giovedì 27 aprile 2017

Dai campi estivi alla governante il welfare privato dell’industria

(Fonte: "Affari&Finanza")

Quando si scopre che il 40% dei dipendenti privati riceve un premio di produttività grazie ai contratti integrativi, e che il 25% può optare per un paniere di benefit, non si può fare a meno di concludere che qualcosa di nuovo e di significativo stia effettivamente accadendo nel mondo del lavoro italiano.  Abbiamo  ormai  ventimila  contratti aziendali e territoriali che distribuiscono bonus di risultato a 5 milioni di dipendenti. Un quinto di questi contratti offre a circa tre milioni di lavoratori quello che viene definito il “secondo welfare” o welfare aziendale: un vestito su misura di beni e servizi che le imprese cuciono addosso ai propri dipendenti.

C’è di tutto in questa operazione di sartoria: dal classico carrello della spesa alle polizze sanitarie, dalle borse di studio per i figli ai campi estivi, dal babysitting on demand all’aiuto psicologico, dall’asilo nido alla  previdenza  integrativa.  Lì dove lo Stato non arriva, arriva il tuo datore di lavoro. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe obiettare. È da oltre un secolo che  le  aziende,  soprattutto  le
più grandi, cercano in vario modo e con fini diversi di prendersi cura del benessere dei propri lavoratori. All’inizio con interventi invasivi e totalizzanti: alloggi, scuole, strade, strutture ricreative e assistenziali. Il villaggio operaio di Crespi d’Adda, con le sue casette complete di giardino e
orto e la piscina al coperto, nasce già alla fine dell’800. In piena era fascista viene costruita la
Città Sociale di Gaetano Marzotto, dove ci sono persino uno stadio e un teatro. E ancora nel
dopoguerra  l’idea  del villaggio operaio viene riproposto  da  Enrico Mattei con Metanopoli,
mentre la Fiat di Valletta distribuisce i libretti azzurri delle mutue e organizza le colonie estive per i  bambini. Con Adriano Olivetti, poi, il welfare di impresa esce addirittura dalla dimensione aziendalistica (dove gli scopi sono quasi sempre  la  produttività e in non pochi casi l’allontanamento  degli operai da sindacati e partiti di sinistra),  e  assume  le  forme  di un’utopia  sociale,  quasi  una
sorta di socialismo aziendale.

Quei grandi progetti oggi sono  solo  un  ricordo:  l’impresa non pretende più di organizzare ogni aspetto della vita dei propri dipendenti ma più modestamente offre loro pacchetti di benefit tra i quali il lavoratore è libero di scegliere. È il modello Luxottica, seguito da molte altre aziende. Oltre a differenziare i servizi proposti, quel modello prevede fin dall’inizio la loro negoziazione con i
sindacati. Insomma, basta con il paternalismo, largo alla contrattazione.
Ed  è  proprio  partendo da questo principio che il governo Renzi decide alla fine del 2015 di intervenire per dare un colpo di acceleratore agli accordi aziendali e territoriali.
Da una parte reintroduce  la  detassazione  dei premi di produttività (solo  il  10%  al  posto  delle
normali  aliquote  Irpef), dall’altra consente ai lavoratori di sostituire il premio con una serie
di benefit  totalmente esenti, incardinando quindi il welfare aziendale all’interno della contrattazione. All’inizio lo sgravio viene applicato a premi fino a 2 mila euro e ai lavoratori con reddito fino a
50 mila. Poi, con la legge di bilancio 2017, salgono sia l’uno che l’altro: 3 mila e 80 mila euro.

Ma sgravi a parte, è soprattutto con la lunga serie di prestazioni offerte in sostituzione dei premi che il governo spera di  favorire  la  diffusione  dei contratti  di  secondo  livello, pressoché sconosciuti alle piccole imprese. Si va dall’istruzione ai buoni spesa, dalla previdenza integrativa al telelavoro, dai congedi parentali all’assistenza  sanitaria.  Le  ultime due in cima alla graduatoria delle  prestazioni  più  richieste, secondo il nuovo Rapporto Wellbeing di OD&M Consulting (Gi Group).

Poco alla volta, sindacati, lavoratori e aziende si lasciano convincere dal nuovo welfare aziendale. Sembra un sistema in cui tutti alla fine guadagnano: il lavoratore ottiene subito i servizi che desidera senza pagare un euro di tasse; su quei servizi l’impresa non versa i contributi, senza tuttavia che questo riduca in modo significativo la futura pensione del dipendente. Il risultato è un clima di relazioni più sereno e un più elevato grado di “fidelizzazione” dei dipendenti. L’interesse per i benefit detassati comincia a diffondersi e si traduce a poco a poco in una robusta crescita dei contratti integrativi e in particolare di quelli che prevedono forme di welfare. Nel 2014 i lavoratori  meritevoli  di  premio erano due milioni e 700 mila. Oggi hanno superano i cinque milioni, tre dei quali possono optare per il welfare. Il segno che questa volta non sono solo le grandi imprese  a  farsi  coinvolgere,  è l’accelerazione degli accordi territoriali - quelli preferiti dalle imprese  minori  -  ormai  quasi  il
20% del totale. Resta invece ancora molto indietro il peso del Sud e delle Isole, con contratti integrativi che non riescono ad andare oltre il 7,5% del totale.

Dunque, sono soprattutto le piccole e medie imprese del Centro-Nord a rompere gli indugi e a seguire almeno in parte l’esempio tracciato dai gruppi più affermati. Che intanto rafforzano ancora  di  più  i  pacchetti  welfare previsti dai loro integrativi: Ferrero con i suoi bonus agli orfani dei  dipendenti,  Fiat-Chrysler con mense, testi scolastici e centri estivi, Nestlé con il nido aziendale  alla  Perugina,  Ikea  con  i quattro mesi di congedo parentale pagato. E ancora una volta Luxottica,  il  gruppo  apripista, che in aggiunta a tutti i servizi offerti già da tempo, mette a disposizione dei suoi dipendenti due nuove figure atipiche: lo psicologo e il maggiordomo. Il primo offre servizi di counseling giorno e notte. Il secondo paga le bollette, ritira gli esami medici, porta i vestiti in lavanderia, conciliando così i tempi del lavoro con quelli della vita privata dei dipendenti. I piccoli e medi imprenditori, che non hanno la capacità di offrire direttamente tutti questi panieri, ricorrono ai voucher e uniscono le forze in reti territoriali. Andrea Keller, ad di Edenred Italia, società del gruppo leader nel mondo nei servizi prepagati alle imprese e inventore del ticket  restaurant,  è  ottimista: «Dall’ultima ricerca da noi commissionata alla Doxa risulta che il 78% delle pmi considera il welfare aziendale un’occasione da cogliere assolutamente. Lo strumento del voucher è a questo riguardo essenziale e noi, dopo le esperienze in Francia e in Inghilterra, lo stiamo utilizzando con successo anche in Italia attraverso il ticket-welfare che coinvolge un’ampia rete di operatori accreditati». 


Sono proprio questi operatori esterni alle aziende a ingrossare il giro di affari del welfare  aziendale.  Tenendo  conto che il premio di risultato destinato  a  ciascun  lavoratore  è  tra 1.000 e 1.500 euro, e che i dipendenti che possono scegliere i benefit sono circa 3 milioni, il business complessivo potrebbe aggirarsi tra i 3 e i 4,5 miliardi.

Tutti soddisfatti dunque? Imprese,  lavoratori,  operatori  del welfare? In realtà questo sistema non è privo di punti deboli. Innanzi tutto l’accesso è ancora negato ai tre quarti dei dipendenti privati, e a quasi tutti quelli residenti nel Mezzogiorno. E c’è poi una preoccupazione di fondo che coinvolge il rapporto tra pubblico e privato. Lo spiega  Franco  Martini,  segretario confederale della Cgil, che pure condivide la diffusione dei benefit d’azienda: «Attenti a non depotenziare  lo  stato  sociale.
Se il governo da una parte riduce la spesa sociale e dall’altra detassa il welfare aziendale (riducendo così le entrate pubbliche), non fa che trasferire risorse da chi è più debole a chi è in grado di pagarsi i servizi sociali grazie alla sua azienda, ossia a una  minoranza  fortunata,  in prevalenza dipendenti di grandi aziende del Nord. Il problema si manifesta in modo particolare nella sanità, dal momento che le polizze private sono tra le prestazioni più richieste in azienda. Dunque, va bene il welfare aziendale  ma  a  patto che non scatti questo travaso ingiusto di risorse». Di parere opposto  è  la  ricercatrice  Franca Maino, che per il Centro Einaudi ha curato l’ultimo rapporto sul secondo welfare: «Non vedo questo  rischio  di  sostituzione pubblico-privato,  oggettivamente lo Stato non può garantire e di fatto non garantisce tutta una serie di servizi particolari, come per esempio quelli che facilitano la vita delle donne. Deve invece puntare su servizi universali, a cominciare dal contrasto alla povertà e al disagio. Le risorse pubbliche per tutti non ci sono, è bene saperlo». Eppure in molti casi lo Stato sembra ammainare la bandiera anche nei cosiddetti servizi universali, se è vero, come ci spiega il Censis, che undici milioni di italiani  hanno  rinunciato  alle  cure per motivi economici o per via delle lunghissime liste d’attesa.
Proprio alla luce di questa incapacità del welfare  pubblico di  tener  testa  ai  bisogni  crescenti dei cittadini, c’è chi guarda con sospetto al doppio filo (tra salario e welfare) che unisce in modo sempre più indissolubile il lavoratore  alla sua azienda: se sarà quest’ultima a offrirgli gran parte dei servizi
sociali, il timore di essere licenziato potrebbe spingerlo ad accettare  condizioni  di  lavoro
peggiorative pur di non perdere il suo welfare oltre al suo stipendio. Anche per questo, dicono i sindacati, è importante che lo Stato non arretri sul terreno della spesa sociale. Così come è necessario che quei panieri di benefit aziendali restino ben radicati all’interno della contrattazione tra sindacato
e impresa e non vadano a sostituire pezzi crescenti di salario.


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