistribuire” ed è proprio questo processo di redistribuzione che mi attira e mi affascina, che ho studiato e cercato di definire (...)

Come scrive nel suo libro, lei pensa che stiamo vivendo nell’era della fiducia distribuita.
È ottimista rispetto a questo?

In effetti ci sono parecchi aspetti per essere ottimisti. Nel tempo che stiamo vivendo abbiamo l’occasione di usare la tecnologia per ridisegnare i sistemi e crearne di più inclusivi, trasparenti e corretti, in modo da dar voce anche agli ultimi e a coloro che non l’avevano nell’epoca della fiducia istituzionale. Ma il mio ottimismo non può prescindere da importanti caveat. Le conseguenze di una redistribuzione della fiducia sono immense, sia eccitanti sia spaventose. Posto che la fiducia sia
l’asset più importante di una società, dobbiamo essere cauti sulla sua redistribuzione per evitare di spostarla da istituzioni che ne hanno tenuto il monopolio troppo a lungo a politici che cavalcano cinicamente le onde del dissenso collettivo per loro puro interesse.
 

Quando diciamo che i cittadini globali non si fidano più, intendiamo una sfiducia generalizzata
verso le élites oppure una sfiducia più puntuale verso alcune istituzioni rappresentative del mercato e delle democrazie?

Direi entrambe le cose. Non credo francamente che facciano distinzione tra istituzioni o élites. Penso
piuttosto che le masse ritengano che il potere sia nelle mani di pochi privilegiati e che tutto questo
non sia più tollerabile. Nel mio libro parlo di un cambio di fiducia da verticale a orizzontale, le
persone oggi tendono a fidarsi dei pari: dei colleghi piuttosto che dei direttori generali; di altri cittadini piuttosto che di autorità preposte; di vicini di casa piuttosto che di governanti locali; dei pettegolezzi più che della voce un tempo autorevole dei giornalisti; degli amici di Facebook più che degli esperti, ma si fidano di più, in realtà, non di meno.


Insomma la fiducia ha solo cambiato direzione. Significa che non abbiamo più bisogno degli esperti e che, attraverso le piattaforme digitali, siamo ormai in grado di avere accesso a tutto ciò che ci serve direttamente?
Io credo che abbiamo certamente ancora bisogno di esperti, però, come le istituzioni, anche gli esperti devono adattarsi alla nuova era della fiducia distribuita, cambiando essi stessi approccio sia nella comunicazione sia nel sostegno alle scelte collettive.


Costruire relazioni di fiducia non è facile oggi neanche per chi è alla guida di un’impresa, non soltanto per chi è alla guida di un’istituzione, un sindacato o un partito politico. Nel suo libro c’è un esempio interessante di costruzione di relazioni di fiducia nella business community cinese ancora caratterizzata dai legami familiari. Guardando all’Italia, che cosa deve fare un imprenditore o un business leader per costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i suoi portatori d’interesse?
Credo che un imprenditore italiano necessiti oggi di aderire agli stessi percorsi di costruzione della fiducia che hanno caratterizzato tutte le culture in tutte le epoche storiche, anche quando la fiducia era, per così dire, più localizzabile e localizzata.
Ci sono quattro caratteristiche generali sulle quali vorrei focalizzare l’attenzione, che devono essere messe in campo per costruire relazioni di fiducia: le competenze, l’integrità, l’affidabilità e la generosità (ossia il grado di cura). Tutte le relazioni basate sulla fiducia reciproca hanno bisogno di questi quattro elementi chiave. Più vengono potenziate queste pillole, più i clienti e gli stakeholder ne saranno attratti.


La fiducia è un elemento fondamentale soprattutto per le aziende innovative: perché è così importante per quei clienti?
Nelle ricerche che ho portato avanti per il mio libro, clienti e aziende hanno identificato, in particolare, tre ragioni fondamentali per le quali la fiducia è così importante: primo, è essenziale per la reputazione. Secondo, la fiducia è quella che dà ai clienti il coraggio di prendersi un rischio su nuovi prodotti o nuovi servizi; terzo, è l’elemento che dà la certezza che l’azienda farà la cosa giusta anche quando le cose vanno male. 


E perché è così importante anche per i dipendenti?
Non dobbiamo dimenticare quanto la fiducia sia un elemento prioritario all’interno dei team e delle aziende affinché l’innovazione sia portata avanti. È proprio la fiducia a spingere i processi innovativi che altrimenti non procederebbero affatto. Perché è la fiducia a spingere le persone dal conosciuto all’ignoto, superando il gap dell’incertezza e della discontinuità con il passato di cui tutti abbiamo paura. Nelle aziende con culture a basso tasso di fiducia i dipendenti non si sentono a loro agio
prendendosi un rischio quando non c’è certezza sui risultati. Questo genere di aziende tende a rimanere impantanata all’inizio di ogni processo di innovazione. Per contro, quelle aziende ad alto tasso di fiducia tra i dipendenti legittimano le persone, in qualunque ruolo, a nuotare nel mare dell’incertezza senza averne alcuna paura e questo genera valore.
Fiducia, rischio e innovazione sono perciò intrinsecamente legati.


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