(Fonte: "
la Repubblica")
Colazioni per scambiarsi contatti, pranzi a
tema per fare rete. Ecco come cambia il modo di cercare un impiego (e i
clienti) in un mondo di professionisti sempre più fluidi e nomadi.
Ogni mattina, in Italia, un professionista
si sveglia e sa che dovrà correre velocissimo a colazione. Lì, in un bar
alla moda o al buffet di un quattro stelle, incontrerà altri
professionisti di ogni
età con un caffè, una spremuta e la speranza non troppo vaga di trovare
nuovi clienti o un lavoro.
Benvenuti nel mondo in cui il curriculum è
un reperto archeologico, i confini tra mestieri scompaiono e il tempo
libero si mischia con quello dell’ufficio (per
chi ancora ce l’ha o lo sogna). Un mondo in cui il lavoro si cerca tra
uno spritz e un bicchiere di rosso, scambiandosi contatti e facendo gli
incontri giusti al tavolo di un bistrot, che sempre di più, del resto, è
l’ufficio dei nuovi globetrotter, liberi
professionisti o professionisti liberi, capaci di unire competenze
lontane e diverse.
(...)
Da tempo, i nuovi professionisti - digitali e
non, millennial o più grandi - hanno preso a costruire relazioni di
lavoro in contesti che una volta avremmo considerato improbabili, a meno
di non scomodare
l’Oscar Wilde della massima «i migliori affari si fanno a tavola».
Colazioni a tema, happy hour, cene. Che si chiamino Aperijob, AperiHub o
Fiordirisorse, l’obiettivo è riunire persone che dallo scambio di
conoscenze possano portare a casa un contatto cruciale.
(...)
In Italia, più che per questi esempi
virtuosi, il networking è passato alla cronaca per la sortita di un ex
ministro secondo il quale « nel lavoro si creano più opportunità
giocando a calcetto che a
spedire curricula». «Quella frase è infelice perché suggerisce l’idea
che basta avere i contatti giusti e zero competenze per farcela » spiega
Francesca Parviero, learning experience designer. « Invece nel
networking le skill sono essenziali: fare rete vuol
dire riuscire ad avere perché si è capaci di dare » .
Negli Stati
Uniti, patria dei network internazionali più strutturati, c’è chi ha
iniziato a vedere il fenomeno in una chiave più critica e a mettere in
guardia. Adam Grant, professore alla Wharton School
della Pennsylvania e autore di Give and Take, ha scritto di recente sul
New York Times che il networking è sovrastimato: «È vero che fare rete
può aiutare a fare grandi cose, ma è vero soprattutto il contrario: è
fare grandi cose che aiuta ad avere un buon
network». La ricetta migliore resta allora quella che all’happy hour
unisce il confronto di competenze vere.
(...)
Negli anni 80, se
chiedevi aiuto a un professionista, ti avrebbe detto: penso a tutto io.
Mai qualcuno ti avrebbe messo in contatto con un collega gettandogli
addosso una luce ancorché
riflessa. Il networking invece accende questa magia. Dagli anni 80 si
può uscire vivi, allora. Anche con un prosecco in mano.
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