L’ estate sta finendo, le vacanze pure. E se il vostro capo vi
proponesse di riprendere a lavorare, ma senza tornare in ufficio? I
telelavoratori, meglio smart workers, sono ancora pochini. Ma tutti
felici. Manuela Manes, 45 anni, nata in provincia di Pordenone
e da una vita a Milano, da 7 è pioniera dello smart working per Siemens
Italia e pittrice. Non sempre in quest’ordine. Il quartier generale
della multinazionale tedesca è un palazzone di vetro nel quartiere
Adriano, periferia nord est del capoluogo lombardo.
Gli armadi sono quasi spariti, le scrivanie resistono ma sono
condivise. Scordatevi la foto di famiglia accanto al pc. E scordatevi
pure il pc.
Intranet e l’app per i rifiuti
Con l’accordo siglato con i sindacati a giugno dello scorso anno tutti i
2.400 collaboratori di Siemens sono diventati «smart». Si viaggia con
il portatile, che si connette con una schedina all’intranet aziendale.
Dal divano di casa oppure dal tavolino di un
bar, poco cambia e a nessuno interessa. Se c’è bisogno di un posto
riservato per incontrare i clienti o un team di lavoro si prenota una
sala. Con un’app, proprio come il servizio per ritirare la raccolta
differenziata, quello di bike sharing oppure la palestra.
Il che vuol dire che non si lavora per orari, ma per obiettivi. I
dipendenti coinvolti nel progetto pilota nel 2011 erano 260, tra questi
c’è Manuela. Lei lavora per il marketing e racconta così la sua
giornata: «Mi alzo presto, ma non esiste né l’ansia del
traffico né quella del cartellino. Non perdo più tempo, perché
ottimizzo i miei tempi. Nessuna gara a chi esce dall’ufficio per ultimo e
fa bella figura con il capo».
Dicono che con lo smartworking la produttività aumenta. «Non so se
esistano dei parametri scientifici, ma quando si è felici si lavora
meglio. Non tornerei mai indietro. È una condizione ideale, un beneficio
sia per me che per l’azienda».
La corsa delle grandi aziende
La legge 81 del maggio 2017 regola e definisce il lavoro agile, da
intendersi come «modalità di esecuzione del rapporto del lavoro
subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di
organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi
vincoli di orario o di luogo di lavoro». C’è bisogno di un accordo -
collettivo oppure individuale - per regolare tempi di riposo e diritto
alla disconnessione, oltre alle modalità di recesso, che deve sempre
essere possibile. Il principio è quello della volontarietà.
Insomma se il lavoratore non è d’accordo, non se ne fa nulla. Le più
determinate a cogliere l’opportunità di eliminare il posto fisso, inteso
non come contratto a tempo indeterminato ma come scrivania, sono le
grandi aziende.
A testimoniarlo è l’identikit del lavoratore agile: uomo, età media 40
anni, dipendente di una grande impresa del Nord Italia. Secondo i dati
raccolti dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, dopo
la legge 81 del 2012 dell’ex ministro del
Lavoro Giuliano Poletti gli smart workers sono aumentati in un anno del
60%. Non si tratta solo di tagliare i tempi del trasporto e della
macchinetta del caffè, ma ripensare il rapporto di lavoro subordinato.
«Ci vogliono fiducia e senso di responsabilità
- conclude Manuela, immagine social con i tacchi sulla scrivania, poco
istituzionale ma che rende bene l’idea -. Bisogna saper mantenere i
contatti con i colleghi anche senza vederli ogni giorno. Poi chi è
assunto da poco tenderà a stare di più in azienda,
ma sono sempre i risultati a fare la differenza. Ecco perché conta
molto il cambio di mentalità dei manager».
Oltre a Siemens, ci sono Nestlè, Intesa San Paolo, Axa, Enel, Ferrovie e
la Ferrero, che dopo i primi sei mesi di progetto pilota ha deciso di
triplicare. Da un’indagine interna su dipendenti e manager della
multinazionale piemontese coinvolti nello smart working
è emerso che lavorare un giorno a settimana “in agilità” migliora la
capacità di organizzare il tempo e il rispetto delle scadenze. Di più,
si registra una crescita della sensazione di fiducia percepita dal
dipendente e un miglioramento della propensione ai
risultati. Tutto nell’ottica di un miglior equilibrio tra lavoro e vita
privata.
Solo una su dieci
«In Italia lo smart working coinvolge circa il 5% dei lavoratori, ma con
una distribuzione diversa a seconda del tipo di impresa. Con un
campione pesato per essere rappresentativo, siamo arrivati a stimare
305mila persone – spiega Fiorella Crespi, ricercatrice
del Politecnico -. Le iniziative che hanno portato a un ripensamento
complessivo dell’organizzazione interessano circa il 9% delle grandi
aziende». Meno di una su dieci. Pochine, anche se stanno recuperando in
fretta il tempo perso perché agevolate da una
cultura manageriale meno legata al controllo visivo. Altro grande
incentivo: la capacità di conciliare tempi di vita e di lavoro è anche
un punto di forza e di attrazione per i giovani talenti.
La musica cambia per le piccole e medie imprese, per cui «è ancora molto
forte la percezione che sia una normativa che non si può applicare alla
loro realtà», conclude Crespi.
Ed è un peccato. Come spiega il rapporto pubblicato a luglio dello
scorso anno da Eurofound, agenzia europea per il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro, trovare nuove forme di work-life balance
è anche una strategia per combattere il gender gap
nell’occupazione e aiutare i care giver, cioè «coloro che si prendono
cura», dei figli o dei parenti più anziani e in difficoltà. Con il
telelavoro vincono tutti. Non ci sono costi da sostenere per il
pubblico, i privati possono tagliare diverse spese fisse
e aumenta pure la produttività.
Gli ultimi in Europa
Tutto il contrario di quel che accade a chi è obbligato a timbrare il
cartellino. Secondo la ricerca pubblicata dall’European Labour Force, la
differenza delle ore lavorate ogni settimana tra uomo e donna aumenta
quando c’è un bimbo con meno di dodici anni.
Per lei scende da 35 a 30, per lui invece aumenta anche se di poco: da
39 a più di 40. Attenzione però. Il maggior scarto tra quanto si
vorrebbe lavorare e quanto si lavora è per gli uomini proprio in questa
fase. Il telelavoro, il lavoro agile o in mobilità,
nelle sue diverse forme può essere una buona soluzione per le esigenze
di cura di tutti. Mamme, e anche papà. Secondo i ricercatori in Europa
il 60% dei lavoratori deve rispettare orari rigidi, il 30% può contare
su «una discreta flessibilità in alcuni momenti
della giornata».
La media europea di chi - in diverse forme - non è obbligato a lavorare
da casa è del 17 %. Ai primi posti - con percentuali che superano il 30%
- ci sono Danimarca, Svezia e Regno Unito. Ultimi in classifica con
meno del 10%, preceduti da Grecia, Repubblica
Ceca e Polonia, ci siamo noi.
Il ritardo della Pa
Il telelavoro è ancora poco - anzi molto poco - diffuso nella pubblica
amministrazione. Secondo la legge Madia del 2015, l’obiettivo da
raggiungere nei primi sei mesi del 2018 era del 10% dei dipendenti
pubblici - circa 300mila persone - ma siamo poco sopra
lo 0,3 per cento, il che significa 3mila lavoratori nelle
amministrazioni tra il Nord e la Capitale.
Secondo il rapporto realizzato da Marina Penna, ricercatrice
dell’agenzia Enea, l’inizio del cronico ritardo sta nella violazione di
un obbligo introdotto nel 2012 dal Decreto Crescita del governo Monti.
Per pianificare il ricorso al telelavoro, bisognava prima
di tutto individuare le attività non telelavorabili. Anche se erano
previste delle sanzioni per chi non avesse provveduto, non se n’è mai
fatto nulla.
C’è da aggiungere che regole e prassi escludono i dirigenti e chi ha
contratti diversi da quello a tempo pieno e indeterminato e che l’età
media dei dipendenti pubblici è alta. L’Italia infatti ha il più basso
tasso percentuale di dipendenti sotto i 35 anni
- il 2% contro il 18% dei paesi Ocse - e la più alta sopra i 54 anni,
45% contro il 22%.
Si aggiungono la scarsità di risorse per il necessario rinnovamento dei
mezzi tecnologici e la complicata disciplina sugli infortuni. Le
iniziative, pure virtuose, ci sono. Apripista le province di Trento e
Bolzano, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Per
queste amministrazioni, l’obiettivo del 10 % non è poi così remoto. Tra
gli enti di ricerca, spicca l’Istat, poi ci sono il Ministro dello
Sviluppo Economico e della Salute. Ma a Sud di Roma di telelavoro non
c’è ancora traccia.
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