lunedì 15 aprile 2019

Lavoratori contenti e motivati? Ecco perché le società li cercano

(Fonte: "Il Fatto Quotidiano")

Supporre che i lavoratori felici siano migliori e più produttivi è un mantra universalmente riconosciuto nei circoli aziendali e di affari.
Nessuno si è sorpreso quando, all’ultimo Forum economico mondiale a Davos, il CEO di Alibaba Jack Ma ha suggerito che le persone ideali da assumere non sono necessariamente quelle più
qualificate bensì quelle più “positive”, “sempre ottimiste” e “che non si lamentano" . Dal Forum è emerso chiaramente che la felicità sul posto di lavoro è ormai un obiettivo primario per le aziende e che la teoria per cui i dipendenti felici sarebbero la chiave del successo è considerata quasi come una verità auto-evidente. Ma è proprio così?


L’assunto secondo cui i dipendenti felici sono più produttivi e, in generale, migliori, è tutto da dimostrare: la storica ossessione per l’individuazione di una correlazione diretta tra felicità e
rendimento non ha ancora portato a risultati certi e, anzi, il rapporto tra queste variabili è piuttosto debole.
Certo, l’enfasi su positività e ottimismo si sposa bene con la tendenza delle aziende a neutralizzare il malcontento e a proibire l’espressione della negatività, ma sostenere che la positività sia sempre
proficua e vantaggiosa è quantomeno fuorviante. Secondo alcune ricerche, un’atmosfera positiva può
incentivare gli individui a intraprendere attività impegnative, ma anche indurli a essere meno perseveranti di fronte alle difficoltà, a fare scelte meno accurate e a correre rischi inutili. In certe situazioni, poi, gli atteggiamenti positivi possono incrementare il disinteresse emotivo e disincentivare la cura e la solidarietà verso gli altri. È stato anche dimostrato che, pur favorendo l’empatia soggettiva, la positività è spesso associata a un calo dell’empatia oggettiva nella prassi e a
un aumento degli errori di giudizio o degli stereotipi nella spiegazione dei comportamenti propri e altrui.


L’ottimismo certamente accresce la motivazione personale, pregustando i futuri risultati, ma aumenta anche il rischio di depressione quando tali aspettative non sono soddisfatte o si devono fronteggiare eventi avversi e inaspettati. I lavoratori felici, benché più propensi a farsi coinvolgere nella cultura aziendale, sarebbero inoltre più suscettibili di sviluppare una fragilità emotiva arrivando a dipendere psicologicamente dal riconoscimento e dalle rassicurazioni da parte di superiori e colleghi, sentendosi abbandonati e delusi qualora non ricevano le risposte emotive attese.
Nonostante quindi non sia provato che la felicità sul luogo di lavoro è associata ai benefici che esperti e aziende dichiarano, in tutto il mondo le società investono capitali crescenti in servizi
di consulenza, seminari motivazionali, corsi di consapevolezza e una vasta gamma di professionisti dello sviluppo personale ed esperti di felicità. Perché?
Anzitutto,  si ritiene che i dipendenti più felici siano non solo più produttivi ma anche meno costosi. Visto che la felicità è stata associata a una migliore salute fisica e mentale (ma non è un dato certo), le aziende sono disposte a tutto pur di ridurre le spese legate all’offerta di servizi sanitari e accesso alle cure mediche, così come quelle legate ai congedi per malattia e all’assenteismo: Gallup stima che ogni anno i dipendenti malati costino alle imprese americane 153 miliardi di dollari. Poiché, inoltre, una maggiore felicità è solitamente connessa a livelli più alti di dedizione nel lavoro, le società cercano di tagliare i costi del turnover del personale, inclusi quelli di compensazione e reclutamento  – che secondo Gallup, negli Usa si aggirano tra i 438 mila e i 4 milioni di dollari
all’anno per una ditta con 100 impiegati.
Un secondo motivo, più basilare, che spiega perché le compagnie sono interessate alla felicità sul luogo di lavoro è che quest’ultima si è rivelata un’utile strategia per il controllo dei lavoratori e la
loro sottomissione alla cultura aziendale. È stata molto utile, ad esempio, per scaricare le responsabilità verso il basso, rendendo i dipendenti maggiormente imputabili per i propri successi e fallimenti come per quelli dell’azienda. Si è dimostrata anche comoda per poter esigere più impegno e rendimento, spesso in cambio di ricompense minori; per minimizzare l’importanza delle condizioni oggettive di lavoro, inclusi i salari, in rapporto alla soddisfazione; per incentivare i dipendenti a identificarsi con i valori dell’organizzazione e a conformarsi volontariamente alle regole aziendali. Cosa ancor più importante, la felicità sul luogo di lavoro ha contribuito a rendere l’autosfruttamento più tollerabile e persino accettabile: dai lavoratori, oggi, ci si aspetta non solo che si adattino con flessibilità alle richieste ed esigenze delle aziende, in continua evoluzione; che gestiscano da soli situazioni difficili e carichi crescenti di lavoro; e che assumano un ruolo più attivo, creativo e autocritico nell’adempimento dei loro compiti. Ci si aspetta persino che amino ciò che fanno e lo considerino non una necessità, bensì una fonte di piacere e realizzazione personale.


La promozione  della felicità in ufficio, insomma, sembra aver giovato soprattutto alle aziende, il che non significa che queste non si prendano cura dei propri dipendenti, ma dimostra come sia
un'ingenuità ritenere che i meccanismi di controllo siano spariti dalla sfera organizzativa: sono stati semplicemente interiorizzati. Attenzione quindi: se di primo acchito l’idea di rendere i lavoratori più felici può sembrare uno scenario vincente per tutti, società e dipendenti, in realtà forse non sono questi ultimi i veri beneficiari della promozione della felicità.


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