venerdì 23 agosto 2019

I capitalisti scoprono l'etica

("Il Fatto Quotidiano")

Attorno al think tank “Business Round table” siedono i top manager di un paio di centinaia di affermate multinazionali statunitensi tra cui JP Morgan Chase, Apple, AT&T, Amazon, General Motors, BlackRock e così via. Ogni anno, dal 1978, l’associazione stila un rapporto sui principi che dovrebbero presiedere una avveduta gestione aziendale. Quest’anno, il loro rapporto sta facendo scalpore, poiché invita le imprese a non considerare più il solo profitto come lo scopo principale della loro attività, ma di includere anche la “protezione dell’ambiente” e la “dignità e il rispetto del lavoro”. Gli azionisti – dice il rapporto – sono solo uno dei cinque stakeholders delle imprese, assieme ai consumatori, ai lavoratori, ai fornitori e alle comunità locali. Quanto basta al Financial Times (e agli altri commentatori di casa nostra) per proclamare la fine delle teorie economiche del capitalismo classico secondo le quali – Milt on Friedman in primis – affermano che la responsabilità sociale delle imprese deve fermarsi all'aumentare i profitti. Il resto segue da solo grazie agli automatismi impersonali del mercato. L’evoluzione delle posizioni del pensatoio delle corporation americane esprimerebbe la grande capacità di autoriforma del capitalismo, di adattamento alle esigenze dello sviluppo umano. Mohamed El-Erian, chief economic adviser di Allianz, ha così commentato: “C’è una svolta etica importante e riflette un consenso emergente attorno all’importanza di un capitalismo più inclusivo”. Altri, invece, – come Larry Summers, già ministro con l’Amministrazione Clinton – sono più scettici sulle vocazioni solidaristiche delle grandi imprese di capitale e temono che la retorica del Roundtable faccia parte di una strategia per neutralizzare le improcrastinabili riforme fiscali e regolamentazioni economiche. In altre parole, il grande capitalismo, capendo che le contraddizioni sociali e le crisi ambientali da esso stesso innescate non possono più essere negate, si accinge a presentarsi come il soggetto capace di risolverle, senza interventi esterni pubblici statali. Le inedite attenzioni sociali e ambientali delle grandi corporation non risponderebbero nemmeno a una operazione di marketing (green washing) per rincorrere le crescenti sensibilità dei consumatori sempre più attenti alla sostenibilità (vedi il grande boom di tutte le forme di certificazione bio ed etiche), ma a un vero e proprio incameramento degli obiettivi sociali e ambientali (un tempo materia delle politiche pubbliche dello sviluppo) nelle strategie imprenditoriali. Non è forse già così per gran parte delle politiche sociali e della cooperazione allo sviluppo? Non sono già ora le Fondazioni bancarie i principali finanziatori dei servizi di welfare alle persone lasciati al terzo settore e non sono le fondazioni filantropiche create dai super ricchi come Bill e Melinda Gates a determinare il tipo di “aiuti” da elargire ai Paesi più impoveriti? Insomma, la “politicizzazione” del management non sembra mirare a riformare il capitalismo umanizzandolo, ma a capitalizzare il bios, a trasformare in valore di scambio anche i buoni sentimenti.

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