lunedì 25 giugno 2018

Laurearsi conviene, ma il posto fisso non c’è

(Fonte: "Il Corriere della Sera")

Laurearsi conviene

Presentarsi sul mercato del lavoro con un titolo in tasca conviene. Ancora, sempre: ci sono maggiori probabilità di trovare lavoro, più velocemente e si guadagna di più («il 40% più di chi è diplomato», ha commentato il presidente del Consorzio, Ivano Dionigi). Però una laurea non assicura il posto fisso. E forse neanche il «posto dei sogni». L’ultimo rapporto su «Profilo e condizione occupazionale dei laureati» che il Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea ha presentato a Torino - alla presenza di Gaetano Manfredi, rettore dell’Università Federico II di Napoli e di Gianmaria Ajani, rettore dell’ateneo torinese - in occasione del Convegno «Mutamenti strutturali, laureati e posti di lavoro», unisce a qualche considerazione positiva sull’andamento delle immatricolazioni, conclusioni sconfortanti per quanto riguarda gli sbocchi occupazionali. Se infatti migliorano i tassi di occupazione misurati a un anno e a cinque anni dalla laurea, sono anche in aumento i contratti «non standard», mentre diminuisce il lavoro a tempo indeterminato. Le retribuzioni restano sostanzialmente al palo: un anno dopo, 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. «Ci sono più immatricolazioni e più occupazione, ma resta un forte divario tra Nord e Sud del Paese ed è forte il problema delle retribuzioni, tra le più basse dei Paesi Ocse», ha sottolineato Manfredi. E il livello di «efficacia» del titolo, cioè la soddisfazione per gli studi fatti «migliora, ma il dato resta basso per oltre la metà dei laureati», dice Dionigi. Il voto oscilla tra il 7,3 degli avvocati e l’8,3 dei dentisti.

L’università archivia la crisi

I due Rapporti - Profilo dei laureati e Condizione occupazionale - hanno preso in esame rispettivamente 276mila laureati di 74 università, nel 2017 (157mila di primo livello, 81mila magistrali biennali e 36mila magistrali a ciclo unico) e 630mila laureati di primo e secondo livello degli anni 2016, 2014 e 2012 contattati, rispettivamente, a uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo. Per quanto riguarda le immatricolazioni, una conferma: gli atenei italiani stanno per mettersi alle spalle la crisi che ha visto una contrazione del 14,1% dal 2003/04 al 2016/17: 50mila iscritti in meno. Il Paese fatica quindi ad abbandonare il penultimo posto in Europa per numero di laureati, ma inizia a risalire la china: dal 2014 si registra una ripresa, che ha toccato il picco più alto nel 2016/17: +7,7% di iscritti rispetto al 2013/14. 

Studenti con la valigia

Ragazzi che «migrano» seguendo il corridoio che va dal Sud Italia al Centro-Nord: uno su quattro, dal Sud Italia, opta per atenei a latitudini più settentrionali. Mentre la quasi totalità degli studenti del Nord rimane nella medesima area geografica. Magari cambiando provincia: una «mobilità limitata» che riguarda quasi metà delle matricole. La continua la migrazione dal Sud al Nord, secondo Dionigi potrebbe essere definita «un bene», se non fosse che «non c’è movimento inverso verso il Sud». A spostarsi - dice il rapporto - sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1% di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato, contro il 28,3% di chi è rimasto nella medesima ripartizione geografica. Analoghe tendenze si rilevano analizzando il percorso scolastico precedente: chi ha cambiato ripartizione geografica per motivi di studio (o ha conseguito il diploma all’estero) aveva ottenuto un voto medio di diploma 83,0/100 contro 80,8/100 di chi è rimasto nella medesima ripartizione geografica. A spostarsi sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1% di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato. Poco propensi ad andare all’estero per studiare, gli studenti italiani sono più inclini a cercare lavoro fuori dai confini una volta conseguito il titolo. Facile indovinare le ragioni: più opportunità e retribuzioni migliori. Nel dettaglio, la disponibilità a lavorare in un altro Stato europeo è dichiarata dal 48,4% dei laureati (era il 49,8% nel 2016 e il 38,5% nel 2007); il 33,7% è addirittura pronto a trasferirsi in un altro continente. Si rileva una diffusa disponibilità ad effettuare trasferte anche frequenti (27,3%), ma anche a trasferire la propria residenza (50,8%). Solo il 2,8% non è disponibile a trasferte.

Pochi stranieri in Italia

Lo studio evidenzia una delle lacune del nostro sistema: la bassa percentuale di studenti internazionali rispetto a quelli italiani: il 3,5% (in tutto 9.532 laureati, nel 2017, negli atenei che aderiscono al consorzio AlmaLaurea), con una punta del 4,6% nei corsi magistrali biennali e con valori attorno al 3% tra i laureati di primo livello (3,1%) e fra i magistrali a ciclo unico (2,5%). Una quota molto modesta, cresciuta di un soffio negli ultimi dieci anni (erano il 2,6% nel 2007). La maggior parte dei laureati stranieri (57,1%) è arrivata in Italia dopo il diploma di scuola secondaria superiore. Cresce però la quota di giovani stranieri che provengono da famiglie già residenti in Italia. Per quanto riguarda la provenienza, il 52,1% dei laureati esteri proviene dall’Europa: il 12,9% è cittadino albanese e l’11,2% rumeno. Il 24,3% proviene dall’Asia e dall’Oceania. Nel dettaglio: il 9,2% dalla Cina (quota che è cresciuta notevolmente negli ultimi anni: era il 2,9% nel 2009) e il 3,3% dall’Iran. Il 14,3% proviene dal continente africano (specie dal Camerun, 4,4% e dai Paesi del Maghreb, 3,8%) e un 9,4% dalle Americhe (in particolare dal Perù, 1,8%). I flussi di stranieri si indirizzano soprattutto verso specifici ambiti disciplinari: linguistico, architettura, economico-statistico, politico-sociale e ingegneria. All’opposto, in due gruppi disciplinari (educazione fisica e psicologico) i laureati esteri sono meno del 2% del totale. Secondo i dati Ocse, l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi OCSE per attrattività del sistema universitario di secondo e terzo livello: su cento studenti «mobili», 2,6 scelgono l’Italia. Il nostro Paese è preceduto da Stati Uniti (26,3%), Regno Unito (15,0%), Francia (10,5%), Germania (9,8%), Australia (8,3%), Giappone (2,9%) e Canada (2,7%).

Il ruolo della famiglia

L’università italiana non funziona da ascensore sociale: fra i laureati, infatti, si rileva una sovra-rappresentazione dei giovani provenienti da ambienti familiari favoriti dal punto di vista socio-culturale. I laureati con almeno un genitore in possesso di un titolo universitario sono il 29,5%. E il contesto culturale e sociale della famiglia influisce anche sulla scelta del corso di laurea, con prevalenza di corsi di laurea magistrale a ciclo unico tra i laureati provenienti da famiglie con livelli di istruzione più elevati. Per quanto riguarda il background formativo dei laureati del 2017, si registra una prevalenza dei diplomi liceali (67,2%) e in particolare del diploma scientifico (43,9%) e classico (16,3%), seguono con il 19,0% il diploma tecnico e il diploma pedagogico-sociale (8,1%); residuale risulta l’incidenza dei diplomi professionali (1,8%), dell’istruzione artistica (1,6%) e dei titoli esteri (2,2%).

La carriera

L’età media alla laurea per il complesso dei laureati del 2017 è pari a 26 anni (in calo rispetto alla situazione pre-riforma). Migliora la regolarità negli studi: se nel 2007 concludeva gli studi in corso il 37,9% dei laureati, nel 2017 la percentuale raggiunge il 51,1%. Dimezzati i fuoricorso (9,8%) rispetto a dieci anni fa. Il voto medio di laurea è sostanzialmente immutato negli ultimi anni ed è pari a 102,7 su 110.

Il tirocinio aiuta

L’11,1% dei laureati del 2017 ha fatto esperienze di studio all’estero (era il 7,9% nel 2007). Programmi Erasmus e altre esperienze riconosciute dal corso di studi, stage, tirocini curricolari, lavoretti tra un esame e l’altro, oltre a rappresentare esperienze positive (è il giudizio del 69,5%), aumentano le chance di trovare lavoro. «Nello specifico - si legge nel rapporto - le esperienze di studio all’estero con programmi europei aumentano le chance occupazionali del 14,0%, i tirocini del 20,6% e aver lavorato occasionalmente durante gli studi del 53%. Inoltre, trascorrere un periodo di studio all’estero o svolgere un tirocinio curriculare, a parità di condizioni, non solo non comporta ritardi nella conclusione del percorso universitario, ma influenza positivamente la probabilità di ottenere elevate votazioni alla laurea».

Contratti atipici

Le note più negative sono contenute nel rapporto sulla Condizione occupazionale dei laureati: migliorano ancora i tassi di occupazione sia un anno che a cinque anni dalla laurea (+2,9% per i laureati di primo livello e +3,1% per i biennali). Non si è però ancora colmata la contrazione tra il 2008 e il 2013 (-17,1% per i primi; -10,8% per i secondi). Resta al palo la retribuzione: una volta trovato lavoro, il salario mensile a un anno è, in media, 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. A cinque anni, il tasso di occupazione è dell’87,8% tra i laureati di primo livello e dell’87,3% tra i magistrali. Sono però in aumento i contratti «non standard» o a tempo determinato (+8,1 punti per i laureati di primo livello e +7,1 per quelli magistrali biennali), mentre cala il lavoro a tempo indeterminato (rispettivamente, -12,4 e -0,4 punti percentuali). Aumentano i giovani che si «inventano» un lavoro autonomo, dopo una laurea di primo livello (+2,3 punti), diminuiscono gli «autonomi» dopo il biennio magistrale (-1,7%). A cinque anni dalla laurea, la retribuzione mensile netta è sostanzialmente invariata rispetto allo scorso anno: 1.359 euro per i laureati di primo livello e di 1.428 euro per i laureati magistrali biennali.

Contenti a metà

Luci e ombre anche sulla soddisfazione per quello che si è studiato: se l’88% dei ragazzi si dice «complessivamente soddisfatto» dell’esperienza universitaria, ci sono significativi intervalli che differenziano gli atenei e le carriere. Solo il 69,1% dei laureati, per esempio, sceglierebbe nuovamente lo stesso corso e lo stesso ateneo. Solo la metà dei laureati occupati a un anno ritiene che il loro titolo sia «molto efficace o efficace», ossia svolge effettivamente una di quelle professioni previste dal corso di laurea. Un giudizio che, complessivamente, sembrerebbe giocare a favore di un intervento sui percorsi formativi da parte del nuovo esecutivo.

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