venerdì 9 novembre 2018

Quelli che il lavoro lo trovano all’happy hour

(Fonte: "la Repubblica")

Colazioni per scambiarsi contatti, pranzi a tema per fare rete. Ecco come cambia il modo di cercare un impiego (e i clienti) in un mondo di professionisti sempre più fluidi e nomadi.

Ogni mattina, in Italia, un professionista si sveglia e sa che dovrà correre velocissimo a colazione. Lì, in un bar alla moda o al buffet di un quattro stelle, incontrerà altri professionisti di ogni età con un caffè, una spremuta e la speranza non troppo vaga di trovare nuovi clienti o un lavoro. 

Benvenuti nel mondo in cui il curriculum è un reperto archeologico, i confini tra mestieri scompaiono e il tempo libero si mischia con quello dell’ufficio (per chi ancora ce l’ha o lo sogna). Un mondo in cui il lavoro si cerca tra uno spritz e un bicchiere di rosso, scambiandosi contatti e facendo gli incontri giusti al tavolo di un bistrot, che sempre di più, del resto, è l’ufficio dei nuovi globetrotter, liberi professionisti o professionisti liberi, capaci di unire competenze lontane e diverse.

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Da tempo, i nuovi professionisti - digitali e non, millennial o più grandi - hanno preso a costruire relazioni di lavoro in contesti che una volta avremmo considerato improbabili, a meno di non scomodare l’Oscar Wilde della massima «i migliori affari si fanno a tavola». Colazioni a tema, happy hour, cene. Che si chiamino Aperijob, AperiHub o Fiordirisorse, l’obiettivo è riunire persone che dallo scambio di conoscenze possano portare a casa un contatto cruciale. 

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In Italia, più che per questi esempi virtuosi, il networking è passato alla cronaca per la sortita di un ex ministro secondo il quale « nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula». «Quella frase è infelice perché suggerisce l’idea che basta avere i contatti giusti e zero competenze per farcela » spiega Francesca Parviero, learning experience designer. « Invece nel networking le skill sono essenziali: fare rete vuol dire riuscire ad avere perché si è capaci di dare » . 

Negli Stati Uniti, patria dei network internazionali più strutturati, c’è chi ha iniziato a vedere il fenomeno in una chiave più critica e a mettere in guardia. Adam Grant, professore alla Wharton School della Pennsylvania e autore di Give and Take, ha scritto di recente sul New York Times che il networking è sovrastimato: «È vero che fare rete può aiutare a fare grandi cose, ma è vero soprattutto il contrario: è fare grandi cose che aiuta ad avere un buon network». La ricetta migliore resta allora quella che all’happy hour unisce il confronto di competenze vere.

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Negli anni 80, se chiedevi aiuto a un professionista, ti avrebbe detto: penso a tutto io. Mai qualcuno ti avrebbe messo in contatto con un collega gettandogli addosso una luce ancorché riflessa. Il networking invece accende questa magia. Dagli anni 80 si può uscire vivi, allora. Anche con un prosecco in mano.

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